Il tempo che trasforma di Patrizia Fazzi
Patrizia Fazzi con questa ben congegnata e strutturata raccolta Il tempo che trasforma (Prometheus, 2020, introduzione di Paolo Ruffilli) va ad arricchire e ricapitolare il materiale poetico delle sue precedenti raccolte, organizzando il libro in eleganti sezioni, ognuna significativamente chiamata, oltre che con il rispettivo titolo, «danza» (Preludio; Prima danza; Seconda danza.., fino al Balletto finale). «La prima cosa da guardare analizzando un libro è la struttura» – avverte infatti l’autrice nella Premessa, facendo proprio l’insegnamento del prof. Giorgio Luti – di conseguenza sono importanti – si potrebbe aggiungere – anche la coerenza interna, la necessità interiore. Un fil rouge che tiene l’insieme dei componimenti qui c’è: il passare del tempo che trasforma le cose, le consuma ma anche le fa crescere, in un continuo sottrarre e aggiungere; coesistono così nella poetica di Fazzi la tematica della «perdita» (come nella sotto-sezione Spoon River Anthology) e quella del Bello che redime la vita, poiché progressivamente, oltre allo sguardo sulla natura umana, emerge forte anche l’amore per la cultura: per la musica, la pittura (si veda ad esempio il soffermarsi sulla «nicchia di luce» per gli affreschi di Piero della Francesca), e infine la danza. Questo perché l’arte – l’arte profondamente intesa – si mostra e ci abbaglia «in mille forme». E al racconto delle mille forme dell’essere sembra ispirarsi anche il linguaggio della poetessa aretina: preciso, essenziale, e allo stesso tempo attento alle sfumature sensoriali, dà origine a versi musicali e godibili grazie all’uso talvolta semplice ma non scontato di rime, assonanze, allitterazioni. Nella prima poesia, in cui si auto-presenta («Sono Patrizia/ e vibrare vorrei di letizia…»), l’insistenza progressiva anche nei versi successivi sulla z a ribadire, quasi rafforzare la presa di coscienza e la dichiarazione del proprio essere se stessa, pur con la «colpa» – che Fazzi in un’altra poesia chiama il «marchio» maledetto del poeta – che però è anche un crisma, quello di giungere «alla soglia del Bello» e aspirare alla «linea di sublime», come nella poesia conclusiva del libro, grazie alla nobilitazione che all’anima danno la musica, la danza e naturalmente la poesia. Mirando a una poesia che non si costruisce tanto di riflessione astratta, quanto di immagini che catturano la «vita che si snoda tra le cose», la silloge di Patrizia Fazzi trascende il dato meramente autobiografico, individuale, per parlarci a un livello più universale. Quel che si coglie dalla lettura è insomma una forte carica vitale che sottende lo spirito vivente, quasi religioso, disseminato nella natura: «sentire il respiro delle cose» è l’immagine che ricorre più volte in queste poesie, «il muoversi ritmato del polmone/ che nell’universo batte…». Il ritmo dei «versi musicati» suadente e ondeggiante, ma mai troppo lungo o cantato, sembra ben più simile al ritmo del fiato vitale che alla modulazione lirica, e perciò misurato, lontano dagli artifici retorici e dal virtuosismo tecnico; non a caso fin dalla prima pagina l’autrice augura semplicemente al lettore: «Che il mio verso/ sia per voi/ quell’onda», e a quell’augurio tiene fede.
Caterina Bigazzi