SUL PERCORSO POETICO DI RENATO MINORE di Alberto Casadei

SUL PERCORSO POETICO DI RENATO MINORE di Alberto Casadei

L’autoantologia poetica di Renato Minore Ogni cosa è in prestito (La Nave di Teseo 2021) può essere attraversata partendo dalle raccolte originarie e tenendo conto delle tante altre scritture (narrative, saggistiche, giornalistiche) dell’autore: lo fanno con competenza Giulio Ferroni e Simone Gambacorta rispettivamente nella prefazione e nella postfazione. A completamento, oltre a numerosi contributi su Minore poeta (per esempio quello di Raffaele Manica che accompagna O caro pensiero, la raccolta del 2019 edita da Aragno e vincitrice del “Viareggio”), si potrà anche leggere la bella intervista rilasciata a Massimo Pamio il 14 settembre 2022 per il sito benandanti.it, in cui l’autore ripercorre le tappe fondamentali della sua formazione e delle sue varie produzioni intellettuali, sino a quella che ha portato a un volume coinvolgente e ibrido sull’amatissimo Ennio Flaiano, scritto a quattro mani con Francesca Pansa (Ennio l’alieno: i giorni di Flaiano, Mondadori 2022). Proprio in quest’ultimo si possono forse trovare spunti per decodificare la tensione poetica di Minore, che si manifesta in forme molto varie e a volte tra loro lontane, dal mistilinguismo materico e sperimentale del Convento francescano, con tante parentesi sanguinetiane; alla limpidezza da pittura metafisica e da poesia onirico-filosofica di un testo notevolissimo quale La piuma e la biglia; sino (per ora) ai toni dialogico-discorsivi che troviamo, un po’ in pagine di diario e un po’ in variazioni su temi danteschi, nella sezione Error system, scritta durante il periodo pandemico. Ma dietro queste (o altre) manifestazioni così diverse, troviamo la costante ricerca di una parola che, pur accettando i rischi dell’imprecisione e l’inevitabilità della menzogna, persino involontaria, viene sforzata per giungere a collimare, a sovrapporsi con la massima esattezza alle sensazioni e ai pensieri che di continuo emergono da uno scompensato confronto con l’esistere. Ed è quanto ha fatto Flaiano per poter parlare della malattia della figlia Lè-Lè, continuando a voler scrivere (non narrare abbellendo, non poetare enfatizzando) per giungere all’intensissimo poemetto La spirale tentatively, che è uno dei massimi esempi in lingua italiana di pensiero poetante. Quest’ultimo segnale, che ovviamente rimanda alla definizione proposta per Leopardi in un celebre saggio di Antonio Prete, non serve tanto allo scopo di rinviare in astratto alle vulgate heideggeriane, bensì in concreto alle chiavi stilistico-cognitive che possono, oggi, rendere adeguata un’azione sulla lingua, priva di qualunque aura dell’Origine, ma comunque riplasmabile sino a fornire, a quella che chiamiamo ‘esperienza incorporata’, una manifestazione idonea attraverso le parole e i versi. Per lungo tempo, nella fase classica, la corrispondenza tra una compiutezza formale ineccepibile e una nettezza di pensiero esplicita, come da precettistica oraziana, era di fatto imposta; ma nel periodo moderno, l’esperienza percepita attraverso il corpo si è potuta esprimere invece come coacervo stilistico e confusione illogica, nelle tante tendenze tra romanticismo, avanguardie e post-avanguardismi. Minore, grazie alla sua ottima competenza letteraria e ai suoi studi specifici (da Leopardi, appunto, a Rimbaud alla letteratura tra Otto e Novecento in genere), è ben consapevole delle possibilità disponibili, e addensa le sue ricerche attorno ad alcuni nuclei forti. In una prima fase, grosso modo sino agli anni Ottanta, un tratto ricorrente è quello della disgregazione, ovvero dell’accostarsi a un mondo (o a singoli individui) che rivela presto la sua natura di inganno e di marciume. Esemplare il gruppo di testi raccolti nel Taccuino dei sogni guasti, in cui si legge: “Seguivamo senza fiato / i riti della Pasqua: / l’agnello che toglie / ogni peccato al mondo / deturpava la scena. / Imbrattavano i muri, / fischiavano le comparse. / Qualcuno chiese l’ostia / consacrata, abyssus / abyssum invocat: e ebbe / per consolazione / cibo avariato / a fettine come / dicono tagliavano corpi / i sopravvissuti / sull’aereo maledetto / finito sulle Ande”. Da questo senso di profondo disgusto e di trasgressione grottesca, alla Bulgakov, derivano aspetti stilistici riconoscibili, per esempio le citazioni depotenziate di poeti canonici, come Montale, oppure la sottolineatura della bugia, del ‘buggerare’ (persino da parte dei santi), della commistione da ‘sozzo trescone’, degli scongiuri apotropaici. In questo mondo deformato come in un lungo incubo, emergono le figure di scrittori cari, Leopardi (riletto attraverso gli sguardi di tanti suoi ammiratori e parenti, come Paolina) e Flaiano, certo, ma anche Umberto Saba o Mario Luzi, con i quali si può forse instaurare un rapporto più profondo e rigenerante, così come Minore ha fatto in tanti suoi libri, saggistici o ricchi di interviste a poeti contemporanei. In effetti, una cifra individuabile nella fase tra anni Novanta e Duemila è quella del dialogo continuo con le suggestioni che, soprattutto sul senso del vivere in un mondo privo di dèi, derivano da scienziati o intellettuali. Nella sezione dal titolo Nella notte impenetrabile (già della raccolta edita nel 2002 da Passigli), sono molte le epigrafi che indicano una forte propensione allo scavo gnoseologico, che si tratti di un’indagine su Le conchiglie sotto l’egida di Gregory Bateson (“La mappa non è il territorio. / Il nome non è la cosa designata”) e in dialogo con Jean Guitton riguardo all’intelligenza della materia; o di suggestioni ricavate per esempio da Claude Levi-Strauss o Giorgio Parisi. Anche La piuma e la biglia presenta un’epigrafe molto importante, da Wittgenstein: “Ciò che può essere mostrato non può essere detto”. Si tratta certo della ben nota irriducibilità dell’ente visualizzato al discorso che lo descrive, ma poi, come abbiamo accennato, il testo è una sorta di riflessione sull’origine del movimento e quindi del reale: a lungo quattro biglie colorate (nell’ordine, rossa, verde, bianca e nera) rimangono ferme, restano in attesa di uno sparo che non arriva, finché una semplice piuma sfiora appena la prima e allora tutto ha inizio. Un’allegoria onirica del Big bang? Uno spazio alla Escher che si anima senza che si possa capire perché? Una sequenza alchemico-junghiana? Certo, un’interrogazione sul prima di ogni esistenza, che non vuole fornire una banale spiegazione, bensì complicare, nella dimensione poetica, quanto sembra di poter apprendere in quella cosiddetta scientifica. Se non si può dire davvero quello che intuiamo della realtà, possiamo però far sì che le nostre parole, creando uno stile, inducano a pensare il mondo e noi stessi come un paesaggio fantastico e tutto da decifrare: non a caso, l’immagine più forte di tutto questo affascinante poemetto è quella finale, in cui la piuma continua in qualche modo a operare con altre biglie, “sepolte nell’imbuto / a guardarsi come / Narciso alla fonte”. Dove esteriorità e interiorità sono legate in modo indissolubile, dato che l’autentica conoscenza del reale non può prescindere da quella strenua del sé. E ancora da un’altra angolatura, quella della familiarità, viene ripreso questo cammino nelle poesie più recenti, dove appunto il dialogo è spesso con le persone più vicine, ma in effetti anche con sé e con quell’io che “è tutto qui” e insieme è di continuo cangiante. Ecco un passo decisivo, O caro pensiero: Ora capisco / che il gioco non è la corda / che tendi ma la scatola / che richiudi / a prova d’erosione”. L’inseguimento del sé come pensiero diventa qui un’ipostasi, una situazione poetica che rinvia a un’allegoria della realtà. Solo che tutti i tentativi di decifrarla con un atto preciso, come il tendere la corda di un arco, risultano alla fine insufficienti, perché la scatola stessa immaginata dal pensiero, e dentro cui dovrebbe evidentemente stare la realtà, viene invece chiusa in maniera ermetica. Il gioco è questo e l’ambito di riflessione vira spesso da Dante, Leopardi e Montale all’ultimo Caproni, con i suoi cortocircuiti linguistico-logici inaccettabili nel discorso comune. Si colgono in questi componimenti molte frasi di gusto aforistico, molte verità sapienziali che non aspirano a essere perentorie ma a farsi accogliere. E addirittura, nelle poesie del 2020-21, si afferma che ‘il sistema è errore’, un costante “Error system” che rovescia il banale “System error”, l’errore di sistema che blocca i computer. Ma persino in mezzo alla pandemia continuano ad arrivare segnali, apparizioni oniriche, frasi sentite e decontestualizzate, notizie di vicende misteriose, e quindi la ricerca non può che proseguire, magari partendo dal Dante riletto nel chiuso della stanza in cui si deve stare rinchiusi. Il pericolo è quello, ormai terribile nell’era dell’interconnessione costante, di essere privi di collegamento: “Questo brusio della mente / nel perdersi delle cose / e non saperle / restando all’oscuro / scollegato”. Ma non così si chiude il libro di Minore. Proprio perché la consapevolezza raggiunta è quella che “ogni cosa è in prestito / anche il dolore”, la poesia-ricerca procede, cambiando obiettivi, cambiando stile, e tuttavia non abdicando alla sua prerogativa di suggerire ancora le modalità per trovare la cifra giusta almeno per alludere a un quanto del sé, ovvero alla sua unità minima. Così recita uno degli ultimi componimenti: “E mi assicurano / che sono come tutti / un bellissimo glitch / nel grande software / dell’universo e non l’app / di maggior successo / come forse m’illudevo / nei picchi di megalomania. / E così dovrò essere sempre / più responsabile nei confronti / della storia che scrivo / e della natura di cui / dovrò prendermi cura”. Possiamo essere glitch, errorino momentaneo dell’elettronica, ma il poeta continua a prendersi cura, continua, come Minore, la faticosa ricerca di vacillanti e però indispensabili punti d’appoggio.

Alberto Casadei

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