VIA CRUCIS AL COLOSSEO DI MARIO LUZI
“Non era solo un dubbio di insufficienza e di inadeguatezza, era anche di più il timore che la mia disposizione interiore non fosse così limpida e sincera quanto il soggetto richiedeva”. Questa la schietta confessione di Mario Luzi nell’accingersi, su invito di Giovanni Paolo II, a un commento in versi sulla Passione del Venerdì Santo per la Pasqua del 1999. E quello di Luzi sarà un Cristo spogliato del divino, un Cristo umano, assai dolente, dilaniato dal dolore, dal dubbio, dalla solitudine fino all’estremo atto di lasciarsi andare quasi al fallimento della missione che le Scritture avevano annunciato. Gesù, nella tribolazione della via Crucis, confida al Padre la sua angoscia e i suoi pensieri dibattuti tra il divino e l’umano, la sua afflizione e la sua soprannaturale certezza: Dodicesima stazione, Gesù è inchiodato sulla croce, Meditazione, “Padre mio, mi sono affezionato alla terra / quanto non avrei creduto. / È bella e terribile la terra. / Io ci sono nato quasi di nascosto, / ci sono cresciuto e fatto adulto / in un suo angolo quieto / tra gente povera, amabile e esecrabile. / Mi sono affezionato alle sue strade, / mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti, / le vigne, perfino i deserti. / È solo una stazione per il figlio Tuo la terra / ma ora mi addolora lasciarla / e perfino questi uomini e le loro occupazioni, / le loro case e i loro ricoveri / mi dà pena doverli abbandonare. / Il cuore umano è pieno di contraddizioni / ma neppure un istante mi sono allontanato da te. / Ti ho portato perfino dove sembrava che non fossi / o avessi dimenticato di essere stato. / La vita sulla terra è dolorosa, / ma è anche gioiosa: mi sovvengono / i piccoli dell’uomo, gli alberi e gli animali. / Mancano oggi qui su questo poggio che chiamano Calvario. / Congedarmi mi dà angoscia più del giusto. / Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco? / Il terrestre l’ho fatto troppo mio o l’ho rifuggito? / La nostalgia di te è stata continua e forte, / tra non molto saremo ricongiunti nella sede eterna.” (da “La passione di Cristo. Via Crucis al Colosseo- Testo poetico di Mario Luzi, Tallone Editore, 1999 ”) Non sono parole queste di un Dio che muore, ma di un uomo. Un uomo come tanti che nel momento della morte rimpiange tutto della sua esistenza. Gesù quasi meravigliandosi confessa di aver “sentito” la terra proprio come un uomo “mi sono affezionato alla terra/ quanto non avrei creduto” e proprio come un uomo non nasconde un sentimento duplice e umanamente contradditorio “È bella e terribile la terra.” Versi questi di Luzi di purissimo lirismo, forse i più belli dell’intera “Via Crucis” e forse, mi spingo fino a credere anche i più amati dallo stesso poeta. Non c’è in questi versi la narrazione delle varie stazioni, la descrizione degli eventi, dei vari accadimenti, è solo un sincero sofferto colloquio di un Dio che parla al Padre da uomo in procinto di morire. E nelle sue parole vi è l’autentica sofferenza di dire addio agli affetti e anche alle cose che gli hanno fatto compagnia nei giorni vitali: “Mi sono affezionato alle sue strade, / mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti, / le vigne, perfino i deserti”. Ma poi Gesù sembra essersi spinto troppo nel suo essere uomo di terra e, quasi a scusarsi con Dio Padre, ne sottolinea la fragilità umana ma l’assicura sulla sua natura divina: “Il cuore umano è pieno di contraddizioni / ma neppure un istante mi sono allontanato da te”. Ma ancora non può non ripetere che la terra l’ha affascinato, conquistato: “La vita sulla terra è dolorosa, / ma è anche gioiosa: mi sovvengono / i piccoli dell’uomo, gli alberi e gli animali. / Mancano oggi qui su questo poggio che chiamano Calvario.” Degno di nota questa splendida espressione: “i piccoli dell’uomo” dove si riversa tutta la complessità del ciclo vitale fra esseri di diversa specie, ma tutti frutti e figli dello stesso Creatore. Ma tra poco sarà “tutto compiuto”, ritornerà al Padre: “La nostalgia di te è stata continua e forte, / tra non molto saremo ricongiunti nella sede eterna.” “Via Crucis al Colosseo”: un monologo in versificazione teatrale diviso in Stazioni che il poeta sente ”come una progressione dolorosa al ricongiungimento con il Padre e come un cammino mortale verso la Resurrezione”. Ecco la sentenza di morte nel richiamo al Vangelo di Matteo: ”Mi consegnano a Pilato, mi scherniscono. / Applaude la turba dei miei simili, / si eccitano tra di loro, si ubriacano di vendetta, / mi vogliono in croce, / strappano al procuratore la sentenza”. Ecco l’innocente, ecco l’agnello sacrificale. E’ un uomo solo, lontano il cielo e il Padre, ha sentimenti di uomo, interrogativi senza risposta. Inutilmente si chiede cosa ha fatto per meritare tutto ciò, quali le sue colpe: “ in che cosa li ho offesi che mi odiano / a tal punto, /a che rancore danno sfogo su di me / che sono il più vulnerabile? ”. Ecco che Luzi allontana per un attimo il lettore dall’immane tragedia che ha visto uccidere un Dio, un figlio di Dio, e ci porta ad altri scenari d’ingiustizia, di dolorosi, esecrabili delitti d’innocenti che macchiano quotidianamente il nostro vivere. “Su questo principio non si placa / la controversia umana”. Cristo soffre da uomo ma sa che è ucciso perché è un Dio “Vogliono uccidere il mio divino in me / e vogliono questo in nome tuo”. Eppure Gesù caricato della croce, chiede perdono per i suoi assassini, essi vivono ancora nelle tenebre e non lo sanno: ”Eppure abbi pietà, perdonali. /Ho cercato di aprire la loro mente alla tua luce / con molte parabole e dettami. / Ma l’errore è enorme, devono ancora molto / molto crescere”. È questa quasi una sofferta e sincera confessione dello stesso poeta: anch’egli si sente in mezzo a coloro che devono ancora crescere. Il cammino verso la Luce non è ancora compiuto. E così Gesù ancora al Padre: ”E così, Padre, io vanamente ti tormento. / Più che la morte è la via per arrivarvi / la via crucis, che mi dà angoscia “. La Luce è la meta, il desiderio ultimo, ma il mondo intero ancora né è distante, le distanze sono ancora incolmabili: “Dall’orizzonte umano in cui mi trovo / a guardare il mondo universo che hai creato / si affrontano due eternità: / la tua vivente e luminosa / e l’altra senza luce e senza moto”. Nei versi finali che il poeta affida al Coro in forma di preghiera, finalmente la certezza della meta raggiunta: ”Dal sepolcro la vita è deflagrata. / La morte ha perduto il duro agone. / Comincia un’era nuova: / l’uomo riconciliato nella nuova/ alleanza sancita dal tuo sangue/ ha dinanzi a sé la via”. “Via Crucis al Colosseo” non può essere considerato un unicum nella produzione poetica di Luzi, ma il frutto di una felice circostanza che va a incastrarsi perfettamente in un più ampio e articolato processo umano, spirituale e poetico del grande poeta fiorentino. Infatti al di là di credere che un’ opera su commissione, seppure così prestigiosa, possa essere meno “sentita”, essa giunge forse nel momento più felice, quasi all’apice della crescita spirituale e umana del poeta (Luzi morirà solo pochi anni dopo, nel 2005 a poco più di novantuno anni).