ROCCO SCOTELLARO, IL CENTENARIO DELLA NASCITA
“ È fatto giorno, siamo entrati in giuoco anche noi / con i panni e le scarpe e le facce che avevamo.” Versi arcinoti di Rocco Scotellaro richiamati da Carlo Levi nella presentazione al volume postumo. “È fatto giorno” (1954), pochi mesi dopo l’improvvisa prematura morte del giovane poeta lucano. Versi come pietre di uno sperato, agognato riscatto di un popolo dimenticato, relegato ai margini del vivere sociale. Essere finalmente “entrati in giuoco” del grande ritmo vitale e sociale della neonata Repubblica Italiana. Ma questi Ultimi sono entrati in gioco non da vittime dolorose e piangenti, ma fieramente “con i panni e le scarpe e le facce” di sempre. Nulla è mutato in loro. È questo che fa di Scotellaro un poeta “diverso” da altri poeti lucani/meridionali. Non indossa l’abito della festa per sedere al tavolo dei grandi; alto e fiero della fierezza del suo popolo, degno e fiero anch’esso. Non lamentazione sterile e miserevole per invocare, anzi per pretendere una più onorevole e giusta qualità di vita. Panni, scarpe e soprattutto facce: quelle di sempre. Poeta realistico, quindi, Scotellaro? Direi, ma solo in parte. Egli non rappresenta, non racconta il reale né lo interpreta, ma lo vive, non da personaggio ma da persona. “Poeta della libertà contadina”, come affettuosamente lo chiamava Carlo Levi, si fa emblema di un popolo, quello contadino appunto, quello dell’ “Uva puttanella”, dimenticato, emarginato da sempre. Lontano dalla denuncia sociale dell’amico Levi che da uomo colto del Nord “legge” il sud da spettatore pur con occhi partecipi e solidali, né da Leonardo Sinisgalli, lucano di Montemurro trapiantato a Milano, che dalla lontana Milano, lontana nello spazio e nei moderni ritmi vitali, racconta la sua Terra, velata di ricordi dolorosi. In lui il reale sfugge a una connotazione temporale per assumere connotazioni intimistiche proprio dell’anima di questo poeta ingegnere che vive e osserva, ma la sua non è pura contemplazione, è un inglobare il reale in sé che si fa memoria. Ben diverso anche il raffronto con un altro poeta meridionale, Salvatore Quasimodo emigrato al Nord come Sinisgalli. Lontana è la sua Terra, la sua Sicilia, lontani gli affetti più cari, lontana la sua cara madre, cui riserva versi: “ Finalmente, dirai, due parole / di quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello corto/e alcuni versi in tasca. Povero, così pronto di cuore/ lo uccideranno un giorno in qualche posto.” È il suo un addio dettato da un patos tutto interiore, un moto dell’animo rivolto a un incerto e forse pericoloso futuro. Ma è diverso, molto diverso, l’allontanarsi dalla sua terra nativa di questo giovane, giovanissimo poeta, troppo presto mancato. Quella di Scotellaro è una scrittura lontana da effetti di maniera, dai tipici topoi manieristici, (come si concilierebbe, poi, uno scritto “di maniera” con una rappresentazione passionale e fieramente vissuta?). Nessun effetto letterario, estetizzante se non progettualmente rappresentativo di un narrare viscerale, puro. Scotellaro non scrive per piacersi e compiacersi, né per piacere al lettore, ma per entrare in sintonia con lui scrivendo ciò che vive, e che vive anche il suo lettore o che ha vissuto, e che hanno vissuto da generazioni i suoi concittadini, la gens lucana, i basilischi di un tempo anche non troppo lontano. Il suo è un verso apparentemente piano, a volte discorsivo, ma a ben vedere, è un verso nervoso, scalpitante come un mulo che riposa dopo la dura fatica quotidiana “la luna piena riempie i nostri letti/ camminano i muli a dolci ferri”. E anche la sua breve vita fu contrassegnata da un continuo andare, dalla nativa Tricarico a Sicignano degli Alburni, a Cava de’ Tirreni per frequentare la Scuola Media presso il Convento dei Cappuccini “il padre m’inchiodava la cassa/ la sorella mi cuciva le giubbe/ ed io dovevo andarmene studiare/ nella città sconosciuta!” e poi a Matera, Roma, Trento, Bari e infine a Napoli “Ora forse devo andarmene zitto/ senza guardare indietro nessuno, / andrò a cercare un qualunque mestiere” fino a Portici dove, purtroppo, per un attacco cardiaco perse la vita a soli trent’anni, esattamente settant’anni fa, il 15 dicembre 1953. Ma la presenza viva in sé della sua Terra non l’abbandonerà mai “ Tornate ai vostri cieli passere/ il sole non ci burla, ecco riappare, /è quello di sempre, ha gli occhi crudi/ per questi poveri uomini nudi”. Versi di una forza enunciativa emozionale: le passere devono tornare ai propri cieli, l’amico sole che non abbandona mai è pronto a riapparire -attraverso uno stupendo uso della sinestesia- con occhi nudi per degli uomini poveramente ignudi. Basterebbero solo questi versi a delineare la cifra poetica personalissima e potente di Scotellaro. Ma il giovane Rocco, fiero nelle sue battaglie civili in difesa dei diritti degli ultimi, pagò un prezzo altissimo. Nel febbraio del 1950, nelle funzioni di sindaco di Tricarico, fu arrestato per concussione, condannato al carcere e poi assolto non solo “perché il fatto non costituisce reato”, ma la Corte di Appello di Potenza parlò in modo inequivocabile di “vendetta politica”. Quel poeta che nella sopraccitata poesia “È fatto giorno”, solo un anno prima di morire così scrive: ” Allungate i passi, papi e governanti/ alla luce degli scalzacani che vi hanno smentito./ Perché nel cielo si alza il sole/ e dice tutte le verità, anche di voi,/ che per farvi accettare/ ci togliete il cuore e la lingua./ Dice che due tizzoni fanno il fuoco/ stasera nelle casupole affumicate.” E forse, piace pensare, che uno dei due tizzoni, si sentisse lo stesso Rocco Scotellaro, un tizzone che fa luce prepotentemente da “povere casupole affumicate “ e che ormai “fatto giorno” si augura che “la notte non sarà più scura e silenziosa”.