RUFFILLI E I PERSONAGGI DEI ROMANZI

RUFFILLI E I PERSONAGGI DEI ROMANZI

Se Paolo Ruffilli non avesse scritto, a conclusione del Prologo di Maschere e figure. Repertorio dei tipi letterari (Il ramo e la foglia, Roma 2023), che le opere narrative da lui messe in campo giungono fino alla metà del Novecento e non oltre, si sarebbe tentati di includere nel repertorio dei tipi il protagonista del suo romanzo del 2011, L’isola e il sogno (Fazi Editore). Ma sotto quale voce classificarlo? L’insoddisfazione di Ippolito, la sua erranza mentale alla ricerca d’altro, di un nesso tra esperienza e sogno, suggerirebbero un modello di irresoluto, di nichilista, comunque non estraneo alle vicende della realtà attiva e storica. Ma che si perde in un galleggiamento esistenziale nell’isola che fa da scenario al maturare del nucleo drammatico del suo pensiero ipertrofico – e isola è emblema di instabilità e vaticinio di sparizione. «Entità talattica, essa si sorregge sui flutti, sull’instabile», Sgalambro scriveva in Teoria della Sicilia. Che si sperde in una fluttuazione («Più la nave si avvicinava alla costa e di meno si coglieva l’insieme») congiunta allo sforzo di dare un nome e un senso agli indizi trattenuti dai paesaggi, quel lasciarsi andare al trascinamento del ricordo, che per Ippolito è presidio e consolazione: «le sue felicissime avventure della testa». E nel flusso profondo del sogno, dove «sogno» ha qui ben poco a che vedere con le rappresentazioni inconsce di un io onirico, con una materia pregnante e simbolica da interpretare. Così come con l’idea di una evasione verso universi fittizi. Sogno è condizione tanto appagante da sembrare infattibile, e tale sarà il folgorante rapporto amoroso di Ippolito. In particolare, il sogno è l’accesso privilegiato al farsi altro dell’apparenza. Ma qual è l’atteggiamento di Ruffilli nei confronti del proprio personaggio? La visione a parte auctoris? Se pure nella forma narrativa mista di storia e di immaginazione («immaginazione», paradigma ruffilliano al servizio di un pensiero teso al di là del visibile, cioè del quasi essere, e che mira alla verità «del retroscena»; quindi un tutt’altro dalla fantasticheria), dove l’autore è assente dalla storia e privo della tutela pronominale della prima persona del racconto, che consente una maggiore libertà, un’apparente autogestione? Ora, se il punto di vista è limitato in quanto gravitante quasi esclusivamente intorno alla figura del protagonista, resta il fatto che difficilmente gli autori si appagano di questa assegnazione univoca. Tuttavia, Ruffilli non sembra cedere al travolgimento emotivo ad opera della finzione, come nel caso di Bufalino, che nel Malpensante scriveva di avere con la letteratura «rapporti tempestosi, come con Dio. Non ci credo, ma la bestemmio e la prego». E seguitava: «con i personaggi dei libri che amo il mio rapporto è coniugale, coi miei personaggi è una tresca». Rispetto alla posizione implicata e adorante di Bufalino rileviamo in Ruffilli, nelle vesti di autore e in quelle di interprete (e soprattutto di traduttore), uno scarto metodologico nell’imporsi di una forma di lettura cui non sono sottese l’immedesimazione, un’idea privata di narrativa, o la propria concezione delle cose, insomma quell’osmosi intellettuale per cui il critico, addentrandosi nell’esperienza artistica in esame, in realtà parla di sé e dell’insieme delle valenze autobiografiche. E non può sfuggire l’assenza, nel Ruffilli lirico, della dialettizzazione o scambio tra atto esegetico e poesia: le sue ricognizioni critiche prescindono totalmente dalle ragioni del suo versificare. Lo scarto da posizioni empatiche è dovuto alla neutralità analitica, al necessario distacco. Che per Ruffilli vale anche per la vita, come in Diario di Normandia: «porre fra  e la vita / lo spazio necessario a contemplarla». L’imperativo che vige in Maschere e figure prescrive di assumere i personaggi delle opere letterarie come li ha descritti l’autore, e non come li avremmo potuti concepire noi. Quindi, per quanto la letteratura possa somigliare alla vita, anche a parte lectoris è quanto meno controindicato quel processo di identificazione con il personaggio romanzesco che porta a commutare fenomeno estetico e fenomeno umano, con il rischio di uno sconfinamento nella finzione vera che scherma la misura reale delle cose, come in un bovarysmo patologico. Solo se assunta con disposizione emozionale non eccessivamente complice la letteratura potrà riacquisire la più intima sostanza della vita e profilarne i lampi di verità. Benché come lettore, stando anche a sue dichiarazioni, Ruffilli sia inevitabilmente immesso in una dialettica tra empatia e distacco dalla materia romanzesca. Ma questo stretto contatto con i personaggi delle storie che attraversa come lettore, ovviamente non con tutti, viene meno nel ruolo del critico che ristabilisce la giusta distanza dalle circostanze dell’enunciazione, sospendendo il peso del coinvolgimento emotivo e delle finalità estrinseche a vantaggio della leggibilità e di un diagramma logico e selettivo. Nella sua fenomenologia critica sembrano decisamente decadere l’immedesimazione e il sentire empaticamente. Gli effetti del de te fabula narratur, insomma. Forse – ma penso a Ruffilli poeta – non decade quell’«amore», sentimento complesso, da non fraintendere con la soggettività dell’interprete, che – scriveva Rilke nelle Lettere a un giovane poeta – «abbraccia» le opere d’arte, le quali «sono di una solitudine infinita e nulla può raggiungerle meno della critica», della critica estetica anzitutto.

Elisabetta Brizio

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