POESIA IN PROSA 2
La poesia in prosa è la poesia scritta in forma di prosa anziché in versi, dunque senza le interruzioni di riga, pur preservando qualità poetiche come immagini, compressioni, ripetizioni, rime, frammentazioni, paratassi, salti analogici, metafore e altre figure retoriche, oltre alla musicalità. La pratica comincia dall’haibun di Bashō nel Giappone del XVII secolo e arriva alla poesia in prosa nella Francia e nella Germania dell’inizio del XIX secolo. I romantici tedeschi possono essere considerati come i precursori della poesia in prosa, che tuttavia prese forma davvero in Francia con Maurice de Guérin e più tardi con Charles Baudelaire, Arthur Rimbaud e Stéphane Mallarmé, e continuò nel XX secolo con scrittori come Max Jacob, Henri Michaux, Gertrude Stein e Francis Ponge. Ha avuto una rinascita nei primi anni cinquanta e negli anni sessanta con i poeti americani Allen Ginsberg, Jack Kerouac , William S. Burroughs, Russell Edson, e si e intensificata anche in Italia, dove per altro il fenomeno si dichiara già nella prima metà del Novecento, sia pur con caratteristiche proprie, nella prosa d’arte della Ronda e di scrittori come Cecchi, Cardarelli, Bacchelli, Boldini, Barilli.
Gli autori: Alessandro Agostinelli, Sandrino Aquilani, Matteo Bianchi, Donatella Bisutti, Michele Brancale, Corrado Calabrò, Anna Maria Carpi, Patrizia Cavalli, Vittorio Cozzoli, Patrizia Fazzi, Aldo Gerbino, Sonia Giovannetti, Umberto Piersanti, Patrizia Riscica, Fernanda Romagnoli, Umberto Segato, Lilia Slomp, Stefano Vitale, Giovanni Zamponi
Alessandro Agostinelli
Sartre
accendevo sempre una candela; la facevo bruciare da sola tutto il pomeriggio. era il quindici aprile di parecchi anni fa. sartre era famoso per l’esistenzialismo e aveva rifiutato il premio nobel; oggi diciamo che voleva strafare. lui misurava troppo il peso dell’impegno. era convinto sartre, e pedante, ma aveva eleganza e rifiutò il nobel; lui disse non amava onorificenze ufficiali. per avvicinare est e ovest non poteva accettare gratificazioni a senso unico. io accendevo una candela perché ero giovane, avevo letto la nausea, volevo essere sartre e incontrare simone de beauvoir, e ancora sapevo poco del mondo. Il quindici aprile era il giorno in cui sartre era morto e io accendevo sempre una candela. tutti i poeti accendono candele in faccia al mondo.
Sandrino Aquilani
Tra terra e cielo
Sanguina la mia spada di guerriero, sibila e lascia impronte su corazze e lapidi, taglia il dolore, lava cuori di pietra, nell’aria il suono di campane è rotto dallo scandire inflessibile del tempo. Odora d’incenso vivo la notte luminosa, silenziosa, i sogni fanno salire le foglie ad una ad una sopra gli alberi spogli, e lei… la nuova Luna raduna le stelle ad una ad una, attenta nell’attesa di un segnale buono, quella luce pura che sorge dalla terra e si unisce al cielo.
Matteo Bianchi
Dentro un nome
Malgrado le consuetudini e i contrattempi interiori, l’aveva avuta sotto gli occhi per anni, preferendo desistere altrove. Aveva sempre creduto nei nomi assegnati dal caso, nei significati accidentali, sebbene la coincidenza fosse fin troppo evidente. Era successo un pomeriggio autunnale sotto una cappella sconsacrata, dove l’università aveva ricavato un’aula. Ella sedeva qualche fila più in là, alla sua destra. E non si poteva accorgere del suo interesse lontano, imprevisto anche per lui. D’altronde, egli non poteva a sua volta immaginare che ogni qualità che cercava allo specchio con lei, al di là delle passioni comuni, degli stimoli sulla strada, persino dell’intimità sognata insieme, stessero dentro un nome. Erano la testardaggine con cui prendeva la parola senza il timore di chi l’avesse ascoltata, l’entusiasmo in ciò che faceva e la disponibilità nei confronti degli altri. Era la sua incapacità di sporcarsi oltre ciò che si scorgeva. Poi le mani, le ciglia, l’odore della pelle. Talmente semplice da non fermarsi un istante su quel viso, quanto il sorriso spontaneo che non risparmiava ad alcuno o, ancora, quando incrociava le braccia fingendo un broncio – nello spazio di un “teneramente”. Talmente semplice da non crederci un istante, la sua Grazia.
Donatella Bisutti
Il vento
Senza forma, la prende dal cambiamento di forma che impone agli oggetti. Cerca nel visibile qualcosa che lo contenga, ma non è mai a sua misura. Un fiato; che si precipita attraverso il vuoto per colmarlo di nulla. Ma quando si leva ondeggiando verso il cielo, noi non vediamo che la sua veste di polvere, in cui il nostro sguardo si confonde. Come una lama che allarghi una fessura, disserra la chiusa custodia degli oggetti. La loro voce è questo resistergli: piegarsi o fuga o schianto. Gli alberi si sospingono, rami contro rami. Le schiere dell’erba sbandano, gli steli si contraddicono. Così l’anima si contrae, quando soffia dal nulla.
Michele Brancale
La cassaforte
Ci possiamo permettere il pedigree del gatto, abbiamo vestiti firmati e gente che conta e che vuole prendere il Martini con noi. Te lo dicevo amore, bastava portarla con la limousine noleggiata quella polvere d’oro, quella tassa sul nostro futuro che ci ha reso i soldi facili, ma non ho sentito l’esplosione. Non hanno sparato, non si è sentito alcun colpo, né le fiamme hanno lambito le case, né le bombe sono state lanciate dall’alto, ma lo stesso i predatori sono scesi nella nostro città, i calcolatori che sorridono stringendoti la mano, ritornano ridendo, sorridono promettendo. Hanno una cassaforte nel cuore, un deposito di armi invisibili che portano morte nella nostra città. Indossa il cappotto rosso, dai che usciamo.
Corrado Calabrò
1908
Tra pochi giorni ricorre il centenario. Faceva un caldo fuori stagione quella notte a Reggio e Messina: ventidue gradi il ventotto dicembre. Eran le cinque e venti del mattino e si spense il gas nei lampioni ma ci fu chi credette di vedere il mare inghiottito nella faglia dello Stretto. Si aprirono crepacci nelle strade del centro in cui scomparvero mulattieri e carretti con cavalli. Trentamila morti solo a Reggio. Io persi nel crollo della casa i nonni una zia e un cuginetto che quest’anno avrebbe centun anni. Il mare sommerse la Punta di Pellaro per oltre un chilometro. Sono abitate dai pesci le case sott’acqua; da ragazzi passavamo di stanza in stanza a pesca subacquea. Era rimasto tra gli altri sepolto il sindaco di Reggio, Tripepi. Stavano togliendo con cautela l’ultimo strato di macerie quando arrivò Vittorio Emanuele. Proprio a Reggio era stato salutato per la prima volta re d’Italia sbarcando al Cippo da un incrociatore dopo l’assassinio di suo padre. La folla si sporgeva sulla fossa mentre ormai il corpo affiorava. «Allegro, Sindaco, allegro! C’è il Re! C’è il Re!» gli gridavano eccitati. «Me ne fotto del re! » si poté leggere sulle labbra terrose del sindaco mentre esalava l’ultimo respiro.
Anna Maria Carpi
Vorrei morire?
Vorrei morire? No, non so che sia, non voglio, io sono nelle liste della vita. È soltanto una giostra, ma smontare… e perché? Per andar dove? Ci fosse Dio e poter dire a lui “non ce la faccio più”, perché lui solo intende, meglio di tutti, cosa io intendo dire.
Patrizia Cavalli
Datura
Ma io non voglio andarmene così, lasciando tutto come ho trovato in questa scialba geografia che assegna l’effetto alla sua causa e tutti e due consegna all’umile solerzia dell’interpretazione. Un altro è il mio progetto, la mia ambizione è accogliere la lingua che mi è data e, oltre il dolore muto, oltre il loquace suo significato, giocare alle parole immaginando, senza un’identità, una visione. Come di fronte a un fiore di datura, a quel suo giallo non propriamente giallo, crema piuttosto, la stessa crema che ha la pesca bianca, con brividi di verde trasparente, ma delicati, piccoli, il modo di morire al terzo giorno o meglio, di seccarsi plissettandosi, pelle di daino, straccetto, guanto, ala di pipistrello acciaccato, riccioli, rostri, questa bellezza propriamente sua, che tutto ciò in se stesso non ci pensi neppure alla lontana a poter essere una soltanto di tutte queste cose che dipenda da me la sua apparenza, che ne sia io la sola responsabile, questa è la gioia fiera del mio compito, qui è il mio valore. Io valgo più del fiore.
Vittorio Cozzoli
A volte il cuore pacifica le mente, a volte la mente il cuore
Cicorie lungo il muro di cemento, cicorie e gialli fioretti. Nessuna pretesa, né le une né gli altri. Semplicemente, lì dove sono, piova e rassereni, stanno. Le guardo, li guardo, e molto imparo. Ma non finisce qui se improvvise alle mie spalle dalle Apuane temporalesche nubi verso me scendono, le inquietanti, a ricordarmi il ‘nada te turbe’ di Teresa e rimandarmi più indietro ancora, al ‘seren che non si turba mai’.
Patrizia Fazzi
Ritratto al mare
È come se fosse colato il cemento sulla terra del cuore e un manto di asfalto coprisse l’erba da cui spuntavano versi; rare anche le lacrime a innaffiare i sospiri, lo straniamento dei giorni. Come onda di mare ritornano a riva i rimpianti, sassi smussati e vuote conchiglie di voci lontane. È ghiaia sabbiosa ogni cosa che prima brillava e viveva di disperate speranze. Muta la spiaggia raccoglie i miei superstiti battiti.
Aldo Gerbino
Occhi e olive
Gli occhi di Seymour sono due papiniane olivette nere dei Nèbrodi. Li osservo mentre, dal sonno, elettrizzato, soltanto Dio sa per cosa, sbuffa, scodinzola, si rabbuia e, di colpo, scatta all’indietro, vinto dalla paura per un rumore sordo, improvviso. Lo rassicuro: si tratta d’un elastico, un semplice, innocuo, elastico – molti dei miei libri sono vestiti da una benderella elastica con i colori di un Arlecchino di Sto – e, proprio come Arlecchino, saltano da un punto all’altro, planando, ormai resi inutili dalla continuata forza d’estensione, verso il pavimento. Emettono, alla fine della loro utile esistenza, l’ultimo schiocco, quasi un minuscolo grido di addio! Sì, condivido quanto sostenuto da una scrittrice: gli elastici sono portatori d’una propria intelligenza! Ora le due olive nere di Seymour si sono rappacificate con l’ambiente: può riafferrare il suo sonno. E, mentre dorme, riprende a sognare: aguzza le orecchie, pelosetti radar multidirezionali, contro eventuali intrusioni sonore. Poi riprende il filo del sogno in cui sospetto che si dipanino aristoteliche phantàsmata fatte di piogge, lampi, asfalti corrosi, volti umani incattiviti, ma anche limpidità primaverili, rattristati tramonti.
Sonia Giovannetti
Come fa il mare
Da qui il cielo è abbagliante, intravisto dall’ultimo piano. Un angolo insperato, fra la ringhiera del terrazzo
e l’avvolgibile dell’ampia finestra. È primavera perché sono fiorite le margherite, nate in tante, quasi per dispetto, sul cornicione incatramato. Ondeggiano a tratti calme, a volte fremono. Le margherite si aprono al sole, irretite nell’ancestrale regola dell’alternanza della fine e dell’inizio, della morte e della nascita, del dolore e del piacere. Nemmeno guardo più il cemento che le ha generate e, generandole, ha decretato la propria sconfitta. E se guardo oltre, verso il mare, niente è sconfitta. Il mare sa essere dolce. È sospensione, qualcosa che ti solleva. Ciò che guardi, se sei in sospensione, è il cielo, solo quello. E a me piace guardare anche da qui, dal cielo. È come se cercassi di sollevare anch’io qualcosa. Come fa il mare.
Umberto Piersanti
Le palombe
Marco dormì poco quella notte. Doveva andare a caccia con lo zio il mattino dopo. Si svegliò verso le sei che era ancora scuro. Lo zio stava ad aspettarlo giù in cucina. Presero il caffè d’orzo nelle grandi tazze. Lo zio aveva una giacca marrone di velluto e una doppietta lucida e perfetta. Albeggiava fuori tra campi e fossi. Lo scotano d’ottobre, una fiamma rossa dentro il verde. Sulla Cesana alta passavano le palombe a branchi. Erano così alte e limpide e perfette, scendevano compatte alla marina. Lo zio sparava da dietro un ceppo: quelle erano alte, troppo alte, il fucile non ci arrivava. E Marco era contento di vederle così lontane e luminose perdersi nel cielo verso il mare.
Patrizia Riscica
Lombrichi
File di lombrichi ingoiano la terra, a testa in giù scavano gallerie, rimescolano gli strati del suolo, carne, ossa e radici decomposte formano residui delle necromasse. Offriamo al futuro materiale putrefatto, che il tempo per mirabile azione della chimica tramuta in sopravvivenza. Il primo fiore giallo di tutte le primavere si nutre del passato della terra. Più in alto la luce calda del sole, il chiarore delle stelle, il buio-azzurro del cielo scandiscono le stagioni. L’anima nella memoria dell’umanità si è innalzata ancora più su, oltre le 88 costellazioni, le supernova, fuori dalle pieghe dello spazio-tempo. Ma oggi le neuroscienze cellulari hanno ucciso l’anima: il nostro sogno immortale, che da sempre si colora dei bianchi-grigi dei nostri fatti-misfatti, si è trasformata in un grappolo di molecole aggrappate al corpo. Ora incontrerà il nostro stesso destino: bruciare o marcire, per poi essere inghiottita da infaticabili lombrichi che la defecheranno per impastarla con la terra. La stessa terra che nutre il primo fiore giallo che spunta in tutte le primavere.
Fernanda Romagnoli
Falsa identità
Prima o poi qualcuno lo scopre: io sono già morta da viva. È di donna straniera la faccia tra i capelli in giù sporta che subito si ritira, l’ombra che dietro le tende s’aggira di sera, il passo che viene alla porta e non apre. Suo il canto che intriga i vicini coprendo i miei gridi sepolti. Qualcuno prima o dopo lo scopre. Ma intanto… Lei a proclamarsi non esita, lei mostra il mio biglietto da visita. Io nel buio, in catene, a un palmo da voi di distanza, sul muro graffio questa riga contorta: testimonianza che mio era il nome alla porta, ma il corpo non ero io.
Umberto Segato
All’inizio le parole erano cose
All’inizio le parole erano cose. Le cose sono pesanti, concrete, reali, non possiedono la leggerezza dell’astrazione, non possiedono l’ambiguità che porta alla riflessione. Le parole abitavano le cose. Il linguaggio era la lingua delle cose. Da tempi immemorabili le genti avevano parole solo per il mondo delle cose. Conoscevano la necessità, la malattia, la fame come ricordo ancestrale, la rassegnazione al Destino. Le disgrazie non avevano causa, erano nell’ordine delle cose. Apparteneva al linguaggio anche la saggezza, esperienza distillata dall’idea che il mondo fosse compatto e immobile come le stelle nel cielo di Tolomeo. Poi venne la caverna di Platone. Le parole-cose persero peso: suoni, percussioni, vibrazioni su un filo teso. Con esse moriva il vecchio mondo. E venne il trittico, le pale d’altare, le storie edificanti dei santi dipinte per gli analfabeti sui muri delle chiese. E vennero le immagini in movimento: nel buio la bianca parete si animava, le immagini incantavano la sala, il mondo diventava rappresentazione. Ora… Web, Social, Telecomunicazione, Realtà Virtuale, frastuono digitale, Algoritmo universale, Intelligenza artificiale, Scomparsa Individuale. Chi sei? Da dove vieni? Dove vai? Lo spettacolo deve continuare.
Lilia Slomp
Nell’abbraccio segreto degli alberi
Quando la bambina oltrepassava la soglia ombrosa del bosco per inoltrarsi nei suoi sentieri invisibili sulle tracce del sogno, miracolosamente sbocciava dentro di lei la preghiera come si trovasse in una cattedrale deserta dove ogni albero diveniva enorme cero da accendere in assoluto raccoglimento. Cantilenava le sue orazioni in nenie di vento, brividi di foglie nel linguaggio di muschi, funghi, fiori, bacche, erbe medicinali. Preziosità costante quel tempo sospeso come nido fra i rami più alti. Il suo abbraccio agli alberi diveniva rito nel traslarsi verso il cielo, un tutt’uno col respiro delle radici e della linfa, assimilati a occhi chiusi, in arrampicata immobile verso la cima che le regalava altalene d’azzurro, un incantamento intraducibile a parole, in simbiosi perfetta con la natura. Nella corsa degli anni, quell’abbraccio misterioso al cuore palpitante dei tronchi non si interruppe mai, la mantenne immersa nell’ascolto affascinante della sinfonia del silenzio. Ha passeggiato il suo tempo, la bambina, è andata via in un altro verde camuffato d’infinito. Nel gioco boscoso di ombre e luci, chi possiede un’anima vagabonda e cuore puro, forse la potrà scorgere, nell’abbraccio segreto degli alberi, vestita unicamente di corteccia in lacrima di resina.
Stefano Vitale
Ascolta, non cercare oltre…
Appaiono le cose nel loro perdersi alla vista che le cerca nel disordine dello spazio dove cresce l’attesa d’un tempo più opportuno che possa dirci, senza pena, cosa si nasconde nell’attimo esatto in cui ritroveremo quel che cercavamo. Così chiusi dentro al tempo perdiamo lo sguardo delle cose, sempre più distanti, sempre in movimento in un mosaico senza più figura e noi con loro persi a mendicar silenzio, per ritrovare nella notte sovrana il buio ideale per ritornare al punto di partenza. Questa è la nostra condizione della nuova comprensione che ci stringe ad un presente senza fine e siamo cielo chiuso nel suo colore di ghisa , un’ombra che si staglia contro il muro. Ma sulla pelle resta la resina della vita, battito d’ali, acqua ribelle che ribolle, stridere di denti d’un raggio di luce che taglia il confine tra nascere e morire. Ascolta, non cercare oltre: è qui l’Altrove.
Giovanni Zamponi
Fiori di Grazia
C’era la neve a Smerillo quella lontana domenica di passione. Ombre lunghe dai tetti avidi delle case allagati di luce, istanti in dissolvenza sospesi come sfida a raccontare la memoria. Tre giorni dopo tornai lassù. Tra i silenzi della mite nuvolaglia e i muretti di pietre calcinate e licheni, immutata la forma dell’aria su una tela che ha più di mille anni. Un coro di ciclamini e veroniche, le scarpate acquatiche, un luccichio di primule e viole. Sempre ritorno, nomade senza partenze, pellegrino su una strada lastricata di visioni, carovane di anni attese su una pista che l’oasi tramandava di eterno in eterno. Ogni sole aveva il suo diadema, e suoni di melodie fossili ritmavano i canti di quella quiete audace. Smerillo ad aprile era un tripudio di orti e di aiuole dai profumi inesprimibili. E la maestra spronava noi alunni a gareggiare a chi avrebbe adornato la scuola con i fiori più belli. I più vivaci e brillanti erano sempre quelli di Grazia, nonostante recassimo, noi ragazzi della campagna, rami interi di biancospino. Un ramoscello lo strappai anche quel giorno; ma in compagnia dell’angoscia insostenibile d’un tempo senza traguardo, muto d’una speranza che perseveri più di un attimo. Irriconoscibili gli echi che trapassarono le parole di ieri, persi come l’immagine di frammenti di vento. Grazia aveva seguito il destino inevitabile che soggioga il mondo, e lo aveva fatto nella stagione novella. Pallida, ma non appassita, con la primavera alle finestre. Nel velo che separa l’addio di ogni storia, una quiete insolita e dolorosa, interrogante ma non desolata. E il commiato, alle sette del mattino, si concluse con la liturgia dei petali: in dono ai presenti un fiore fresco di giardino. Tra la disperazione minacciosa del nulla e il fascino della vita, Grazia aveva scelto la vita, aggrappata ai suoi simboli perenni. Per volare oltre la notte, alla scaturigine dell’aurora.
Larga scelta, interessantissima, grazie mille
Larga scelta, interessantissima, grazie mille. Commento già inviato. Lo confermo.
Interessanti e varie riflessioni che spaziano in vari campi dell’interiorità umana.
Grazie