LA POESIA DI CLAUDIO POZZANI
“Ti ho visto in faccia in quella stanza / io sporco di sangue e muco / tu stravolta e curiosa. / Ho tentato di dirti che non ero sicuro / di voler restare fuori di te / ma le parole che avevo in testa / nella mia bocca si impastavano male /…. / ti avevo appena fatta soffrire / ti avevo fatta sanguinare / eppure ero io a piangere e tu a sorridermi /… / Ti ho visto in faccia in quella stanza / e darei tutto quello che ho per ricordarmene.” Versi estratti dalla poesia con cui si apre questa autoantologia di Claudio Pozzani Spalancati spazi (Passigli), che non si legge come antologia, perché suona e parla come opera completa, conclusa, unitaria. D’altro canto a Pozzani può riuscire un simile sortilegio, intendo raccogliere, selezionando, versi elaborati da anni, spesso editi in volumi nelle molte lingue in cui il poeta è tradotto, e ricavarne un libro unitario, che pare scritto di getto in un tempo concentrato: non dimentichiamo che questo poeta atipico, unico, è fondatore e responsabile del “Circolo dei Viaggiatori nel Tempo”. Sa viaggiare nel tempo anche facendo presente, attuale, neonato e pieno, un libro scritto in tempi diversi. Inizio la mia riflessione con versi intensi e lancinanti tratti dalla poesia che apre il libro, una poesia in cui il poeta rivive la propria nascita. La poesia è intitolata A mia madre, e, lungi dalla caduta nel sentimentale che il soggetto può certamente favorire, non esprime alcun sentimento idillico, ma il senso creaturale e cosmico di ringraziamento alla vita, e di attonito stupore. Lo spirito è quello di Francesco nel Cantico delle creature, il background, l’eco forse inconsapevole, le poesie sulla nascita del grande Dylan Thomas, Vision and Prayer e I dreamed my genesis. Credo che Thomas e Whitman siano i due dioscuri, nonché poeti di culto del viaggiatore nel tempo che apre il suo libro con questi versi di commovente pietà cosmica. Forte percezione della vita, non vitalismo (con la sua congenita virulenza da esteta) ma vitalità, nella quale convivono gioia e malinconia, eros e ardimento. Questa mi pare la cifra di Claudio Pozzani, il Principe Azzurro della Poesia. La ama tutta, ha fatto di Genova, con i suoi Festival, una capitale mondiale della poesia. In un bailamme veramente genovese, in cui si accalcano canti, tamburiate, nacchere, percussioni, musiche, balli, film, filmati, luci, azioni sceniche, troneggia la poesia. A Genova, Pozzani, che non è certo un viziato riccone, ma un appassionato e disinteressato viaggiatore nel tempo, nei paesi, e nei luoghi della poesia, e deve far fronte ai tagli continui e tremendi alla cultura, ha portato e porta il meglio, Walcott, Soyinka. I grandi scrittori amano tornare a Genova (una delle città più belle mai esistite, negletta dagli italiani, amata solo dai pazzi e dai poeti come Campana, Caproni, Frénaud, Valéry, il sottoscritto) per leggere a Palazzo Ducale e pranzare o cenare con Pozzani. Memorabile il pranzo che Alvaro Mutis, il magico scrittore figlio di ambasciatore, volle ripetuto per sé e signora, e il fortunato sottoscritto, a casa dei genitori di Claudio. Ho scritto, quando compì cinquant’anni, “Claudio Pozzani da oggi sarà un cinquantenne ma resta quello che è: un bel ragazzo. Che ama la poesia, l’avventura, la vita. Che vive la vita e fa vita.” Pozzani è poeta. L’ho incluso in una mia antologia di poesia e teatro, Bona vox, che fa suonare tra poesia e teatro voci nuove o note ma innovative, Bortolussi, Rafanelli, Morasso, Pagni: la poesia torna in scena. Pozzani danza sulla pagina con il ritmo della sua voce da poeta blues, canta narrando, sincopando, assolutamente non rapper: è un trovatore dell’età del rock. Incontenibile sulla scena, la sua poesia vive anche, in pieno, sulla pagina, la fa muovere, la fa tornare viva, frusciante. Le composizioni lunghe sono per certi versi le più originali, si tratta di veri monologhi in versi, in cui la voce non è attesa per la recita, ma colei che detta e scrive le parole. Il che determina una poetica, felicemente espressa in una composizione dal titolo inequivocabile e felicemente sapienziale: Cerca in te la voce che non senti. Significativo il sottotitolo: Invocazione per voce, cassa toracica e solitudine. Recitata batte una musica di effetto quasi sciamanico, letta sulla pagina non perde la sua ritmicità potentemente cantilenante, ipnotica: “Cerca in te la voce che non senti/ mangia l’universo se non la comprendi”: è il leit motiv, il ritornello ricorrente, che apre e conclude la composizione, di forte intensità visionaria. Davvero si percepisce la ricerca della voce che non si sente, della voce prima, preindividuale, in un’esperienza da, secondo Aristotele, “sogno bianco”, sogno del mattino, in cui visione notturna e lucidità diurna si incontrano: basse case dai tetti spioventi, profumo di terra, di foglie, di stagni, e sinistri paesaggi di candido marmo. Vermi su un fondo fangoso e topi nuotanti in ruscelli d’acciaio, ombre di creta che camminano stanche, fantasmi obliqui stampati sul muro… Non si cada nell’errore di interpretare questa visione come un’esperienza surrealista o postsurrealista, anche se nel suo eclettismo può darsi che Pozzani non provi affatto la ripulsa di chi lo sta presentando verso quegli automatismi dopati. No, qui l’esperienza poetica è davvero visionaria, ma senza alcun abbandono onirico, le parole indicano semmai una dimensione affine all’esperienza sciamanica. Questa è una poesia breve ma densissima dal punto di vista teatrale; le composizioni lunghe sono, ripeto, monologhi in versi o recitativi, mentre le poesie brevi, pur non scostandosi dalla cifra ritmico fonica dell’autore (mai una parola priva di senso, a differenza di chi, cercando la fonè, spesso dimentica parola e senso, quindi la necessità stessa da cui nasce la poesia), mostrano il mondo di Pozzani, cosmologico, ma anche liricamente vissuto. A parte la felice intensa poesia di apertura, con il bambino che divenuto uomo sogna disperatamente di ricordare il volto della madre mentre lo stava dando alla luce, poesia lucida e barocca nel suo strutturante paradosso, il libro è ricco di visioni da cinema di classe: “E’ una frullata di muri di acciaio e di cristallo/ ciò che bevono i miei occhi”, nella toccante Breaking News, ritmata dal verso ripetuto come un mantra, “Non accendere la TV”… poesia di addio che mi evoca La voce umana di Cocteau e in genere il tema della solitudine e dell’addio. Poesie narrativamente pregnanti, versi che restano impressi, cosa rara: “Mi guardo attorno e vedo muri/ persino il mio specchio è diventato un muro”, nella pulsante La marcia dell’ombra. E poi, nella scia dei cantori della capitale che spalancò all’Europa il Nuovo Mondo, della Genova elettrica di Campana, rosseggiante e misteriosa e lucente e notturna di Caproni, Frénaud, di me che sto terminando questa introduzione, la palpitante Genova, saudade e spleen: “Abbiamo salsedine anche nel cuore/ abbiamo salite e discese/ anche nelle strade dei nostri sogni.” Genova ringrazi Claudio Pozzani anche per questi versi. E ogni lettore segua Claudio Pozzani nelle salite e discese dei suoi, dei nostri sogni.
Prefazione