LE PREGHIERE DI NADIA SCAPPINI
Il magnifico verso di Franco Loi citato in apertura di libro “Mì, ‘l Pardis, ghe l’û a tocch in mì” [Io, il Paradiso, ce l’ho a pezzetti in me] dà subito la misura della profondità interiore del sentimento religioso che innerva la poesia di Nadia Scappini, Preghiere imperfette (Moretti& Vitali). Le sue preghiere scaturiscono dalla nostra “precarietà” (precarius è etimologicamente legato a “preghiera”), nascono dalla terra, dal desolato e dolente hic et nunc che viviamo, dall’humus su cui muoviamo i nostri passi affaticati e solitari. Una poesia concretissima, ancorata alla terra ed agli eventi dell’esistenza, dove il discorso poetico si fa universale e toccante nella sua nuda verità, nella sua disarmata umanità, come sottolinea Paolo Lagazzi nell’attentissima partecipe postfazione. Nulla di fideistico né tantomeno di dottrinale nelle poesie-preghiere di Nadia, nulla di consolatorio ma una continua tensione, uno slancio verso il Cielo, un “Altrove” con cui l’autrice intesse un dialogo intimo e confidente ed a cui affida la fragilità e le inadeguatezza umane, le “inadempienze le distanze le intemperanze / che a die in diem inutilmente provo a colmare.” Un Dio sorridente, che ascolta, accoglie. Le tre sezioni in cui è divisa l’opera, Del nostro andare, Del Tempo, L’Oro dei Giorni sono attraversate da immagini ed elementi naturali – tratti da quella campagna vissuta e amata da bambina – di forte valenza simbolica – una sorta di fil rouge che si dirama nell’intera raccolta. Gli alberi, i fiori, gli animali, la “farfalla” (un testo è dedicato a questo antico simbolo di metamorfosi e rinascita) con cui “dialogare” e “sedare” il “doloroso fatale sentire che ab ortu m’appartiene”, una “mano di una madre buona” da contrapporre al grigiore dei giorni, al vuoto di un’umanità sempre più “avara”, svenduta e inerte, incapace di costruire valori e significati, abbacinata da “sipari inganni frastuoni”. I versi stessi di Nadia Scappini, larghi, narrativi e descrittivi, vigorosi e insieme delicati sono modulati in un ritmo di preghiera pacata che vibra di un continuo dinamismo spaziale e temporale. La tensione ascensionale si alterna ai ritorni verso la terra in un colloquio sommesso tra “alto” e “basso” che costituisce, a mio avviso, la cifra lirica ed esistenziale più intima e profonda della poetessa trentina che, se anela a “curvare le parole / verso un altrove / con la pazienza della fatica”, non ignora quanto erto e difficile sia il viaggio verso l’Alto, quanti gli smarrimenti e le paure, se anche dio è “inchiodato alla polvere del mondo”. Ricorre frequente la metafora dell’ascesa e della “scala” fotografata in tutta la sua umanissima fatica nella splendida purgatorio: “….mentre salgo / felice e avventata su una scala che non mi sostiene: troppo alta / è la meta la vertigine m’assale, / provo a stringere il piolo superiore, mi fermo tentando di / ancorarmi / ma m’acceca la paura, mi soffoca alla gola un nodo”, finché, all’improvviso, quasi per un’inattesa epifania, un “miracolo” di montaliana memoria, “l’aria denudata” ritorna e “…Ti stana ti sorprende come una preghiera / lungamente covata che converge finalmente / verso il Cielo”. A questo spostamento nello spazio si affianca, come dicevo, un analogo spostamento nel tempo, una comunicazione densa tra passato e presente che riesce a ricongiungere eventi e sentimenti oltre il fluire inarrestabile del tempo, una memoria fertile che, pur tra luci e ombre, riannoda il passato al presente, si fa sostanza e nutrimento di ciò che oggi ancora esiste e resiste malgrado gli anni, i dolori, le distanze. E qui campeggia l’amore cantato nella splendida ultima sezione L’Oro dei Giorni che racchiude alcune delle più intense poesie d’amore che chi scrive abbia mai letto. Ventisei liriche a tratteggiare, con trepida emozione, in un tono intimo e pudico, la “carezza lunga dell’amore”, di un Bene che ha saputo costruirsi e custodirsi nella consapevolezza che “è stare insieme / che ci rende interi”. Dall’indimenticabile primo bacio giovanile, vivido ancora (e chi non lo ricorda?), narrato nella lirica il bacio (una perla tra le molte) che in explicit confessa: “Quel bacio, sai, è ancora lì per ricordarci che ci siamo / amati da ragazzi con la purezza dell’incanto e un sogno / grande dentro; lo cerco lo trattengo tra le mani piano / ci soffio dentro, di tanto in tanto, per ravvivarlo / per la paura che svanisca” alla senile tenerezza del custodirsi “dopo una vita insieme, /… – ciascuno l’altro – / nella propria metà del grande letto”. Un amore che non è mai soffocante possesso ma un sentimento che sa abitare anche le necessarie distanze, gli inevitabili attriti. Un lavoro da rinnovare ogni giorno attraverso la “pazienza”, il “perdono”, la “tenacia” perché “occorre tenacia / per non scivolare / occorre pazienza / per visitare le celle / dove i papaveri durano / il rosso anche d’inverno”. Lo “sposo” è presenza desiderata e rassicurante, la casa un porto sereno, luogo del ritorno, i gesti quotidiani un caldo riposo non un’annoiata abitudine. La parola poetica di Nadia Scappini è voce tenera e forte, precisa, distillata nel tempo e nel silenzio, uno strumento prezioso per scavare nella terra o alzarsi nel cielo, è creatura, uno “spazio clemente” salvato dal vacuo frastuono quotidiano “dove sgranare antichi rosari per distrarre / la fatica dei giorni / insensati crudeli amari”.
È in questa fede nella poesia che sa cantare il fango e i fiori, l’ombra e l’azzurro, necessaria per “contrastare chi assassina / i sogni, per dare un ordine / alle cose…” la testimonianza preziosa di quest’opera dalla cui lettura si esce con uno sguardo pensoso e commosso, un brivido nuovo. Da custodire e meditare.