RICORDO DI PAZZI di Matteo Bianchi

RICORDO DI PAZZI di Matteo Bianchi
A Roberto Pazzi, con infinita riconoscenza
Non c’è mattino, quando salgo in auto per andare al lavoro in un centro commerciale, ogni volta che la manutenzione meccanica dell’ordinario stringe ai fianchi, che non mi rimbombi in testa il monito di Roberto Pazzi: la scrittura necessita di un tempo esclusivo, di una solitudine feconda per estraniarsi dalla realtà, persino dal presente, per poi riappropriarsene interamente. L’atto della scrittura, l’atto creativo della parola che s’invera su un foglio “innocente”, lo faceva sentire quasi in estasi, padrone del suo tempo da una finestra imprevista sul retro del mondo. Non a caso, in versi quanto in prosa ha prevalso in lui la prima persona singolare, la voce totalizzante con cui Proust ha concepito la Recherche. La trilogia Cercando l’imperatore, La principessa e il drago e La malattia del tempo, dal 1985 al 1987: l’esordio narrativo di Pazzi fu conteso tra visionarietà e realismo magico, con uno stile letterario in cui la realtà non può essere che contaminata dalla fantasia, ma sul medesimo piano visivo; perché dal suo stravolgimento utopico si può accettare il bacillo di un cambiamento salutare. Senza tralasciare quella ricerca spasmodica di regalità, del “sang royal” di chi non avesse subito il corso massificante della storia, così Nicola II, Aiku, Cesarione, Napoleone, sino all’assoluto dimentico di Giovanni Eterno; senza tralasciare l’utilizzo caparbio di un fantastico di radice ariostesca – di casa sua – che bilanciasse fatuo e fatale, che bilanciasse ciò che lo impoveriva del quotidiano e ciò che lo consumava inesorabilmente. Il suo profumo “Montale”, d’altronde, lo precedeva sempre prima che prendesse la parola. Se in Calma di vento, nell’ ‘87, quando non si era ancora sbilanciato verso le logiche del romanzo, avvertiva il lettore che non l’avrebbe potuto seguire oltre la pagina, oltre l’immaginato condiviso, alla Flaubert, poiché lui aveva rinunciato alla sua stessa ombra per sublimare la carne in verbo, per trasformare il suo buio in inchiostro, ho avuto il privilegio di conoscere un intellettuale che si era già riappacificato con una società ipocrita e con l’uso esclusivista che viene perpetrato del potere e del privilegio. Un intellettuale che mi ha insegnato quanto non valesse la pena alimentare il rancore, poiché avrebbe avvelenato il ricordo del mio vissuto nel futuro, quando ruoli e contesti svaniscono, e restiamo con noi stessi e il riflesso concessoci dagli altri. Giusto due giorni prima di lasciarci, in un istante assopito di lucidità mi sussurrò che «l’assoluto è negli altri».

L’ultimo saluto di Matteo Bianchi, Tempio di San Cristoforo, Ferrara, 6 dicembre 2023

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