“IO NON SONO IL MIO SINTOMO” DI RENZIA DINCÀ

“IO NON SONO IL MIO SINTOMO” DI RENZIA DINCÀ

Questo è Il lungo cammino della passione umana tra speranze e lacerazioni 

Renzia D’Incà con Io non sono il mio sintomo (I Quaderni del Bardo) ha scritto una raccolta/specchio: una poesia dopo l’altra si vede, si sente, passare un’esperienza complessa, inattesa, sofferente, ma anche sorprendente, drammatica, allegra, desiderata. Tuttavia mentre l’autrice si guarda, controlla, constata, non c’è certezza che l’apparenza sia sostanza.. Le parole affermano una verità, ma gli occhi e i suoni subito, insieme, la mettono in dubbio, e in certi momenti la contestano. Le variazioni sono inattese, inseguite, mai risolutive. Sembra un gioco del dire e del dubitare, in realtà è l’analisi dello scompenso tra realtà e finzione. L’Io si espone, e subito dopo si nega. Sembrerebbe tutto semplice, ma il gioco diventa ossessione. La. ricerca della verità, che in fondo è l’obiettivo primario, risulta impossibile. La verità c’è, ma non è identificabile nella trasposizione. L’autrice sperimenta un doppio linguaggio: la linea del sentimento è nello stesso tempo, quasi in un percorso collaterale, anche la sua negazione, inconsapevole, però sull’onda della volontà di conoscere l’invisibile. Ricchezza di metafore, similitudini, interrogativi, immagini disvelatri-ci che subito si affondano nell’inconoscibile. La lingua è seria, sciolta, spontanea. E accanto scorre una seconda visione che vorrebbe sconvolgere gli equilibri espressivi. I temi sono molti, i momenti sono folgorazioni dubitative, e quando invece sono determinative subito si ammantano di una duplice ipotetica significanza. Un sottopensiero continuo accompagna le visioni: il senso indeterminato di Ermete Trismegisto, segnalato in esergo, con i “miracoli della realtà”,  cioè il misterico sconosciuto mondo dei possibili. Il racconto è multiplo: le direzioni sono innumerevoli e talvolta si incrociano, ma altre volte corrono parallele o si mimetizzano. Il tempo è indeterminato, le età si rincorrono. La vecchiaia è in attesa di farsi scoprire, la natalità è incerta, e la vita può anche essere arte. La speranza che nulla finisca è umiliata dal vuoto che appare e sembra sconvolgere tutto nell’indifferenza. La malia della casa, nel rischio dispotico, e nella necessità del sogno. I ricordi sono vita contraddittoria. Versi storici appaiono agli occhi, senza risolvere alcunché. Un certo fatalismo condiziona i desideri. Nella casa a un certo punto dominano i gatti. Il mondo è un palcoscenico, ci sono protagonisti e comparse. E la morte è lì, presente, ancora non attiva, ma agisce altrove. Uomini e donne non sanno convivere tra cattiveria e ipocrisia. Il panorama dantesco aiuta o inquieta? Forse le bestie sono come gli umani? Ma gli umani forse sono disumani, e bisogna guardarsi da loro. La natura è buona? Forse.non è dimostrabile. Uccelli, corvi, e clandestini. Stragi, Torri Gemelle. I mici aspettano, sensibili. E non capiscono le persone non umane. Rabbia e passione. Le cicale sono sconce. Il mondo dei bagni di sangue. Paesaggi indomiti e duri (la Maremma). ‘Ordinario furore” delle domande (a Dio?). Chiedere il centro del desiderio. Dove si può andare? C’è una chiave per volare? Si vive nel teatro del malcontento. E all’improvviso il Covid che costringe a stare insieme (non bene): i morti sono gratis. Stranezze sì, ma umanità, prego. Ascoltare De André. I controlli di polizia. Essere sposa del proprio niente. L’inconscio imperversa. Difficile rivelare  segreti. I corpi si espongono e subiscono. Bisogna dare nome al dolore, “ai profughi alla porta”. Un nome alla vita. Attenti, c’è sempre un invasore. Scendere dal cloud, incontrare il corpo, e le città nel mondo, ma non su Facebook. Le radio spiegano, raccontano. Ballare il valzer, io e te. Ricordare i lager. “Basta, guerriero”, riposa. Festival del corpo. E viene la Parola: rivela qualcosa? Eden e redenzione. E amore, fatto di parole, da inseguire. Rammentare Firenze, Vasari, Stendhal, Schubert. Andare in orbita, e poi un “diverso amplesso”.  Parole pesanti, parole di amanti. Ci vuole lungimiranza. Melodia per una gatta. Alla fine del lungo cammino c’è l’Oroboro, Dunque, ascoltare la parola innamorata. Una scrittura coraggiosa. Multicolore e multistupore. Rime baciate, assonanze continue, selezione delle parole che incantano o distolgono. Un’attesa non sillabata, ma auspicata. Una felicità composta, leggera, nascosta. Ma appare la malinconia, la solitudine, e la follia umana che insegue i valori e perde la strada. Un’ammonizione per un futuro migliore. Qualcuno ascolterà, forse.

Ottavio Rossani

Prefazione

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