120 ANNI DALLA NASCITA DI NERUDA
“E’ notte: medito triste e solo/ alla luce di una candela scintillante/ e penso all’allegria e al dolo,/ alla vecchiaia stanca/ e alla gioventù gagliarda e arrogante//Penso al mare, chissà perché nel mio udito/sento la furia indomita delle onde:/ sto molto lontano da questo mar temuto/ dal pescatore che lotta per la vita/ e dalla madre che lo aspetta sola // Non penso solo a questo, penso a tutto:/ al piccolo insetto che cammina/ alla pozza di loto/ e a ruscello che serpeggiando/lascia correre le sue acque cristalline cristalline… // Quando la notte giunge ed è oscura/ come bocca di lupo, io mi perdo/ in riflessioni piene di amarezza /e offusco la mia mente /nell’infinita età dei ricordi.// Si esaurisce la candela: i suoi bagliori / somigliano agli spasmi di agonia/ di un moribondo. Pallidi colori /il nuovo giorno annunciano e con loro / terminano le mie alate utopie.” E’ questa probabilmente la prima poesia di Pablo Neruda Notturno. La lirica porta la data del 18 aprile 1918 e reca la firma di Neftalì Reyes. Il vero nome di Neruda: Neftalì Ricardo Reyes Basoalto. Solo più tardi, nel 1920, il grande poeta assumerà lo pseudonimo di Pablo Neruda in onore del poeta ceco Jan Neruda (scelse l’anonimato perché il padre non amava le passioni letterarie del figlio). Notturno è considerata la sua prima poesia giunta a noi grazie alla sorella Laura che raccolse e conservò questa e altre opere giovanili. Quando la scrisse il poeta non aveva ancora compiuto quattordici anni, essendo nato il 12 luglio del 1904 a Parral nel Cile meridionale. Paese che un Neruda diciassettenne così descrisse: “son nato in un polveroso/paese bianco e lontano che non conosco ancora.” Ma sembra che alcune poesie, come ebbe a dire lo stesso Neruda, risalgano perfino ancor prima dei dieci anni. Sorprendentemente in questa primissima poesia, come anche in altre del periodo giovanile, la presenza già di alcuni motivi ispiratori della sua poetica. La tristezza che lo accompagnerà per tutta la vita (medito triste e solo); il mare, motivo ispiratore e costante delle sue poesie (Penso al mare, chissà perché nel mio udito /sento la furia indomita delle onde:/ sto molto lontano da questo mar temuto) e poi il paesaggio: dal piccolo insetto alla Pozza di loto al ruscello serpeggiando con le sue acque cristalline. A questo periodo appartiene anche la poesia Luna, dedicata alla madre, morta solo dopo un mese dalla sua nascita. Il padre. dopo un paio d’anni, si risposò con Trinidad Candia Merverde, la famosa Mamadre . I versi di Luna, poco noti, sono a parer mio degni di attenta riflessione: “Quando nacqui mia madre ne moriva/con una santità di anima in pena moriva./ Era il suo corpo trasparente. Ella aveva/ sotto la carne un luminar di stelle./Ella morì. E nacqui./Per questo porto/ un fiume invisibile dentro le vene,/un invincibil canto di crepuscolo/che mi accende il riso e me lo gela./ Ella unì alla vita che nasceva/la sua sterile ramaglia di vita inferma./ L’avorio delle sue mani moribonde/rese gialla in me la luna piena… // Per questo-fratello- è così triste il campo/dietro le vetrate trasparenti …/… Questa luna gialla della mia vita/mi fa essere un rampollo della morte…” Anche in questo caso è da sottolineare già la presenza di motivi ispiratori cari al futuro grande poeta. A cominciare del titolo Luna che segna già l’appartenenza a un panteismo che, in modo molto originale, il critico Merino Reyes chiamò panteismo egocentrico. La madre è per il figlio un ente materiale e al tempo surreale, lei, essere di terra, mortale, racchiude un pezzo dell’universo: “Ella aveva/ sotto la carne un luminar di stelle”. Molto incisivo e fulmineo l’accostamento tra la madre che muore e lui che nasce: “Ella morì. E nacqui.” Da notare la posposizione dei due avvenimenti: prima lei muore e dopo lui nasce. Le due preposizioni sono intervallate dallo spazio bianco, dal non verso. Il dolore assume la connotazione di un fiume invisibile (altro elemento naturale) dentro le sue vene, e da “un invincibili canto di crepuscolo/ che mi accende il riso e me lo gela”. Verso rafforzato dalla forza ossimorica dall’accendersi del riso e del suo gelarsi. Crepuscolo che ritornerà nel titolo della sua prima opera, Crepusculario del 1923, in cui confluiranno molte di queste poesie giovanili. E poi i colori: avorio delle sue mani, gialla la luna piena. Il paesaggio, insomma, non fa da cornice ma entra nel dramma che si consuma con sentimenti che sono umani: “è così triste il campo/ dietro le vetrate trasparenti…” Anche il suo “sofferto amato” soggiorno italiano è tutto da raccontare. Nel gennaio del 1952 Neruda doveva andare a Capri in compagnia di Matilde Urrutia, una musicista cilena conosciuta anni prima a Santiago. A lei dedicherà l’opera “I versi del capitano”. Neruda aveva accettato l’invito di un ingegnere ed ex sindaco di Napoli, Edwin Cerio , intellettuale e scrittore che si offriva d’ospitarlo nella sua villa di Capri, “La casa Arturo” affacciata sul mare di Marina grande di fronte ai Faraglioni. Neruda desiderava, infatti, rifugiarsi in un luogo tranquillo dove riposare e vivere pienamente la sua storia d’amore con Matilde. Il poeta a quel tempo era sposato con Delia del Carril, raffinata pittrice di alcuni anni più anziana di lui. Ma mentre è a Napoli per imbarcarsi per Capri, per una direttiva del ministro Scelba, gli viene notificato un decreto di espulsione dal suolo italiano per motivi politici. Nel 1950 aveva pubblicato Canto Generale, libro politico per eccellenza che gli costò anche la messa al bando come pericoloso sovversivo comunista. Due poliziotti napoletani sono incaricati di scortarlo da Napoli fino a Roma. Ma alla stazione di Roma si raduna una grande folla di amici, uomini politici, scrittori, tra cui Moravia e Levi, che tentano di sottrarlo dalle mani dei poliziotti. Spintoni, calci e pugni. Si racconta che Elsa Morante prese a ombrellate i malcapitati, e in un certo qual modo, accomodanti tutori dell’ordine. Neruda viene rilasciato. Dopo non molto, potrà imbarcarsi per Capri assieme a Matilde che nel frattempo l’ha raggiunto a Napoli. I due godranno della schietta ospitalità dei capresi. Il famoso romanzo Il postino di Neruda di Antonio Skarmeta è frutto di pura invenzione però riflette il clima di cordialità goduta dai due. Il clima è idilliaco: in una notte di primavera, testimoni la luna piena e i faraglioni, il poeta “sposerà” simbolicamente Matilde infilandole al dito un cerchietto d’oro con la scritta “Il tuo capitano”. Il libro che consegue: I versi del capitano, di autore anonimo, verrà pubblicato a Napoli in soli quarantaquattro esemplari con presentazione di un fantomatico Rosario de la Cerda, dietro cui si celava Matilde Urrutia che così scriverà: “I suoi versi sono come lui: teneri, amorosi, appassionati e terribili nella sua collera…mi fece sentire che tutto cambiava nella mia vita, la mia piccola vita di artista, di gioia, di mollezza, si trasformava come tutto ciò che lui toccava”. Anche in quest’opera emerge il tema del panteismo che allontana così il timore della morte e del nulla. Intanto il poeta continuerà a viaggiare molto e occuparsi di politica: sarà a Cuba e nel 1970 sarà attivo nella campagna presidenziale di Savator Allende. Nel 1971 vincerà il premio Nobel e sarà ambasciatore a Parigi. 11 settembre del 1973, un colpo di stato del generale Pinochet rovescia il governo di unità popolare. Il presidente Allende muore nel palazzo presidenziale. Pochi giorni dopo, il 23 settembre, anche Pablo Neruda muore, ufficialmente per un cancro alla prostata. Ma molti sono i dubbi sulla sua morte. Sempre più spazio, quindi, alla tesi che Neruda fosse stato avvelenato dalla polizia segreta di Pinochet. Importante la testimonianza di Manuel Araya, assistente e autista del poeta: «Ero accanto a lui quando nel pomeriggio del giorno in cui morì, gli fecero una puntura nello stomaco. Dissero che si trattava di un farmaco contro i dolori” Poche ore dopo, Neruda morì.
Molto interessante, Antonio. Vi colgo un amore profondo per un poeta che tutti abbiamo amato e che rimane un faro di civiltà e cultura poetica e politica per le generazioni future. Grazie.