Tra i massimi poeti italiani del Novecento, già dalla prima raccolta Ossi di seppia, del 1925 (edizione definitiva del 1931) Eugenio Montale fissò i termini di una poetica del negativo in cui il “male di vivere” si esprime attraverso la corrosione dell’Io lirico tradizionale e del suo linguaggio. Poetica che viene approfondita successivamente nelle Occasioni (1939), dove alla riflessione sul male di vivere subentra una “poetica dell’oggetto”: il poeta concentra la sua attenzione su oggetti e immagini nitide e ben definite che spesso provengono dal ricordo, tanto da presentarsi come rivelazioni momentanee e destinate a svanire. Anno dopo anno all’approfondirsi della crisi personale, cui non furono estranei i drammatici avvenimenti dell’epoca, corrisponde raccolta dopo raccolta la ricerca di una densità simbolica e di un’evidenza nuove del linguaggio, con la rinuncia a quanto di impressionistico e ingenuamente comunicativo sopravviveva negli Ossi (nei loro modi di ascendenza pascoliana-crepuscolare, e vociana-ligure secondo la linea Sbarbaro-Roccatagliata Ceccardi) e con il coraggioso riconoscimento della inevitabile parzialità della rappresentazione e della inaccessibile privatezza dei referenti. Montale ha ricercato una densità e un’evidenza simbolica del linguaggio, portando a perfezione lo stile alto novecentesco, dove i termini rari o preziosi si adeguano a esprimere l’irripetibile singolarità dell’esperienza. Si è parlato di una sorta di classicismo virtuale, in cui il poeta riesce a fornire un equivalente (e non un’imitazione) delle forme chiuse e della precisa definizione dell’enunciato, proprie della tradizione, e a far convivere l’aulico e il prosaico in un processo di scambio delle rispettive funzioni, dove i termini rari o preziosi naturalmente si adeguano a esprimere l’irripetibile singolarità dell’esperienza così come le parole del linguaggio quotidiano e “parlato” si caricano di un più inquieto rapporto con le semplici cose da esse designate.
Enciclopedia Treccani