Patrizia Riscica, Il respiro del dolore (Raffaelli Editore) – Tutto, in Il respiro del dolore, vive nell’intermittenza dominata da una direttrice intellettuale: la voce potente della morte. Voce della morte che non è, qui, un’ossessione ma piuttosto una misura di consapevolezza, nel rapporto e nel colloquio costante con l’ombra della cancellazione. E la meditazione sul morire ha, sia pure nell’ottica in sospensione del mistero, una sua attuazione del tutto particolare: è sostanza stessa della visione e del tessuto poetico. Quando perdiamo qualcuno, piangiamo per lui che se ne è andato, ma anche per noi che siamo rimasti senza. Il dolore è intenso per noi, perché viviamo senza. Infatti la morte di un altro non riguarda più l’altro, ma noi. E a noi che restiamo la morte toglie una parte di vita: non abbiamo più futuro con la persona che è andata via. Inoltre, la perdita ci rimette in gioco, porta alla luce rapporti irrisolti con la persona che abbiamo perso. E, nello stesso tempo, porta ricordi intensissimi carichi di quella mancanza della persona che dà sì la sofferenza ma anche l’inquietudine della memoria, con i suoi colori, e rappresenta, proprio sullo specchio della realtà finale, il suo giudizio sulla vita e sul mondo. Un giudizio aperto e in cui la luce non è affatto perdente rispetto al buio. Giudizio che è l’anima stessa di questo Respiro del dolore, ma non tanto in senso etico, quanto liricamente come cifra melodica: quella musica che è la scansione lieve di questi versi intensi e coinvolgenti.