SULLA POESIA DI PIETRO ALOISE note di Roversi e Rondoni

SULLA POESIA DI PIETRO ALOISE

Nei testi di Pietro Aloise, in una successione così incalzante, c’è il senso (non dico tanto il sentimento) di una motivata drammatica complicazione. La paragonerei all’attorcigliarsi di un’onda grossa e forte intorno a un masso che fuoriesce dal mare. Complicazioni di umori, intendo; di disposizione al vivere, quindi con l’impegno costante di verificarla, accompagnarla e magari scansarla con la correlata scrittura. Sembra dunque di essere, di volta in volta, di fronte a questi testi scorrenti, da una riva e dall’altra di un fiume, avendo nel mezzo quel ribollire costante di un fiume/parole, senza soste, e vedremo come. Intanto vorrei cominciare, nello specifico, con alcune domande a cui far conseguire non dico una risposta ma qualche personale schiarimento. La prima: il sud è dunque senza speranza una terra maledetta? No, per me. Nella sua epica disperazione mai consumata e nella sua epica frammentazione è invece terra di cento di mille passate benedizioni e di altrettante possibili e probabili speranze; che il nevischio nero sparso dall’immondizia di anime sporche tende (tenta) sempre di occultare. Ma fino a quando? Intanto il sud ha i suoi poeti che non deludono e non lasciano disperare fino in fondo. Fra loro c’è Aloise, che si unisce a questa banda di spietati giullari medievali, che cantano, urlano, gridano, dicono, prima che una qualche mannaia cerchi di relegarli al silenzio. Vedremo. Ma io credo, anche tornando a rileggere i testi già pubblicati da Aloise, che il suo approdo (anche se non definitivo e alterno) al dialetto era un miracolo ricostruito e un regalo per i lettori da aspettarsi. E’ lì, dentro al dialetto, infatti, al suo dialetto, che la rabbia di Aloise, da sentimento di un escluso (o di un recluso), diventa verità protesa, un movimento aggredente; non una difesa o una offesa scontrosa. È lì dentro che egli stacca la mano dalla angosciata letteratura – che incornicia troppo spesso uno specchio, in tutti i tempi e in troppe occasioni – per ricostruire i frammenti non di una memoria ma di una realtà  che è vita ancora vera, lacerazione vera, niente conclusione, niente aspettazione ma invece anche luce canto sangue e vento. Dentro al suo dialetto, niente è ancora perduto, tutto resiste o può essere ancora riconquistato e difeso, riconsegnato alla verità della vita non sfuggente ma scorrente, con quel suo evolversi dinamico (che è atteggiamento altero, intrepido, in ogni modo), mentre, sia pure in un rigore alto, nell’ambito della sua scrittura in lingua, il senso di un dovere, di una partecipazione di scrittura condivisa (nel senso della letterarietà) alimentava la tensione linguistica fino a farla vibrare per eccesso, a disporsi talvolta acremente sentenziosa, o a riempirla di troppe ombre del disincanto. Nel suo dialetto calabrese, anche la vecchiaia non è questo morso infame ma una mano che brucia e fa fiamma, è cazzo che tiene, spalla che non si acquieta, pensiero che formicola di cento ribalderie, voglia ancora grande che nonostante tutto non si consuma. È vita che dura. La lingua smemora e dilapida, il dialetto stringe forte perché non è rinnovato e non è consumato ma resta come un monte, non lascia la preda; induce in ogni momento ad incalzare. Nei testi in dialetto, almeno a mio parere, il sud non è né paradiso né inferno. Semplicemente, straordinariamente, è. Deve essere. E’ dunque non ancora è stato. In questa durezza e intrepidezza di formulazione e di rapporti diretti e sempre mantenuti, consiste l’acuta meraviglia e la forza ispida di questi testi, che in continuo fluire trascinano e coinvolgono cose persone frammenti di voci, di vita e sentimenti non corrosi.

Roberto Roversi

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La poesia di Pietro Aloise ha una frenesia del profondo. La sua forza sorge intatta e volitiva da una sorta di amore insopprimibile. Tale forza trascina alla superficie – della voce e della pagina – tutta la materia di parole poetiche, o presunte tali, di trovate straordinarie, di dialetto, di durezze, di rovine e di infanzia. Aloise è poeta che reagisce agli attacchi di quel che il vangelo chiama “mondo” alla  sua anima e al suo corpo. Il “mondo” è la vita ridotta a insignificante ansia di potere o di successo, ad ansia di momenti successivi che svuotano di senso il precedente. Il mondo senza quel che il più grande scultore italiano del ‘900, Arturo Martini, chiamava la “quarta dimensione”. La frenesia del profondo di Aloise coincide con una insorgenza morale, che muove il suo sguardo radente e implacabile su quel che lo circonda e su se stesso, sulla memoria e sul desiderio. La volontà e la ampiezza di canto della voce in italiano si coagula in momenti, in tagli di visione, in empiti che traggono il lettore e lo gettano in una arena invisibile. La vita per Aloise è agonismo, lotta. Ma il sostegno, o meglio il segreto geiger di tale energia è una cosa che quasi nessuno chiama più con il suo nome semplice, elementare, nome come di ragazzina, nome perfetto che manca su quasi tutte le labbra, in quasi tutti gli sguardi… È la gioia. Che prende tutti i nomi delle possibili gioie umane e s’incendia di interrogazione intorno alla Pasqua. Una gioia degli abissi, dove l’anima canta sola, una gioia senza motivo che non sia la sorpresa dell’esistenza, la devozione al vitale. La ripresa sempre. A quel livello sta il motore, la festa segreta e oscura che muove le parole e la musica tra loro fino alla superficie di una storia di convivenza con la poesia che qui si documenta antologicamente. Una gioia che vince il mondo. Aloise è poeta selvatico. Non chiedetegli la accuratezza dei letterati. Non cercate tracce di dirette ascendenze o maestrie elaborate più di altre. E’ come se non avesse tempo per tutto questo. Ma ci sono momenti come “E’ stato un caso incontrarti? Una fotocopiatrice ci separa” dove una situazione fissata nella memoria della poesia per sempre diviene quel che Baudelaire chiamava lo scopo dell’arte: le poncif, ovvero il gesto, semplice e comprensibile da tutti, che comunica una certa universale condizione della vita. Si potrebbe fare altri esempi. In un felice paradosso la forza comunicativa, la gioiosa voglia e agonica tensione di Aloise, diviene più espressa, più forte e per così dire si perfeziona nel suo desiderio di parlare a tutti, proprio quando si “ritira” nella lingua materna, nel dialetto. Nella dura e dolcissima lingua dell’inizio, ancestrale e futura, nella lingua-resina, lingua-luce, nella lingua-rovina e lingua-festa, Aloise trova i momenti più autentici di questa sua vocazione poetica. E ci arriva la sua voce come un pugnale, come un fiore selvaggio e profumatissimo. E come pegno di una gioia che vince la morte.

Davide Rondoni

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