Sulla poesia di Giulio Di Fonzo
Giulio Di Fonzo, Il mattino ritrovato (Croce Editore). Nell’intervista rilasciata poco dopo l’uscita di Poesie. 1992-2018 Di Fonzo ha precisato: «Non amo la poesia che si confonde con la prosa o si lascia andare a incontrollate effusioni interiori o a sterili giochi verbali». In effetti, come ho rilevato in altre occasioni, la poesia di Di Fonzo si è ricavata in questi anni un posto tutto suo, lontano dal facile andamento prosastico o dalle spericolate acrobazie verbali di tanta poesia odierna che spesso riesce solo a suscitare un vuoto effetto di stupore, una breve meraviglia perlopiù priva di reali contenuti e, dunque, più preoccupata della forma che del senso di un’avventura poetica. Più ancorato ad una poesia di tipo tradizionale o classico, Di Fonzo affida ad un bagaglio rigoroso e discreto di artifici retorici, metrici, lessicali (quest’ultimi molto selettivi) la sua storia di poeta, estraneo alle urgenze di chi ad ogni riga (più che ad ogni verso) sente il bisogno di “innovare”. E la sua storia di poeta prosegue oggi, dopo la sua scomparsa, con questi testi che ha composto e limato fino al luglio 2022. Con l’editore Fabio Croce e la sorella Maria Grazia Di Fonzo, abbiamo deciso di stamparli e offrirli al pubblico dei lettori, certi che fosse questo l’intento dell’autore che, proprio in vista di una prossima pubblicazione, me li aveva già dati in lettura per ricevere un giudizio, ma soprattutto, qua e là, qualche correzione, qualche suggerimento. Leggere, correggere, giudicare le poesie di un amico è cosa assai difficile, specie quando alcuni testi sembrano al di sotto del tono generale di un gruppo di poesie e vanno respinti, ripudiati, oppure nettamente rivisti e migliorati. Di questa raccolta, insomma, mi sento, al 5%, corresponsabile, per averne parlato così a lungo con Di Fonzo, per aver indirizzato in certi casi alcune sue scelte lessicali, per averlo convinto che alcune prove erano superflue. Nasce così, postumo, Il mattino ritrovato, con tutta l’aria di un ultimo omaggio ai lettori ed amici del primo libro di Poesie sopra menzionato; un congedo in forma di poesia che, come vedremo nelle piccole chiose che seguono, chiude la parabola della poetica dell’autore completandola, perfezionandola, quindi arricchendola. Il mattino ritrovato è bipartito in due sezioni. La prima, senza ulteriore titolo, riprende e amplifica i risultati già evidenti nella precedente stagione poetica. C’è ancora quell’aria di sogno e di visione in cui avvengono i testi, nei quali si manifesta soprattutto il dialogo con il Tu materno e il recupero di immagini di promessa felicità. La sezione è dominata dal tema del ritorno (fin dalla prima poesia al v. 9: «e tu sali come forma alla mia mente»), tanto che ad una analisi precisa si scoprirebbe che “ri/tornare” è sicuramente la coppia di verbi più impiegata. Il tornare delle immagini amorose alla memoria è ampiamente documentabile, per esempio: «E la vita vuole, ritorna, si perpetua», «E così tornano le dolci mattine d’inverno», «E torna il celeste a sorridere», «Ritorna come sole perenne», «Ritorna un sorriso perduto», «per tornare ancora a rivederti», «quel pensiero sempre ritorna», «Una voce sempre ritorna», «In un’altra aria serena / forse ritornerai» e così via. Ma cos’è che ritorna in maniera quasi ossessiva, tanto da farci sospettare che si tratti di un ritorno desiderato ma incompiuto e per questo costantemente invocato? Ritorna il «sorriso», come simbolo o manifestazione della tanto cercata felicità e quiete del poeta che, constatato il fatto di aver raccolto così poco amore (si veda, in tal senso, qualche motto di protesta nei suoi versi), chiede alla vita una possibilità nuova, il recupero dell’antica gioia smarrita, il rinnovamento: «dammi la grazia d’una nuova aurora». È in questa atmosfera di attese e di prodigi che Di Fonzo, poeta attento alle promesse minime di felicità (le scorge soprattutto nei segni della natura: «La luce viva del mattino / gli alberi immobili nel sole / tutto a volte è una promessa di felicità»), avverte la presenza del dolore («E la mia angoscia è questo nero asfalto / a passi chiusi sulla vuota strada»), del doloroso ritorno di immagini e figure di un passato ormai irrecuperabile, la presenza dell’ombra del destino, «la veemenza / inesorabile della sorte», per cui già al verso che fa da incipit alla raccolta di testi, tutti senza titolo, si riconosce come «Chiamato a un più alto amore». In generale, in questa prima parte del libro, assistiamo ad un approfondimento del rapporto con il Tu, amoroso, materno, femminile o maschile, già presente, con versi memorabili, nella precedente raccolta e qui inframezzato soltanto da un paio di testi che sviano il focus verso la cronaca (in forma di meditazione e di visione) di due passeggiate romane ed estive. La seconda parte del libro ha il sottotitolo “L’offesa l’amore” memorie e voci e rappresenta un punto di svolta nella poetica dell’autore. Da sempre stretto in una ripetuta analisi del proprio male di vivere, Di Fonzo rompe la crosta dell’io e volge lo sguardo attorno a sé, avvertendo il dolore del mondo contemporaneo in pacati o durissimi scorci di poesia civile. Nascono allora poesie di protesta, di denuncia, sfoghi dolorosi dal tono spesso espressionistico: «tempo bestia implacata», «incudine ferrata», «stracci sporchi», «mattatoio della Storia», «neri convogli verso la frontiera», «anelito strozzato d’animali», «in questo scenario lugubre d’inferno», «Dolersi per chi muore di fame», «nebbia esulcerata», «nebbia cancerosa», «i morti dispersi, i giusti suppliziati», «nuove scellerate guerre / e rovinose epidemie», i «campi / di Germania, di Russia, di Libia», «si sciolgono i ghiacciai si sbiancano i coralli / come si scioglie un corpo vivo nella calce», «il latrato del mare bianco squalo», tutte immagini dai toni scuri e cupi, a tratti dantescamente violenti, immagini e modi nuovi rispetto alla levità luministica e aurorale della prima parte segnata da un tono complessivamente più votato alla leggerezza. Qui invece l’atmosfera si incupisce, si appesantisce con lo sguardo che punta su temi come le guerre del Novecento, l’invasione dell’Ucraina, la pandemia del Covid-19, l’inquinamento atmosferico, il cambiamento climatico, il problema della Mafia, il dramma dei migranti. Memorie e voci, appunto, che testimoniano ancora una volta, ma con una corda collettiva, universale, meno individuale (sebbene a tratti prorompa: «Io resto chiuso in un dolore che non sai»), la persistenza del male e del dolore nella vita (l’offesa), la ricerca e l’impossibilità di trovare pace (l’amore) che il poeta riconosce anche intorno a sé e che, forse, può esorcizzare o sopportare soltanto grazie ai suoi versi, ora così attenti verso gli offesi, gli indifesi, gli ultimi. La raccolta, dunque, affina e rinnova soprattutto i contenuti dell’opera poetica difonziana, che dal punto di vista formale continua, invece, a collocarsi in una zona appartata, molto personale, molto rigorosa e selettiva, soprattutto per l’impiego di un vocabolario tematico e simbolico giocato su poche significative parole. In ultima analisi, lontano dalle temute cadute prosastiche, da incontrollate effusioni interiori, da sterili novità verbali, il libro ci riconsegna per intero e per l’ultima volta la voce del poeta, il filo sottile della sua giovinezza, l’abbaglio del sorriso e dei suoi grandi occhi ridenti. Mentre il titolo, Il mattino ritrovato, allude ad un recupero che rimane costante anelito ad un incontro che non sempre si è verificato.