MARINO MORETTI E IL CREPUSCOLARISMO STORICO
Décadence è disgregazione, tramonto, separatezza come stato elitario e insieme di condanna («Ses ailes de géante l’empêchent de marcher», L’Albatros), evocazione dell’irrazionale, dell’arcano cosmico, perché reale è l’altrove, la «fôret de symboles». A giudicare dall’influsso che ha esercitato su tante correnti successive e dai tanti fermenti, dagli autori capitali che ad essa si sono ispirati, la décadence configura una condizione perenne, più o meno nella stessa ottica in cui Orazio, nell’Ars poetica, poteva dire che le parole, come le foglie, sfiorivano per poi rinascere e tornare a brillare della loro verde luce, e Baudelaire, nel Tramonto del sole romantico, evocare i bagliori di un crepuscolo al quale, aggiungerà Borgese istituendo la definizione di «poesia crepuscolare», non sarebbe seguita la notte. Difficile tuttavia, per i lirici crepuscolari, gestire l’eredità del decadentismo. Oppressi dalla mitologia del poeta vate ed estranei alla visione simbolista del mondo come «universelle analogie», che tutto fonde in un indistinto, schellinghiano assoluto, essi esibiscono un’apparente nudità di concetti e di stile, e con una sorta di retorica diminutio o recusatio disconoscono i grandi temi decadenti e proclamano la loro incapacità di sostituirli. Dire, con Natale Tedesco, che con la poesia crepuscolare «si negano non certi valori, ma la possibilità che ve ne siano»1 – assimilando la crisi (décadence) e la critica (decadentismo) dei valori – implica confrontarsi con una tensione negativa di secondo grado, con un rifiuto delle ideologie non ideologicamente connotato e diffidente verso nuovi significati che rilevino quelli perfettivi insieme a quelli ancora in auge. Così, la radicalità della negazione crepuscolare non profila la propaggine dei valori del decadentismo, ma ne indice l’uscita, anche riconoscendo, appunto, con sottilissima e melanconica ironia, di non esserne all’altezza. Esigente e difficile spoglia della décadence2, l’urto ideologico dei crepuscolari – giacché anche l’astensione o l’annichilazione si consumano in una configurazione storica e ideologica – si sfrangia nell’afasia della poesia, nella poetica delle parvenze del silenzio e del niente da dire di fronte all’«alchimie du verbe», nell’incompetenza dell’assoluto. La Weltanschauung collettiva dei crepuscolari sembra rivivere nel verso eliotiano «This is the way the world ends / not with a bang but a wimper» (The hollow men, 1925). Di cui Sanesi diceva: l’uomo vuoto non è nessuna cosa, non è dannato, si confonde, si nasconde, non osserva né vuole essere osservato. Tuttavia, forse senza averne coscienza, della poesia i crepuscolari disegnano sia il declino sia la condizione aurorale, aspetti coimplicati nell’ambivalenza sottesa alla metafora del crepuscolo, che con singolare preveggenza, ma limitandosi a Moretti, Martini e Chiaves, Borgese inaugurava nel 19103 – quando l’esperienza poetica crepuscolare era sul punto di concludersi, se consideriamo che Corazzini moriva nel 1907 e che I colloqui sarebbero usciti nel 1911 (e che gli sciolti delle Farfalle furono composti tra il 1908 e il 1912). Come un fenomeno di dissolvenza, fase terminale del decadentismo e ouverture a un’innovazione lirica, la nuova poesia viene metaforizzata nell’ora labile precorritrice della notte, l’ora dell’impallidire dei contorni delle cose. Il crepuscolo dà l’esatta misura della discorde temperie degli anni giolittiani, i cui ideali vacillavano sulla irriconoscibilità dei presupposti in vista dei quali erano maturati. Ma l’allegoria temporale del crepuscolo – bordo meteorologico, incrocio-incontro di fine e di principio – suppone anche il riemergere del fenomeno luminoso, quando il crepuscolo mattutino, l’alba, culmina nell’aurora. Crepuscolarismo, soprattutto in Corazzini e in Gozzano, è «perplessità crepuscolare», tempo crisalideo, contaminazione di ciò che è stato e l’aurorale, dilazionarsi nel continuum di dissoluzione e di volo. E in uno dei suoi saggi su Gozzano Sanguineti4 periodizzava la poesia italiana di un Novecento ormai concluso, di cui la stagione crepuscolare costituisce, storicamente, l’inizio, e, in una prospettiva categoriale, il momento chiave. Una «linea crepuscolare» – secondo una visione metastorica e allargata del crepuscolarismo – linea critica, eversiva, demitizzante, attraversa quel tratto del Novecento che va da Gozzano a Montale, e particolarmente dai Colloqui alle Occasioni, senza includere esperienze di incrollabile fede e consapevolezza poetica5, per ripiegare nelle forme epigoniche delle reviviscenze tardive. L’iterazione dell’avverbio di negazione «non», fino alla duplice negazione nell’epifonema che chiude il montaliano Non chiederci la parola, altro non designa che la suprema, tragica, legittimazione del già crepuscolare rigetto dell’identità tradizionalmente ascritta al poeta e della caduta della funzione vaticinante e universalizzante dei nomi della poesia, non in grado di dare una spiegazione armonica del divenire storico: «gli uomini non dimandano più nulla / dai poeti», diceva Palazzeschi nella mutevole, e all’apparenza fortuita, combinazione dei fonemi di E lasciatemi divertire! (L’incendiario, 1910). Nella predizione di Borgese, si tratta della grandezza poetica venuta poi alla luce, del nome negativo che dirà l’imprigionamento nel cosmo, l’ateleologia del mondo, la cui preistoria è ravvisabile, appunto, nei «sommessi balbettii» dei crepuscolari, nel crepuscolare, litotico, «io non sono un poeta»6, che doveva attendere all’incirca vent’anni affinché il rilievo della negazione conseguisse consapevolezza critica e plausibilità ontologica, e, in questa successione spirituale, la negatività il suo portato positivo. Di Moretti (1885-1979) interessa qui la sua anima crepuscolare – la sua vicenda crepuscolare, visto che la sua opera non si esaurisce con il crepuscolarismo storico – flessa nella trilogia che annovera Poesie scritte col lapis (1910), Poesie di tutti i giorni (1911) e Il giardino dei frutti (1915), cui seguì, dopo una vasta produzione narrativa ben apprezzata dalla critica, un lunghissimo, emblematico, silenzio lirico protrattosi fino a L’ultima estate (1969), e successivamente Le poverazze nel 1973 e Diario senza le date nel 1974. Al lungo silenzio di poeta forse contribuì la scomparsa di alcuni autori suoi compagni di strada, che fissava anche la fine del crepuscolarismo storico. Estraneo alla coscienza decadente, non coinvolto nel dramma collettivo e senza riversare troppa enfasi sui drammi personali, Moretti sembra incarnare, Spagnoletti osservava, l’autentica poetica crepuscolare in quanto scevra di sprazzi emotivi: «per un certo verso Moretti è stato sino alla fine il vero poeta crepuscolare, la cui poetica non è stata incrinata né dal rifiuto o dal divertimento, né dal realismo, dal sarcasmo o dalla ribellione»7. Nei versi del più crepuscolare dei crepuscolari non c’è lamento, né modellizzazione del significante nei termini intensi e profondi della perdita o della consunzione, non c’è altro artificio di come egli si disegna nel tempo che si inverte, cioè come colui che non ha vissuto, o che ha smesso di vivere nell’infanzia scolare. Emergono insomma dai suoi versi i lineamenti di una vita trascorsa della quale è sedimentata la misura dei suoi limiti – tra i quali il non voler riconoscere che siamo individui in divenire, e pertanto continuamente altri. Nulla delega al colloquio sconsolato con l’anima sorella, come Corazzini; non impone un ego pluralizzato nei diversi interlocutori o alter ego d’autore, come Gozzano, «mascherandosi per smascherare», diceva Sanguineti. Correlativa alla scarsa propensione del poeta verso un’elevazione spirituale, che gli fa dire «Rimango. Non ho remo», è la sua anima che non ha ali (Non hai l’ali?): «Rimango in preda a un’arte / vana che adoro e che temo» (Non ho remo). Alla chiusura fa fronte il viaggiare sulla carta che non comporta alcun rapporto dialettico con ciò che si incontrerebbe nel viaggio reale – ad esempio, Cesena risolleva tutto un mondo, mentre l’atmosfera décadent dei canali di Bruges, eletta a luogo in cui saggiare «una nuova solitudine», è costruita sulla stagnazione e sul grigiore (anche attraverso le rime chiave «Bruggia : aduggia» e «Bruggia : uggia»). E senza spasimo retrospettivo, nella monotonia musicale tra il distaccato e il nostalgico, egli mostra di amare il proprio passato mediocre, Borgese notava, oggetto di una nostalgia per altro ambigua, di una malinconia vaga e senza referente reale, quasi un indagare alcunché di smarrito, un desiderio vago, sospeso, di qualcosa di sconosciuto. Perché, più che in altra poesia, nei crepuscolari il presente è un tempo da cui scampare in quanto, come tempo della realtà e quindi del dover essere, pretende dal soggetto, pur se disforico, il deliberare rispetto all’aleatorio, l’agire e una presa di coscienza. Lungi dal riscattarsi attraverso il mito, il tempo presente sembra quindi interrompersi nelle reiterate proiezioni in un passato padroneggiabile, o nelle ipotizzate trame dell’avvenire – che in Corazzini e in Gozzano si configurano prevalentemente nel sogno o nella coscienza ossessiva dell’essere che non sarà. Alla sfiducia nella qualità dei tempi corrisponde un tempo pulviscolare e non scandibile dal profilo cronologico, un incantamento nel regno immodificabile dei dati memoriali: cioè un altro modo della strategia dell’attendere e dell’eludere le esigenze della volontà. Ovvero, una non vita. Ma sulla pagina, per la ragione che, Proust insegna, nell’artista vanno tenuti rigorosamente distinti l’âme originale e l’homme périssable cui essa è vincolata: perché l’arte non resti imbrigliata nelle maglie del tempo occorre osservare la distanza genetica tra il soggetto della creazione e quello dell’esperienza biografica. Sulla pagina Moretti partecipa alla Stimmung crepuscolare con il ricorso a registri espressivi e a stilemi condivisi, ma vi partecipa attivando un sensibile raffreddamento dell’inflessione sentimentale dovuta alla Weltanschauung per cui nulla vale e attraverso la flessione della valenza d’eco del regesto oggettuale dei luoghi del crepuscolarismo8, già di per sé assunti per estromettere dai versi la altrimenti soverchiante tensione effusiva, l’intemperanza emozionale che sarà estroflessa in altro, magari in cose insignificanti che prendono un diverso rilievo perché riempite di un senso più fondamentale. Il gruppo più significativo, e quasi dogmatico – e talora dall’aria di essere prefabbricato –, degli elementi del repertorio delle equivalenze oggettive passò ai crepuscolari per la mediazione letteraria dei simbolisti della nuova stagione, in particolare franco-belgi. Laforgue, Guérin, Samain, Rodenbach, Jammes, Maeterlinck, per lo più leggibili – oltre che nell’intonazione dei versi dannunziani del Poema paradisiaco (1893) – in «Mercure de France» e nella «Revue des Deux Mondes». Passò nei crepuscolari senza pregiudicare l’originalità di ognuno, insieme al gusto per gli stati fuggevoli e indecisi, per ineffabili regni intermedi, per l’ultima lontananza. Insieme all’indugio nel silenzio, nella rarefazione degli spazi, nel luogo di confluenza di esperienza ed astrattezza; a un simbolismo estatico e visionario, al sonnolento mondo della provincia, all’autoironia, a un sensualismo compiaciuto, alle sbiadite scene d’infanzia, a un intimismo religioso che ha smarrito il suo oggetto, a un’indole melanconica esasperata da voluttuose o languorose attese, a rarefatti orizzonti di presentimenti e di ignote tristezze, a un «desiderio di cose lontane» (Moretti). Un poeta crepuscolare, del resto, si riconosce anche dall’aleggiare, nei propri versi, di questi elementi indefiniti. Nei versi di Moretti gli sfondi sono scarsamente connotati e spesso sostituibili in quanto, scevri di emanazioni psichiche, alonati di un senso di distacco, si esimono dal rinviare a sensi ulteriori che non siano di malinconia (quella «torpida e limacciosa malinconia» di cui Borgese parlava) o di ambiti verbali correlativi di un’inconsistenza ontologica e vitalistica9. «Melanconia è una pioggia uguale lenta perché dice all’uomo l’infinita monotonia, l’immutabilità, la mancanza di scopo nelle cose». Cosí Michelstädter nel Dialogo della salute. È la monotonia di Serre d’ennui, l’«ennui bleu dans le cœur» in Maeterlinck. Un ricordo dalla relazione epistolare con Corazzini, un tragico ricordo, oggi, in prospettiva, potremmo chiamarlo un «dolce triste» ricordo – con la coppia aggettivale crepuscolarissima e simbolista (che tuttavia manca in Moretti): «Mon âme est une infante en robe de parade», un verso di Samain (Au Jardin de l’Infante, 1893), adattato appena alla circostanza, pronunciava a un certo punto Corazzini «con una leggera effervescenza letteraria», in presenza di Moretti quando questi gli fece visita nella sua casa romana di via dei Sediari 24, in uno dei suoi ultimissimi giorni. «Sergio entrò elegantissimo, un po’ con l’aria di entrare in scena, se ben col sincero proposito d’abbracciare un fratello mai visto: giovane d’appena vent’anni, bello, prestante, aitante, e tuttavia con qualcosa di vecchio nella figura e negli sguardi errabondi, candido ed insieme letterario nell’espressione […], con sulle labbra tremanti i nomi dei fratelli poeti […]; e al tempo stesso con non so che sarcasmo verso i fanciulli illusi e delusi, non tisici tuttavia, a cui si poteva ora aggiungere, ultima recluta, questo Marino di Firenze»10. Se in un primo tempo in Corazzini una musica stanca, una musica triste, poteva anche configurarsi come una sfida al contemporaneo contesto letterario, presto questa «malinconia di morire» finiva per incarnare (letteralmente, «mutare in carne») la sua distanza breve da un trapasso liricamente reificato nei temi, nelle strutture versali, nel verso libero che incorpora un tempo solo interiore, e in una nominazione evanescente, inerte, paradossalmente muta o persa in un appena più che silente soliloquio sul morire della vita e sull’essere in vita della morte. È lo stile-non stile della dissoluzione, dove la rappresentazione oggettiva si sgretola nel flusso a ritroso della vita. E dove comunque permane una certa preziosità compositiva a lui derivante anche da un gusto estetizzante diffuso a Roma, e non ultimo fu il carisma del «Convito» di De Bosis. In Moretti, invece, l’obiezione al naturalismo e allo storicismo dà luogo all’intrattenimento con una realtà poetabile solo attraverso un gioco al ribasso e un disincantato e contenutissimo formulario delle cose certe (il passato, la madre, le memorie familiari, il giardino, gli amori…). Non siamo nell’orizzonte dello sforzo corazziniano verso un’essenzializzazione linguistica di carattere lustrale, dell’eccesso di astrazione delle ultime raccolte quasi a stringere ciò che avanza della vita. E siamo lontanissimi dall’orizzonte della riduzione mallarmeana verso la purezza, se pure dal profilo umano tragicamente sentita come algida distanza dal mondo, e quindi richiamata, anche se per mediazione intellettuale, entro la sfera di una dolente e tormentosa esistenzialità esperienziale. Moretti sovrappone ai referti dell’esperienza la propria inclinazione riduzionistica, ridimensionandoli sia con l’uso di forme diminutive, sia filtrandoli attraverso uno schermo che li porta a una dimensione dimensionante (è egli stesso ad usare l’attributo «lillipuziano»: «O fratello dispotico e lontano, / quante mai volte sorridendo hai detto / che il mio mondo poetico è ristretto, / anzi – mi pare – lillipuziano!»), fino a disegnare della realtà una sfera di indifferenza e di limite. Come, ancora in Parole al fratello dispotico: «Tu vedi: la mia stanza è un bugigattolo, / tu vedi: la mia penna è una matita, / e la mia vita, la mia dolce vita / è come l’arte, un gioco od un giocattolo». E in altro ordine di idee, in Siamo in Romagna: «Kyrie eleison / Christe eleison / tralallalera tralallalera / tralallerà» – che ricorda certo Laforgue. Riduzione, ripetizione, sintetizzazione, iterazione straniante, appiattimento: vale a dire la distanza dall’eloquenza esaltante, il vuoto delle cose, una disposizione disillusa alla Totò Merúmeni, il quale, reduce dal dannunzianesimo, si autocondanna – di qui la scelta onomastica – alla condizione di sopravvissuto: «Il est né un jour. Un autre jour il mourra». È il verso che Gozzano preleva da Jammes – che così chiudeva Il s’occupe, in De l’Angélus de l’aube à l’Angélus du soir (1898) – per fissare in sintesi il proprio autoritratto, il ritratto del «vero figlio del tempo nostro»: la vita è la sequela dei giorni inutili tra il nascere e il morire. «Totò non può sentire», perché una tabe, una consapevolezza eccessiva, «inaridì le fonti prime del sentimento». Quindi non c’è nulla che valga la pena dire (poesia è nulla più che un rifugio in «esili versi consolatori»). Come già in Carlo Vallini, che in Un giorno (1907) invitava a non spacciare per poeta «chi non ha niente da dire». E ancora: «Tarderà molto a finire / questa ridicola farsa? / Io sento che fo da comparsa / e che non ho niente da dire». Senza dimenticare Sbarbaro, che in Pianissimo (1914), nel colloquio-monologo sommesso con l’anima sfinita, in una condizione spirituale non più sensibile al dolore né al desiderio, coglieva il tempus tacendi: «La vicenda di gioia e di dolore / non ci tocca. Perduto ha la voce / la sirena del mondo, e il mondo è un grande deserto». Dove «deserto» può evocare lo spazio di una possibile rinascita spirituale dalla «disperata indifferenza». Che nei lirici crepuscolari o è impossibile perché la malattia non consente nulla che possa continuare, o è irreversibile perdita del tragico. Oppure l’occasione per attraversare la michelstädteriana condizione rettorica; e in Michelstädter il la visione simbolica del «libero mare» («lasciami andare oltre il deserto, al mare», Alla sorella Paola, 1910), «un altro mare», pelagus substantiae infinitum, è autonomia, estraneità alle sponde del volere e del desiderare. «Ah! que la Vie est quotidienne!…», lamentava Laforgue in Complaintes sur certains ennuis (Les complaintes, 1885). È il tempo che resta vuoto e separato dal divenire, come nelle complaintes domenicali. È l’orizzonte contestuale dei versi di Moretti, dove l’unità di atmosfera rimanda a un cupo grigiore e alla noia della vita, allo spleen come crisi dell’essere nel tempo – di qui gli insistenti ritorni verso un passato non rinnovabile, e quindi l’attardarsi nel tempo della memoria. In Maeterlinck la noia è il prolungamento, in termini di estenuazione, dello spleen baudelairiano, cui viene prelevato il carattere tragico. La condizione maeterlinckiana somiglia a una forma di passività paga di permanere in «inazioni bianche», all’inesplicabile, cronica, perplessità di un’anima «malata di assenze» e di «attese morte», e l’ennui si definisce come ossessiva lode all’indifferenza e all’apatia, al silenzio insensato, allusivo all’attesa di nulla11. E il celebre morettiano «nulla da dire» – nucleo ispiratore dei suoi versi primi, a dispetto della sua vastissima produzione lirica e narrativa – potrebbe assimilarsi a un indebolimento del verlainiano «Plus rien à dire!». Indebolimento perché il «nulla da dire» di Verlaine, nel celebre sonetto Je suis l’Empire à la fin de la décadence (1883), era inserito in una visione storica quasi vichiano-spengleriana, a un ciclo incessante che guarda oltre la siepe dell’infinito. La decadenza tardo ottocentesca è rivissuta, individualmente, come eco o riverbero delle tante decadenze di cui nella ruota dei corsi e ricorsi è attraversata e intessuta la storia, e in particolare della décadence tardo-imperiale che tanto affascinò gli spiriti di fine secolo, da Huysmans a Pater. L’ostentata afasia di Moretti, in una età già da petite récits, appare invece più privata, intimistica, provinciale, marginale, talora spoglia di significati letterari e culturali in quanto, all’apparenza, scissa da una percezione della profondità storica e del divenire dei secoli. Ma che un disaffezionato non dire possa, paradossalmente, essere fonte di poesia, che anche il mutismo e il non senso possano generare suono e significato, per quanto grigi e smorzati, è idea molto moderna che sta, ad esempio, alla base dell’alea musicale così come del teatro dell’assurdo. Mentre il théâtre du silence di Maeterlinck era dominato da un silenzio espressivo e significante, da una pausa che poneva in rilievo la parola, come in un gioco di chiaroscuro, come l’ombra nella pittura, come il silenzio, la reticenza, la pausa, l’indugio nella letteratura e nella musica. Il niente da dire si intreccia con il rammemorare, con la regressione spinta fino alla vita amniotica, come nel Ricordo più lontano: luogo felice, forse, rispetto al perseguimento della «sua meta nel vuoto», la nascita. E questa ellissi del presente, dell’ora corrente non vissuta malgrado la comune percezione della fuga del tempo, accomuna Moretti agli altri crepuscolari, con la differenza che egli finisce per rideclinarla sul piano formale attraverso la diminuzione, la ricorsività dei ritornelli, l’ironia gratuita, quasi a tratteggiare un crepuscolarismo ormai fatiscente, come nella dichiarazione apertamente programmatica, e ormai non più neppure antidannunziana, della medietà della sua poesia-prosa (ma pur sempre poesia in versi, se ci rimettiamo ad Agamben, per cui solo l’enjambement, quella sfasatura tra elemento metrico ed elemento sintattico, è «condizione necessaria e sufficiente della versificazione» e discrimina il verso dalla prosa, cosa che non fa, ad esempio, neppure il bianco mallarmeano12), esemplata sul frutteto nel Giardino dei frutti: «Ecco dunque la mia prosa, la mia prosa-poesia […] Qual mia gioia più sincera se al gentil visitatore / che mi chiede a caso un fiore, glielo do con una pera?». E qui viene da sé il richiamo alla più sottile, snobistica e beffarda, esternazione di Gozzano, in L’altro: «Buon Dio, e puro conserva / questo mio stile che pare / lo stile di uno scolare / corretto un po’ da una serva». Rispetto al più scaltrito Gozzano, nel quale la prossimità al parlato non esclude preziosismi addirittura parnassiani, e nel quale, come Montale osservava, il prosaico viene arditamente coniugato con «l’aulico» nel nodo di una dimessità iperletteraria – la sua peculiare «letteratissima letteratura», una «antiletteraria (cioè antidannunziana) letteratura letteratissima», Sanguineti scriveva13 – che ne legittimerebbe la classicizzazione, con le sue cadenze ripetitive Moretti sembrerebbe descrivere l’esaurimento del crepuscolarismo, codificarne una versione epigonica e talora quasi caricaturale. Lo scriveva parecchi anni fa Baldacci14, che leggendo Moretti si ha la sensazione che egli fosse intervenuto nel momento in cui la vena crepuscolare si era pressoché esaurita, svuotata di sensibilità e di inquietudine, quasi compiaciuta della propria ontologica e poetica nihilitas (Piccolo libro inutile Corazzini titolava il suo penultimo libro di versi), dove l’inaridimento è vissuto senza ombra di pathos – anche perché in Moretti non è implicata la base biografica, origine della acuità del dramma esistenziale di Corazzini e di Gozzano. Con questo, l’antieloquenza di Moretti, la sua prosa in versi improntati all’enjamber, non è del tutto priva di tratti aulici. E tuttavia con i crepuscolari (come poi con Montale), la questione del sublime d’en bas e sublime d’en haut, del difficile equilibrio tra «sublime inferiore e sublime superiore», notava ancora Sangiuneti15, accenna a tramutarsi, da giustapposizione sfumata, in franca opposizione tra sublime e antisublime. E a proposito del prosaismo di Moretti, che progressivamente amplia i margini del lessico poetico, Mengaldo osservava che «la prosa-poesia (con la sua formula) da lui praticata unisce ulteriore abbassamento del linguaggio a grande perizia tecnica e a un uso particolarmente attento e ricco delle controspinte poetico-auliche (non sempre e obbligatoriamente in chiave parodica). Questa prosasticità controllata prevede intanto l’adozione, a tratti proterva, di un lessico umile e deprezzato […], e l’accostamento di tipo ‘gozzaniano’ di termini dissonanti in rima o a contatto immediato»16. La poesia-prosa, nella sua bassa curva musicale, all’apparenza contraddetta dalla gabbia metrica che la delimita, interpreta il cedimento tonale di un lessico altamente prosaico tale da dare l’impressione di conservare le scorie dell’usura, e da assomigliare a una constatazione, nel tono degli avvisi degli orari ferroviari (un oggetto introdotto da Moretti, si vedrà), una constatazione tuttavia inquadrata nella scansione rigorosa di versi istituzionali, per quanto questo nucleo istituzionale non fosse coeso ma di continuo incrinato per effetto di interruzioni, sospensioni, inserti pseudo-dialogici (ovviamente, il linguaggio constativo non esclude la performatività poetica che conferisce esistenza alle cose del mondo anziché rappresentarle soltanto). La tensione al restringimento dell’orizzonte emotivo riguarda un po’ tutti i crepuscolari, e va dalla gozzaniana, onnipervasiva, poetica dell’assenza (benché l’assenza, Benjamin diceva, costituisca il più alto grado di presenza) alle intenzioni ricercatamente minime di Moretti, da un laforguiano, talora clownesco, Palazzeschi (e ricordiamo gli esiti ora palazzeschiani ora laforguiani – ma lontani dall’autodisprezzo di Laforgue – di Corazzini nei versi liberi che chiudono il Libro per la sera della domenica) all’impressionismo verbale di Govoni fino alle pose da inguaribile agonizzante di Fausto Maria Martini («cercando rime per estenuare», Verso la fine, in Poesie provinciali, 1910). Ed è tutt’altro che trascurabile il ruolo svolto dai singoli destini: all’infuori di Corazzini e di Gozzano, l’abbandono al presagio della fine, la coscienza che il dissolvimento della negatività potrà avvenire solo con la morte («Via via che scendo verso il presente tutto si confonde, si illividisce, s’abbuia», I sandali della diva), quel sentirsi ai margini della vita si risolsero per lo più in false drammatizzazioni (contro cui non esitava a scagliarsi garbatamente Gozzano17), una moda letteraria che si interseca al rifiuto dell’ideologia borghese e delle sue verbalizzazioni (Corazzini: «per esser detto: poeta conviene / viver ben altra vita!», Desolazione del povero poeta sentimentale). In tutti, o in canoni metrici o in versi liberi, c’è comunque l’aspirazione a distanziarsi dalle esperienze poetiche finesecolari di carattere assertivo, dal civismo carducciano e dalla sua religio litterarum, dal modello dannunziano (Paradisiaco incluso, dove lo stato d’animo convalescenziale e la tensione verso l’innocenza infantile, prima di una nuova ricaduta nel piacere, sono successivi all’esaltazione sensuale, e la vena antilirica è risollevata e sorretta da un lessico ricercato ed effusa in sofisticati scenari) di una décadence fastosa, ma anche da Pascoli, che nell’eccesso di malinconia, nell’antiretorica attenzione verso le piccole cose o nella scelta regressiva dice sempre qualcosa che è, non che non è. La poesia viene dai crepuscolari fatta passare per qualcosa di diverso dalla poesia: è l’ultima parola sulla negatività, in versi privi di riferimenti, ma anche di destinatari. Veniamo allora all’espansione della litote crepuscolare: se per «poeta» si intende designare colui che incarna una forma di moderna divinità («O Poeta, divina è la Parola»…), Corazzini non può fare a meno di rettificare: «Perché tu mi dici: poeta? / Io non sono un poeta. / Io non sono che un piccolo fanciullo che piange» (Desolazione: e quel «tu» indeterminato potrebbe alludere al lettore avvezzo a tutt’altra poesia). E Palazzeschi: «Son forse un poeta? / No, certo. / […] Chi sono? / Il saltimbanco dell’anima mia» (Chi sono?). E Moretti: «Io non sono un giardiniere e nemmen forse un poeta» (Il giardino dei frutti, testo eponimo). E ancora «il poeta che si mostra / su un cavallo della giostra / sembra il pagliaccio ch’egli è» (La giostra). Poi Gozzano, o «guidogozzano» – quale esito di una cosificazione – superlativamente: «Io mi vergogno, / sí, mi vergogno d’essere un poeta!» (La Signorina Felicita). La «perte d’auréole» non potrebbe essere più consapevole e radicale. E con simili, benché antifrastiche, dichiarazioni d’autore, che prendono le distanze sia dall’ideologia di uno Sperelli sia da un Piero Maironi, i lirici crepuscolari, cantori dell’antipoeta e della transitorietà strutturale dell’io lirico, un fenomeno labile di flusso, pervengono al medesimo esito: il rovesciamento e la «liquidazione di un mondo: del supermondo ‘sublime’ del poeta superuomo»18, dei montaliani poeti coronati di alloro. Ai nomi e all’attivismo eroico, e quindi doppiamente fallimentare nel condividere utopia e deriva, degli Sperelli, Hermil, Aurispa, Effrena, esteti decadenti verso una nuova oligarchia19, Moretti (che per altro nel Poeta nuovo difende d’Annunzio, ma non Carducci, dai pregiudizi dei vecchi retori) risponde con i «nomi d’ignoti a cui demmo del tu», alfabeticamente ordinati nel registro scolastico: «Leonardi, / Massari, Mauri, Mèngoli, Moretti… […] Nolli, Orlandi, / Ostiglia, Paggi, Poggi, Poggiolini…» (Poggiolini). Reattiva alla retorica e agli eccessi adornativi, la versificazione regolare di Moretti, con metrica e forme chiuse, è rigorosamente in rima: come casuale consuonare di terminazioni fonetiche, stando alla dichiarazione della fortuità e non della costitutività della rima, in Signora Rima – ma Moretti tornerà più volte sulla questione della rima e sulle ragioni della sua persistenza: «Tu cadi sulle mie carte / […] piú per un semplice caso / che per capriccio o per arte». Resistente al verso libero, la sua sintassi poetica mostra comunque forti spezzature (come in A Cesena, dov’è debitore del rodenbachiano «Tristesse! je suis seul; c’est dimanche; il pleuvine!», Le Règne du Silence, X, 1891), con prevalenza di enunciati paratattici sprovvisti di segni funzionali. Anche per conseguire l’effetto di un vuoto emotivo e per la semplificazione rastremante degli sfondi esterni. Lo accomuna a Gozzano una autoironia che impegna il lettore in una decodifica della semanticità del linguaggio lirico, nel tentativo di lambire il livello profondo dell’espressione – l’ironia è spessissimo il segno di un disagio (emblematico il titolo di Chiaves, Sogno e ironia, 1910, emblematica è l’intonazione ironica di Corazzini nel suo ultimo libro di versi, del dicembre 1906). Con Gozzano Moretti condivide anche la dimensione della inafferrabilità del soggetto dell’esperienza, il suo sistema ammiccante a un difetto consapevole, ma rispetto a Gozzano, che di continuo si propone per poi immediatamente smentirsi, Moretti evita di proporsi, restando al di qua di enunciati impegnativi. Il testo topico, Io non ho nulla da dire: «Aver qualche cosa da dire / nel mondo a se stessi, alla gente! / che cosa, io non so veramente / perch’io non ho nulla da dire». Che senso ha dire in poesia «io non ho nulla da dire»? È forse una forma di negazione della poesia in quanto tale? Mettere in una trama di sillabe e di rime un nulla da dire può alludere a un gesto più radicale rispetto alla corazziniana negazione, al palazzeschiano divertissement o alla gozzaniana vergogna di essere poeta. Forse è la strategia radicale per non assoggettarsi alla falsificazione: non dire nulla equivale ad esimersi dal mistificare, dove l’indolente ironia permette al poeta di non sbilanciarsi tra i due poli dell’azione e dell’astensione. Un inclinare all’impartecipazione, ovvero, con Gozzano, alla «rinuncia volontaria». Oppure, dire il nulla da dire è una risposta trasversale a un interrogativo quasi agostiniano, come se la poesia stessa fosse divenuta, analogamente all’umano, sibi ipsi quaestio, un enigma per se stesso, enigma insolubile davanti allo specchio della propria coscienza: qual è lo scopo della scrittura nel tempo in cui tutto è stato detto? Forse, colmare le ore spente, destituire l’idea patologica del tempo immobile e invissuto e dello spazio chiuso che anela a una dilatazione che pare soffocata sul nascere. Sfuggire nello spazio del verso a questa condizione claustrale, al rigetto e alla aseità, accorciare la distanza dal mondo. Sottrarsi alla tortura esistenziale, che è insieme ricerca e difesa: è l’ambito della creazione poetica e della testualità, benché, quest’ultima, ostile all’eloquenza perché niente più vale, e incline allo schermo oggettuale. Così, il male e il suo rimedio sembrano coincidere ed incrementarsi l’un l’altro. A Moretti, rispetto al liricissimo ed elegiaco Corazzini, alla sovrabbondante ispirazione di Govoni, al Gozzano soprattutto delle Farfalle, non pertiene quella tendenza a sintonizzarsi con le forze cosmiche, in una mistica corrispondenza con le tonalità del mistero, magari per rimarcarne l’intrinseca scissione con l’umano. Gozzano spiava la metamorfosi intrattenendosi sullo stuporoso status crisalideo, la configurazione più evoluta del gozzaniano paradigma dell’assenza. La farfalla è molto più che una ossessione tematica: è zona liminale di confluenza «del non essere più, e del non essere ancora» (diade ricorrente in Gozzano, in poesia e nelle prose), delle spoglie del passato e dell’anticipazione di un futuro confinato nell’ambito dell’inverosimiglianza – ma per eufemismo, in luogo della parola propria, eufemizzando: la «Signora vestita di nulla», della cui azione distruttiva, ancora per eufemismo, sarebbe responsabile la «fede letteraria» (chi scrive la vita, non la vive). Così come è estraneo a Moretti il corazziniano tendere all’ondulazione e alla stilizzazione, quell’andamento a volute, quelle linee curve del verso che ad alcuni crepuscolari derivò dal liberty, vibrazione e volute di puro suono, ma implicate anche nei simboli ispirati al numinoso e ai reconditi segreti della natura, lo jenseits der Dinge di ascendenza simbolista e soprattutto maeterlinckiana: per cui noi ci illudiamo che la conoscenza sia ancorata a un soggetto unitario, mentre essa si sfrangia e si pluralizza, come in un gioco di specchi, nella molteplicità di ciò che ci sta intorno, in una miriade di effetti transitori (L’intelligence des fleurs, 1907). Quella vicinanza crepuscolare alle soglie del segreto pare in Moretti risolversi tutta nel prosaismo stagnante, e non ritmizzato nel flusso temporale, dell’esperienza e della parola. Dove l’elemento strutturale, enunciativo, portante mai viene scorporato da ciò che evoca, conservando una consistenza fenomenologica ed esperenziale ricercatamente minimale: «Chinar la testa che vale? / che vale fissare il sole / e unir parole a parole / se la vita è sempre uguale? (Che vale?). Abbandonato dalla Musa (cioè, come l’anima, il suo «passato con le gioie e i lutti», Alla Musa), pur se in versi altamente interrogativi (ma in assenza di interlocutori l’essenziale resta impigliato nella domanda) che danno luogo a sospensioni, indecisioni, non si distingue in Moretti un progetto poetico (come ad esempio Gozzano, che quasi a conclusione dei Colloqui si proponeva di tornare a far versi «con altra voce»), neppure, come in Corazzini, l’idea di un dettato, già attenuatissimo, che si va progressivamente assottigliando nei temi, nei materiali linguistici e nel modularsi dei ritmi e nell’addensarsi dei valori privativi – e in effetti si può parlare di «poesia pura» anche quando, come in questo caso, la poesia istituisce una comunicazione astratta dall’ordine naturale, sociale e storico, reggendosi sui propri, scarsissimi, elementi – perché di esso resti la stilizzazione: la sospensione, la cessazione del discorso lirico insieme al soggetto dell’enunciazione. Il distacco, la disarticolazione dell’allocuzione, reificati anche in termini metrici con l’abbandono della metrica istituzionale e la scelta versoliberista, o con l’occasionale abbandono delle parti strofiche significano lo svanire, quasi una presa di distanza dalla propria voce. L’idea incarnata di un noviziato della dissoluzione. Quella di Corazzini è un diagramma contro corrente, un confluire, un volgersi indietro, verso il prima, verso il nulla («Verrà la pace con le mani giunte», Elegia). Per Moretti, invece, versificare sembra essere qualcosa di scollato dall’urgenza del dire, di inconsistente, di incurante, di infondato, quasi ad allontanare la noia: «Quello che fu mio lo persi / strada facendo, quasi inavvertita- / mente, e adesso se ò un foglio o una matita / faccio, – indovina un po’! – faccio dei versi!» (Poggiolini). Come nella Domenica della signora Lalla20: «Come son vani, come son diversi, / signora Lalla, i miei compiti d’ora! / Dimmi, vuoi riguardarmeli tu ancora? / Sembra uno scherzo, ma son tutti in versi…». Versi che delineino della vita l’ombra e l’opacizzazione delle sue ragioni, che effigiano la noia non come evento transitorio segnato dalla momentanea mancanza di sentimenti o di desideri intensi, o di sogni di fuga, ma come perseverante dimensione depressiva di un’esperienza incolore. O che «non è colore piú» (Ramo d’ulivo). Diceva Jankélévitch che «tutti i colori convengono alla noia, ma innanzitutto e soprattutto il grigio: non solo perché il grigio è la policromia virtuale, ma anche perché è il limite di ogni scolorimento e il ritorno della screziatura multicolore alla neutralità»21. Connotazione cromatica, il grigio, della rinuncia ai colori, dell’atonia della vita, della «immobilità senza speranza», secondo Kandinskij. Colore della cenere, della nebbia di Cesenatico, paese crepuscolare «in grigio e in nebbia», dello scolorimento, opacità smorta che rende l’apatia, la piattezza e l’uniformità del sentire («non c’è che un colore: / il grigio», Che vale?), in versi quasi a tinta unica, dove vige l’emozione che non sussiste alcuna emozione. Un «velo grigio» sottentra all’onniavvolgente e pervasiva acromia del bianco corazziniano22, tonalità del silenzio nell’accezione suprema e di una mistica della morte. Grigia è la domenica di provincia, pervasa dal plumbeo spleen crepuscolare (e infatti definita sinteticamente «il giorno crepuscolare»): «Vorrei cantare tutte l’ore grige / in questa solitudine remota» (La malinconia). E ancora in Che vale?: «Non c’è né duolo, né gioia, / non ci son né luci, né ombre: / il grigio, il grigio che incombe / sui cuori e un tarlo: la noia». Il grigio di Moretti è il colore dell’inazione (l’antecedente crepuscolare, del 1903, è Armonia in grigio et in silenzio, del più coloristico e baroccheggiante Govoni con le sue fluenze di immagini, «attratto dalla superficie colorata del mondo», Mengaldo diceva), è colore che partecipa della noia, è il tono smorzato dei segni del lapis, della malinconia e della tetraggine («malinconia / del tuo color che non è più colore», Ode al lapis). Un «grigio borgo» dove piove e «s’avvicina / l’ombra grigiastra» è Cesena23, parvente del non-io, grigie sono le ore, grigia è l’«immensità» chiusa nell’opaco sfondo della Domenica di Bruggia (che richiama il titolo del rodenbachiano Bruges-la-Morte), grigio il diurno morettiano vagabondare («lentamente camminando / per la città sconosciuta / dove nessun mi saluta / fuor che un cane a quando a quando», La domenica dei cani randagi). La malinconia delle mezze tinte si ricollega all’astensione, al nulla da dire e al girovagare, alla flânerie come indice del nulla da fare, circostanza già rilevata da Borgese: un vagolamento, un far passare il tempo, tempo vuoto e non scandito, che non assumono il carattere delle escursioni notturne a sfondo estetizzante da parte dei crepuscolari del cenacolo romano24, ma interpretano lo scopo non-scopo di esteriorizzare il nulla da dire. Una flânerie25 senza desiderio di libertà e senza legami con uno spazio esterno critico, separato, nei confronti del quale il soggetto lirico si esime dal farsi riflessivo. Nulla da dire e nulla da fare si legano all’idea di versificare durante questo distratto e inconcludente vagabondare («fare versi per via», Ode al lapis), nel quale il flâneur sembra pago «d’una felicità fatta di cose / randage, di brevi atti di passanti, / di ritornelli facili, di pose / vecchie d’innamorati interessanti» (A Firenze, con Palazzeschi). Diceva Ramat che Moretti non vaga, come Sbarbaro, per disconoscere, «vaga non per rifiutarsi di vedere alcunché, ma semplicemente per trascrivere – inutilizzato – il nulla da dire che ha (relativamente) veduto»26. E quanto alla linea di poesia dell’oggetto (e qui, è ovvio, «oggetto» differisce dall’accezione filosofica che lo distingue dal soggetto pensante e dall’atto con cui è pensato, e si allarga inoltre a luoghi, situazioni, eventi) – antefatto letterario del montaliano correlato oggettivo27 – con Moretti percepiamo quasi una uscita dal soggettivismo lirico nel disinvestimento emotivo delle cose e nello smorzarsi della loro risonanza e attrattiva simbolica. Dissimilatosi dalla visione finalistica della storia, Moretti si limita a nominare ciò che è certo. Strategia complementare allo scetticismo crepuscolare, esatto e congruamente collocato nel tempo e nello spazio, l’oggetto sembra vivere nei suoi versi di un’esistenza in sé conclusa, propria, eccedendo il canone crepuscolare, corazziniano in particolare, dell’oggetto-specchio. Non dunque assegnato a una serie discontinua e adimensionale o esso stesso sede di una traducibilità, di un trasferimento di proprietà anche stridenti, l’oggetto interpreta prevalentemente il disagio dell’esperire la sfasatura tra l’ora e un tempo anteriore, come nei ricordi di scuola. Moretti si definisce come «colui che ama solo il suo passato», e l’oggetto concorre quasi esclusivamente ad esplicitare questo amore (giacché la sua regressione è esente da quella «incidenza vitale»28 insita nei versi di Corazzini e di Gozzano), anche se le cose non sono più allo stesso posto da poterle ritrovare. Non snaturalizzati, e memori della loro funzione oggettiva, gli oggetti in Moretti emarginano quel nichilismo che vuole il prevalere dell’io sulle cose. Nei suoi versi l’oggetto è definibile, senza sospensione semantica del suo nome, e non illusione o proiezione, o status traslato in cosa, esiti, in altri crepuscolari, del situarsi lontanamente. Lontano è il tempo e il sapere del tempo, ma non sembra qui esserci altra vita, o altra morte, che risalgono dall’oggetto, o un assedio di rappresentazioni singolari. Se in Corazzini l’oggetto era una glossa emotiva, o l’incarnazione materiale dell’anima, «un altro me», altrettanto deperibile, icona dell’estrinsecarsi della nostalgia, in empatia e in relazione paritaria con il soggetto lirico, in Moretti l’oggetto trascende il soggetto e ne sancisce la distanza, e sembra patire la mancata trasfusione del sentimento. E se le cose risospingono nel presente il sostrato delle memorie, Moretti, incurante di una ricostruzione interiore, non sembra andare molto più in là di una controllatissima nostalgia (come nel Piccolo Melzi), lasciando insoluto il deciframento dei segreti scomparsi o trattenuti nelle cose. E seppure nel Libro dei sorprendenti vent’anni abbia detto: «il passato è la mia sola ricchezza, e, dirò, il mio avvenire alla rovescia», e il passato evoca, o è evocato, dalle cose, sembrano comunque sfuggire sia il portato simbolico che il contesto traspositivo comporta, sia il legame sentimentale con esse: in Poggiolini e nella Domenica della signora Lalla, ad esempio, gli oggetti del campo semantico dell’età scolare, rispettivamente, o danno luogo alla rivelazione di una vocazione poetica senza pathos, sorta quasi per non aver altro da fare, o si risolvono nel ritmo cantabile o sbadigliante di irriflessivi refrains. Mentre in Govoni la fusione tra il soggetto lirico e l’oggetto è esemplare, in Palazzeschi c’è l’oggetto vuoto, la cosa nuda, la fiabesca fantasia nominale, dov’è amputato il costituente affettivo (Oro Doro Odoro Dodoro, I cavalli bianchi, 1905). Gli stessi nomi di luoghi sembrano rispondere a un’esigenza di ricerca di sonorità più che di una ricerca oggettiva o a una reale ansia di evasione. L’indifferenza – la non più disperante, corazziniana, «disperata etisia degli ideali» – avvolge e impregna di sé anche l’elocuzione di Moretti, che si qualifica come elocuzione al grado zero, insieme alla fredda luce delle cose e degli ambienti che tendono a desoggettivare l’atto della creazione, e che riflettono, senza alcun romantico o decadente analogismo, l’assenza di un vero stato d’animo. Questa zona di oggetti ha poco in comune con Gozzano, dove gli emblemi oggettivi sono riempiti di ironico rimpianto, talora smemorati o sbeffeggiati, ma saturi di trame soggettive, di un’aura di passato ormai cristallizzato, atto a distanziarlo dal presente e da ogni inquadramento ideologico. Il rituale che Gozzano inscena con la poetica dell’oggetto è in vista dell’allestimento verbale di una sorta di «altare del passato»: e il carattere di passato, plaga chiusa e sicura nel proprio artificio, che attraversa i versi gozzaniani sopperisce a un tutt’altro che metaforico presente, o realtà, come desideratur29. Gli oggetti di Moretti rivendicano invece un’autonomia e una dimensione univoca che sospendono slittamenti verso altre incarnazioni di se stessi, sono oggetti concreti e letterali (per usare la definizione che Barthes associava agli oggetti robbe-grilletiani): il morettiano oggetto fattuale quindi fa la cosa – per lo più scrive la regressione, il «desiderio di perdute rive» (L’epistolario nell’antologia) – senza svelarne alcunché. Al contrario, saltando qualche decennio, si potrebbe azzardare un nesso, magari remoto, con la condizione della noia nell’accezione moraviana di «malattia degli oggetti» per la loro rapida perdita di vitalità, dell’oggetto che di conseguenza si presenta come «qualcosa di estraneo», «un oggetto assurdo» che designa l’impartecipazione, l’estraniazione, la dispersione del tragico. E proprio per questa sua visione della vita, Moretti sembra oscillare tra gli estremi dell’oggetto positivo e dell’oggetto straniero. Egli non afferra l’oggetto, come non afferra l’essere emblema dell’oggetto, non ne sperimenta né la vita né la dissoluzione, né lo assume, gozzanianamente, come obsoleto nella sua fissità, e neppure è obsolescente come le corazziniane cose «che sanno», in una poesia dove soggetto lirico e oggetto, specularmente, coesistono in una comunione indivisa. E in Corazzini – dove la cosa è ipostasi temporale e spirituale – a ragione si può parlare di metafisica dell’oggetto e di una cosale sacralità. In fondo quella che è stata definita «l’auscultazione crepuscolare dei moti dell’anima» è in realtà sorvegliata e sorretta da una esuberante tensione oggettuale, come nel primo dei due Poemetti in prosa di Corazzini, Soliloquio delle cose, del 1905: un piccolo compendio dell’esteriorizzazione di un sentire delegato al linguaggio delle cose. Inoltre, il catalogo oggettuale della poesia di Moretti introduce elementi che esorbitano dal tradizionale elenco crepuscolare, e in parte già simbolista: l’orario ferroviario, il libro contenitore dei sogni («tutte conosci le città dei miei / sogni e i paesi che non vedrò mai», Orario ferroviario), e che tanto doveva sedurre Proust, che diceva quanto il suo essere spirituale, fantasticando sull’orario ferroviario – e cioè il più grande dei romanzi d’amore, o il tramite per il distacco da un amore finito – riuscisse a travalicare i margini del noto, superando il suo stato di reclusione con l’illusione della partenza o l’emozione della fuga verso qualcosa da raggiungere con altro sguardo. E insieme all’orario ferroviario, l’ascensore e il telefono fanno la loro comparsa nei versi crepuscolari, in certo modo deprivati delle loro caratteristiche usufruibili. Come in Ascensore, «questa celletta piccola e imbottita / che va su, che va su», e in Telefono, dove vige il loro carattere di quasi inusabilità, o di utilizzabilità straniata: «Sei tu! sei tu! la voce mi giunge / da una profondità d’anima oscura […] Ho paura di te, di questo ordigno / che al povero cuor mio che piú non sogna / dona la voce tua, la tua menzogna / come per uno spirito maligno». Ora, il fatto che Moretti, al di là della circostanza del ricordo di una stagione perduta e ormai vietata, per lo più precluda l’oggettivazione della trama emotiva, o che eluda quello che sarà il montaliano, più impegnativo, passaggio dal fisico al metafisico, dal fenomenico alla noumenicità (cui si oppone il muro-diaframma, ad esempio), e più ancora dal metafisico al fisico vista la frequenza del cristallizzarsi dell’astratto nell’oggetto montaliano, non esclude in assoluto sconfinamenti nell’extraoggettuale: nel monologante dialogare con l’anima, «la dolce anima» della Domenica di Bruggia, l’«anímula da nulla» di Parole al fratello dispotico, e con la Musa, figure vigilanti i grigi segni del lapis. «La mia penna è una matita» diceva Moretti. Oggetto eccentrico, il lapis30, senhal della parola riflessa che condurrà a una riflessione della poesia su se stessa. Correlativo dello svanimento nell’invisibile, il lapis emblematizza il crepuscolare dire poetico in tono minore, il dire del grigio psicologico trasfuso nel grigiore delle ore. Garante di una funzione incoativa, del momento iniziale di un processo che forse non avrà termine, il lapis è nel campo della prossimità al silenzio e al dileguare, e tuttavia il suo statuto enunciativo contempla l’autoriflessività. In omologia con il nulla da dire, tratteggia una poesia preparatoria come prefigurazione al dire, un dire grigio, embrionale, un nome incoativo che è predestinato a sparire, ma non a fallire: «imitasti su la carta il grigio / della tristezza mia lenta e segreta»; «dolce mi fosti e dolce mi sarai / compagno tu nella solinga vita: / vedi, la vecchia penna è arrugginita / e non v’è inchiostro piú nei calamai» (Ode al lapis). Condizione liminare – quello che resta dell’intenzionalità artistica una volta consumato ed esautorato il compito del dire –, tensione verso l’espressione fuggevole e svanente, il tratto del lapis imprime la designazione prolettica, l’estinto nome che è ancora da dire in termini di «melodie ignote di parole e d’aria / […] versi staccati quasi senza senso, / ma pieni di una lor musica varia» (Ode al lapis). Scrivere, allora, perché «è triste. Credetelo, in fondo, / è triste. Non essere niente. / Sfuggire cosí facilmente / a tutte le noie del mondo. // Sentirsi nell’anima il vuoto / quando altri piú parla e ragiona. / Veder quella brava persona / imporsi un gran còmpito ignoto» (Io non ho nulla da dire). Scrivere comunque, anche se «scrivere non è necessario»31, stilando nella condizione dello sfarsi del segno del lapis32, per demitizzare i pretendenti attributi della storia e per attestare una presenza postulabile e, per quanto intrisa di «povertà cogitabonda» (L’albergo della Tazza d’oro), consapevole di una caducità senza slanci ottativi, ipotetici o al condizionale. Sarà una parva laus vitae, comunque scampata sia all’inerzia o al cupio dissolvi sia alla lusinga della nominazione sublime: eluso ogni compromesso sentimentale, oltre che poetico, resta la libertà dell’assenza di scarto tra la vita e il verso, e non l’urgenza o la necessità di una loro simbiosi. E il farsi un po’ da parte nelle amare e amate plaghe memoriali dell’«angolo d’hortulus» – del resto, come in Pascoli, nel conviviale canto di morte dal titolo L’amore, l’amore non si può rinnovare, ed è il rimpianto che fa la poesia. Il lapis rende effabile la coscienza di «esser qui sempre come un’ombra, come / un’indistinta forma di passante» (Hortulus) – prefigurazione ancora pallida e non problematica del montaliano «camminante» che percorre la solitudine, o della flânerie di Arsenio, della vertigine del «delirio di immobilità»33, del non essere, dell’irremissibile vedere la morte, che nella dizione di Moretti si proietta nell’orfismo della memoria. Le «cognite cose», dal canto loro, continueranno ad appartenere alle architetture e alle atmosfere del mondo e della memoria presente, nella loro indifferenza originaria.
RebStein», Quaderni delle Officine, 16 marzo 2023
NOTE
1 N. Tedesco, La condizione crepuscolare, La Nuova Italia, Firenze 1970, p. 76. 2 Termine tedesco, «Verfall», dove i decadenti, e in seguito i crepuscolari, sperimentano la duplice discendenza di «décadent» e di «inizio», sanno l’una e l’altra cosa, diceva Nietzsche, con altro pathos, in Ecce homo. Questa doppia origine «chiarisce quella neutralità, quella libertà di fronte al problema generale della vita che forse mi distingue». F. Nietzsche, Ecce homo (1888), a cura di S. Romagnoli, Torino, Einaudi 1955, p. 13. E il disinteresse verso la realtà attiva e storica in favore di un’eccessiva insistenza sull’universo della soggettività rescissa da ogni forma di prassi è ciò che distingue i decadenti, e ancor più i crepuscolari: castalii senza pretese di conoscenze intellettuali, singolarità slegate dal mondo sociale a cui negano ogni partecipazione. Figure che vivono al di fuori delle contraddizioni dell’esistenza e della storia, malgrado restituissero l’impressione di soggiacervi, declinandole in versi. E in versi labili spargendo forme perché sopravvivano. 3 «Che cosa sia la poesia italiana dopo la gloriosa fioritura di Pascoli e di D’Annunzio non è facile capire a chi non s’occupi di letteratura per professione. A interrogare i critici, che distribuiscono ogni anno eque razioni di lodi fra cinquanta o sessanta volumi di versi, si direbbe che Apollo musagete tenga fermo il suo carro di fuoco sullo zenith del nostro cielo. A interrogare il gran pubblico, si direbbe invece che dopo le Laudi e i Poemetti la poesia italiana si sia spenta. Si spegne infatti, ma in un mite e lunghissimo crepuscolo, cui forse non seguirà la notte. Presso un popolo ricco di energie creatrici come il nostro la lirica esaurita sonnecchia stanca, ma non dorme e non muore. In una morbida ignavia soffusa di vaga inquietudine si confondono gli ultimi sospiri di una grandezza che fu coi primi sommessi balbettii di una grandezza che verrà un giorno alla luce, e il chiarore del tramonto si protrae fino a disperdersi nei primi raggi dell’alba. […]. Ecco tre giovani poeti crepuscolari – Marino Moretti, Fausto Maria Martini, Carlo Chiaves – che sono indubbiamente tra i migliori rappresentanti di una scuola poetica ogni giorno più numerosa: quella dei lirici che s’annoiano e non hanno che un’emozione da cantare: la torpida e limacciosa malinconia di non aver nulla da dire e da fare». G.A. Borgese, Poesia crepuscolare, «La Stampa», 1910; poi in La vita e il libro, Zanichelli, Bologna 1928, pp. 120-128. 4 E. Sanguineti, «Da Gozzano a Montale» (1954), in Tra Liberty e crepuscolarismo, Mursia, Milano 1977, pp. 17-39. 5 Tale è, in fondo, la visione di Ungaretti del poeta che adempie alla «missione», diceva in un’intervista, di mettere in relazione l’effimero con l’eterno: al balenare del mistero e delle vere ragioni del vivere «vi arriva il poeta / e poi torna alla luce con i suoi canti / e li disperde»; «Sono un poeta / un grido unanime / sono un grumo di sogni», Il porto sepolto (1916). 6 L’archetipo della poetica della negazione è in Emilio Praga: «Tanta vergogna mi mordeva il cuore / D’esser poeta», Rivolta (1864), in Poesie, Treves, Milano 1922, p. 225. 7 G. Spagnoletti, «La nostalgia di Marino Moretti», in Storia della letteratura italiana del Novecento, Newton, Roma 1994, pp. 143-147. 8 Alcuni elementi del repertorio crepuscolare: le corsie degli ospedali con i malati e i convalescenti, la provincia sonnolenta, le stazioni sperdute, le statue moribonde e corrose dal tempo nei giardini chiusi e dimenticati, i rosai, i parchi e gli orti d’inverno, le chiese oscure o abbandonate, i grigi cortili conventuali, le recluse, le beghine, gli oggetti del culto cattolico, i giovani malati di etisia, i cimiteri, i fanali malinconici (o la metafora del lampione in Govoni: «E l’alba soffia il dente di leone / del lampione»), gli interni familiari polverosi o straniati, le dagherrotipie, il singhiozzo delle cose, le suppellettili varie, le marionette, le vuote domeniche di provincia, le vecchie musiche degli organetti di Barberia, le ville solitarie e remote, l’ora crepuscolare, i viali monotoni ritratti nel loro scenario autunnale. Alcuni emblemi oggettivi in Corazzini, soggetti a uno sporadico variare referenziale: cadere delle foglie-sfiorire dell’anima; battere alla porta-attesa vana; rose disfatte-vanificarsi della persona; immagine consolatrice del sole-rifiorire della speranza; campana-simbolo denso di vacuità, tragica distanza, desiderio di lontananza; il viandante: emblema variabile, culmina nella Ode all’ignoto viandante; primavera-insufficiente rifiorire dell’anima; fontana-estenuazione dilazionata – ma nella sua favola estrema, La morte di Tantalo, la fontana è generatrice di «acqua d’oro». Quanto a La fontana malata di Palazzeschi (Poemi, 1909): il dissolvimento della parola in sillabe, l’uso quasi divertito di forme onomatopeiche e l’accento parodico che sembra sminuire il senso e le ragioni di una condizione lamentevole paiono sconfessare il canone crepuscolare, nel quale tuttavia Palazzeschi rientra con la personificazione della fontana che «tossisce», rantolante, ansimante, con rantoli e respiri affannosi simulati dalla ripetizione, dall’amplificazione, dal raddoppiamento. Il flusso vitale dell’acqua è intralciato nello scorrere, l’acqua scende quasi singhiozzando, un «rumore intermittente» scandisce i suoi moti rapidi e improvvisi. La fontana agonizzante è all’interno dell’orbita poetica crepuscolare soprattutto perché rende l’effetto mimetico della malattia della poesia (si veda «Palazzeschi e la malattia delle fonti», in G. Bàrberi Squarotti, I miti e il sacro. Poesia del Novecento, Pellegrini, Cosenza 2003, in particolare le pp. 381-385). Tornando ai costituenti crepuscolari: il motivo, crepuscolarissimo, esemplare in Gozzano, del non ritorno al passato, all’età trascorsa e non rinnovabile, al regno dell’ancora possibile, o del ritorno nei luoghi che sono stati spettatori di una parvenza di gioia, o di inconsapevolezza. I richiami paesaggistici tracciati da Chiaves in Pellegrinaggio invernale ne danno la misura: «Cadea la sera. In basso, fra le brume, / per le tremule fiamme dei fanali, / si costellava la città di opali. / Qualche bagliore si frangea, nel fiume». E paiono smorzare «le angosce de la melanconia» dovute al ritorno. Quanto alla ricognizione dei luoghi, i crepuscolari insistono sulla loro irriconoscibilità frustrante, o sulle sfasature dei ricordi, per cui vengono spregiati i cambiamenti avvenuti durante la nostra assenza, avvenuti, diceva Soldati, «come se noi fossimo morti», e che trattengono qualcosa di funebre, mentre la novità, «esattamente il contrario, è la manifestazione stessa della vita». Ma ciò che i crepuscolari non vogliono riconoscere è il nostro cambiamento nel tempo. Faceva dire Pessoa a uno dei suoi eteronimi: «Vivere è essere un altro. Neppure sentire è possibile se si sente oggi come si è sentito ieri: sentire oggi come si è sentito ieri non è sentire, è ricordare oggi quello che si è sentito ieri, è essere oggi il cadavere vivo di ciò che ieri è stata la vita perduta […]. Ciò che sarà domani sarà un’altra cosa, e ciò che vedrò sarà viso da occhi ricomposti, pieni di una nuova visione». F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares, tr. it. e cura di M.J. De Lancastre e A. Tabucchi, Feltrinelli, Milano 2001, p. 72. E per tornare al tema del ritorno, Jankélévitch focalizzerà la questione: cioè l’impossibilità di percorrere il tempo «a rovescio», essendo la temporalità, diversamente dalla dimensione spaziale che può cambiare o rimanere immutata, qualcosa di irreversibile. Si può percorrere a rovescio una strada, ma non il tempo. Immesso nel divenire, l’umano è nella prospettiva del «vivere a diritto» in uno scorrimento senza fine, e quindi anche nel caso del ritorno egli procede comunque «a diritto», se vivere è sempre essere altri rispetto al prima. Il «mal del ritorno» («nostalgia», desiderio di tornare: dal gr. nostos, ritorno, e algos, dolore) è la nostalgia pungente dell’essere irreversibilmente stato (il discorso coinvolge l’irreversibilità delle azioni e sconfina nell’ambito morale, totalmente estraneo ai lirici crepuscolari, che pure sperimentano e mettono in versi l’irreversibilità del tempo). V. Jankélévitch, La cattiva coscienza (1936), tr. it. e cura di D. Discipio, Dedalo, Bari 2000, pp. 16-17. Si veda anche Id., L’irréversible et la nostalgie, Flammarion, Paris 1983. 9 Per questo, così decontestualizzate, potrebbero sembrare impegnative le parole di Geno Pampaloni (per altro studioso di Moretti, e suo conoscente) riportate in copertina nell’edizione Oscar Mondadori di Poesie scritte col lapis, del 1970 (è l’edizione qui prevalentemente seguita, che comprende anche Poesie di tutti i giorni e Il giardino dei frutti): «Poesie fortemente interrogative, che pongono subito le domande finali della destinazione dell’uomo». 10 M. Moretti, Fuor di Firenze: alloro per Sergio, «Il Corriere della Sera», 19.12.1942. Poi in Il libro dei sorprendenti vent’anni, Mondadori, Milano 1955, pp. 247-249. 11 «Les paons nonchalants, les paons blancs ont fui, / Les paons blancs ont fui l’ennui du réveil; / Je ne vois les paons blancs, les paons d’aujourd’hui, / Les paons en allés pendant mon sommeil, / Les paons nonchalants, les paons d’aujourd’hui, / Atteindre indolents l’étang sans soleil, / J’entends les paons blancs, les paons de l’ennui, / Attendre indolents les temps sans soleil». Ennui, in Serres Chaudes et Quinze Chansons (1889), tr. it. Serre calde e quindici canzoni (a cura di M. De Angelis), Mondadori, Milano 1989, p. 56. E sarebbe interessante indagare quanto un testo come quello appena citato, enigmatico, ipnotico nelle sue insistenti cadenze, possa avere influito tanto sul surrealismo francese quanto sulla iteratività sospesa, indefinita, allucinata, di certo Palazzeschi e certo Campana. E prima ancora sulla fissazione corazziniana per il bianco, equivalente cromatico della verginità, della purezza ma anche, mallarmeanamente, del dominio del silenzio, del vuoto. 12 G. Agamben, Idea della prosa, Quodlibet, Macerata 2002, pp. 19-21. 13 E. Sanguineti, «Da D’annunzio a Gozzano», in Tra liberty e crepuscolarismo, cit., p. 73. 14 L. Baldacci, I crepuscolari, ERI, Roma 1967, p. 93. 15 E. Sanguineti, Ideologia e linguaggio, Feltrinelli, Milano 1978, p. 18. 16 P.V. Mengaldo, «Marino Moretti», in Poeti italiani del Novecento, Mondadori, Milano 1990, p. 165. 17 «Per quel passato, pel destino bieco / tu mi sei caro, finto morituro / che piangi e imprechi e gemi nello strazio. // Io non gemo, fratello, e non impreco: / scendo ridendo verso il fiume oscuro / che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio», Stecchetti, Poesie sparse. 18 E. Sanguineti, Poesia italiana del Novecento, Einaudi, Torino 1969, p. 401. 19 E già Croce indicava la genericità delle istanze dell’estetismo nella contestualità di sfarzo e straordinarietà compiaciuta, nell’assenza di obiettivi all’infuori di una smaniosa ed esaltata insofferenza risolta, con ridondanza, nell’estremizzazione del culto della bellezza, in Note sulla letteratura italiana nella seconda metà del secolo XIX, «La Critica», vol. XII, 1914, pp. 1-14. 20 È dell’edizione del 1919 delle Poesie il titolo La domenica della signora Lalla; mentre nell’edizione definitiva delle Poesie (Tutte le poesie, Mondadori 1966, che già include il Diario senza le date) il testo è ripubblicato in versione ridotta, con il titolo abbreviato, La signora Lalla. Rispetto alle edizioni originali degli anni crepuscolari, nella redazione mondadoriana del 1966 si percepisce una riduzione all’essenziale (condotta anche sull’interpunzione) del testo attraverso l’eliminazione di movenze più tipicamente crepuscolari, sempre restando nella linea di una lingua poetica anticlassica. A questa selezione, nella prima edizione Oscar Mondadori sopravvive il nome «cedrina», che sembra tolto da Gozzano, dalla cucina di Felicita. 21 V. Jankélévitch, L’avventura, la noia, la serietà (1963), tr. it. di C.A. Bonadies, Marietti, Genova 1991, p. 110. 22 Sulla fenomenologia del bianco in Corazzini si veda A. Zingone, «Corazzini in bianco», in L’occhio in ascolto, Bonacci, Roma 1996, pp. 31-52. 23 A Cesena, verso esordiale: «Piove. È mercoledì. Sono a Cesena». Il giorno feriale sottrae a questi versi ogni pretesa di solennità per un carattere di quasi banale constatazione. In tal senso sembrerebbe «un verso da inviarsi per cartolina agli amici, se uno si trovi di passaggio a Cesena in una giornata piovosa», in A. Gianni, M. Balestrini, A. Pasquali, Antologia della letteratura italiana, III, p. 593. 24 Il vagabondare dei crepuscolari romani si origina da quella religiosità decadente e rodenbachiana (del Rodenbach conventuale) che li spingeva ad estasiarsi in funzioni suggestive in oscure chiese di periferia, fissando gli oggetti del culto che emanavano il fascino ambiguo del loro persistere vacuo e sontuoso. Ricorda Tarchiani: «Assistemmo spesso estatici allo svolgersi di funzioni suggestive in piccole chiese remote, ascoltammo canti di recluse che parevano angelici e seguimmo con l’anima più che con gli occhi, il bilanciare di lampade sospese nel buio, a fuoco eterno». (A. Tarchiani, Sergio a Roma, «La Fiera letteraria», IX. n. 46, 14 novembre 1954). Queste escursioni notturne non erano accompagnate da alcuna devozione. Attraeva questi poeti l’avvertimento di quel vuoto effuso da certi riti e liturgie, oggetto di una mistica ed estetizzante seduzione, il desiderio di sperimentare il decadente («uno dei capolavori dell’artificio» per ovviare «alla volgare realtà dei fatti», avrebbe detto Huysmans) senso di morte implicato nella splendida vacuità di forme solo esteriori, di calchi vuoti vanamente e funereamente ornamentali (al contrario, il legno disadorno di Jammes, la croce, era emblema di una floridezza spirituale, auspicata quanto al domani, ad altri tempi). Corazzini: «Piano il lume si spegne, e il triste raggio / non ingiallisce il muro… questa sera / la pallida madonna del villaggio / è sotto l’ampia volta nera» […] / E la fiamma morente guizza, brilla / e lampeggia e rischiara il sacro muro / ahi, troppo presto obliato altare!» (La Madonna). Un accenno in Moretti: «Rammenti l’ore che buttammo via / in una chiesa di sobborgo a sera, / presso una Santa Monica di cera / che ci fissava? / Che malinconia!» (La malinconia). E prima di loro Laforgue: «Vêtus d’ineffable et d’extase, / Diaphanes et fulgurants, / Les Martyrs que l’Amour embrase, / Au sein de gloires de topaze, / Frêle, m’ont pris dans leurs torrents // Gloire! Douleur! Douleur! Encore!» (Devant la grande rosace en vitrail, à Notre-Dame de Paris, in Le Sanglot de la Terre, postumo). 25 Per una analisi del flâneur fino al mondo contemporaneo si veda G. Nuvolati, «Principali caratteri del flâneur», in L’interpretazione dei luoghi: flânerie come esperienza di vita, Firenze University Press, 2013, pp. 1-64. Tratti del profilo ossimorico del flâneur, puntualmente analizzati nel testo: «puer…senex»; «solo…nella folla»; «libero…nel labirinto umano»; «ozioso…affaccendato»; «spettatore…creativo»; «dotato di immaginazione…realistica»; «oggetto…soggetto della analisi sociologica»; «ribelle…omologato dal consumo»; «propenso a una immersione…ma non completa nella realtà»; «soggetto privato…in continuo amalgama con la realtà pubblica»; «esteticamente…impegnato». 26 S. Ramat, Il «lapis» di Marino Moretti (1975), in Protonovecento, il Saggiatore, Firenze 1978, p. 214. 27 Resta difficile credere che l’oggetto crepuscolare, soprattutto gozzaniano, non abbia niente a che vedere con il sentimento e con il valore di eco che assumerà in Montale. Se in Gozzano spesso l’ironia corrode e schernisce l’oggetto è per indebolirne il traslato disperante, non per disegnarne una condizione in discontinuità con l’io. Differente è la prospettiva situazionale, e il tragico in Montale, rispetto ai crepuscolari, inerisce a un destino generale, collettivo e storico più che personale. E sulla linea di Bodei, rispetto a «oggetto» (dal latino medievale «objectum», problema come ostacolo, mantenuto – dice Bodei – nell’italiano «obiettare», ciò che si oppone, che si mette di fronte al soggetto), «cosa» ha un significato più vasto e ricco, includendo essa anche ciò che non è materiale, come gli ideali o gli affetti lì depositati; e rispetto all’oggetto che, anche etimologicamente (da «obicere», porre innanzi, contrapporre) si oppone al soggetto, le cose (per contrazione dal latino «causa», qualcosa che ci sta a cuore, impegnarsi «per la causa»…) implicano un investimento emotivo nel tempo. Oltre il moltissimo altro, Bodei scriveva (tra Borges e Jankélévitch): «La trasformazione degli oggetti in cose (che comprende il loro passaggio a simboli) […] presuppone anche una sviluppata abilità nel risvegliare memorie, nel ricreare ambienti, nel farsi raccontare storie e nel praticare sia la nostalgia ‘chiusa’, che si ripiega in se stessa nel rimpianto di ciò che si è perduto, sia la ‘nostalgia aperta’, capace di elaborare positivamente il lutto della perdita, rimarginando le ferite implacabilmente inflitte a ciascuno dall’esistenza, permettendogli di guardare avanti. […]. Nella nostalgia aperta le cose non sono più sottoposte al desiderio inappagabile di ritorno a un irrecuperabile passato, non aderiscono al sogno di modificare l’irreversibilità del tempo, di rovesciare o perpetuare la sequenza di quegli eventi che si presentano una sola volta per tutta l’eternità, ma sono diventate i veicoli di un viaggio di scoperta di un passato carico anche di possibile futuro». R. Bodei, La vita delle cose, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 55. 28 Così Solmi a proposito del Corazzini di Toblack, in S. Solmi, Sergio Corazzini e le origini della poesia contemporanea (prefazione alla ristampa delle Liriche di Corazzini, Ricciardi, Milano 1959), poi in Scrittori negli anni, Garzanti, Milano 1976, pp. 259-273. 29 Quanto a Gozzano, mi permetto di rinviare al mio I Am Waiting: «yacht: cocottes», alterità e discronia nei versi di Guido Gozzano, in E. Brizio-M. Veronesi, Gozzano dopo cent’anni. Antologia delle opere per l’anniversario dei Colloqui, e soprattutto alla notevole prefazione di Matteo Veronesi («Con altra voce». Gozzano fra umanesimo, simbolismo e mistica), Lulu.com, Raleigh 2011. E quanto a Corazzini rimando ai testi che ho disseminato in riviste cartacee e digitali. Soprattutto, segnalo Corazzini e il male della poesia («Atelier», IX, n. 34, giugno 2004) di Veronesi. Che così si conclude: «Ora, mentre scrivo, la neve è scesa ad avvolgere, con il suo silenzio gelido e puro, la quiete della domenica mattina: quiete calata sulla quiete, silenzio sul silenzio. Sento intorno a me (mi induce a sentirla la ‘fede letteraria’, che, come dice Gozzano, ‘fa la vita simile alla morte’, e nel contempo le dà, paradossalmente, un senso, una ragione, un’anima) proprio la ‘tetra dolcezza della neve’ cantata da Corazzini, l’anima ‘bianchissima e leggera’ di un invernale ‘cielo morto’ (‘le Ciel est mort’, cantava il giovane Mallarmé, che pur si ostinava, ‘hanté’, ad inseguire ‘l’Azur’), dispersa ‘per il nudo orto’, per lo spoglio giardino (‘Non ho rosai, non ne ho avuto mai / nel mio triste orto’) di un’esistenza esile e segnata. Mi piace credere che la ‘tetra dolcezza’ della malattia crepuscolare, sublimata, e come scorporata, nella levità e nel candore di una parola poetica in apparenza spoglia e povera, ma pervasa nel profondo da una calda e segreta forza vitale, sappia ancora abbracciare il lettore d’oggi». E sempre di Veronesi si veda l’introduzione (Il testamento mistico di un poeta simbolista) a F. Jammes, Il crocifisso del poeta, Medusa, Milano 2012, pp. 6-19 (traduzione dello stesso Veronesi, e con una nota di Giancarlo Pontiggia). 30 Per una esemplare interpretazione di Ode al lapis e della poesia di Moretti rimando ancora a S. Ramat, Il «lapis» di Marino Moretti, cit. pp. 207-225. 31 M. Moretti, Scrivere non è necessario. Umori e segreti di uno scrittore qualunque, Mondadori, Milano 1938. 32 Nella sezione conclusiva di Poesie scritte col lapis, Alcune poesie scritte con la penna (qualcuna forse fu poi disconosciuta dall’autore), Moretti, Borgese osservava, «ha qualche spunto di poesia enfatica e celebratoria», ma si tratta di testi non all’altezza del lirismo esangue del lapis (cfr. G.A. Borgese, La vita e il libro, cit., pp. 121-122), a cui sono improntati, ad esempio – e non soltanto secondo Borgese – questi versi di La sera dopo: «in questa nostra ombra romita / sento che tutto è inutilmente come / se fosse solo una parola, o un nome / breve, di quattro lettere, la v-i-t-a». 33 C’è un’evoluzione decisiva dall’argomento della meccanicità alienante del tempo oggettivato – alla quale si vorrebbe opporre il vivente fluire della durata reale –, dal deterministico inanellarsi di giorni uguali, presente in Jammes e in Gozzano («un giorno è nato, un giorno morirà»), a «la vita è sempre uguale» di Moretti a quello montaliano – di Arsenio, degno rappresentante degli hollow men – della vita come «anello di una catena», l’ossimorico, insensato, «immoto andare», fin «troppo noto» perché inveterato: in fondo siamo ancora nei contorni della «linea crepuscolare» di cui Sanguineti parlava. Una risposta possibile in Spagnoletti (cit., pp. 289-290). «La vita è configurata come l’anello di una catena, lo scorrere del tempo dentro cui stiamo immobili aspettando la morte: un’immobilità che dà il delirio. E l’uomo ridotto ormai a vegetale in un mondo liquefatto tra lo sbattere dei vimini e delle stuoie grondanti, non conserva che una nozione infinitesima della sua ‘umanità’: giunco enorme che si trascina dietro le radici mai divelte, e tuttavia ancora vivo nel cuore della distruzione: non vivo per morire, ma per continuare a ‘vedere’ la morte; giacché, come apprendiamo nella chiusa della poesia, la richiesta istintiva di soccorso appena echeggiata cade in un vuoto profondo di fiochi lamenti; anche l’appello, dunque era inutile. A chi penetri lo spirito di questo serrato ‘trionfo della morte’, non potrà sfuggire il senso angoscioso di un nuovo nichilismo, assai meno ‘eroico’ nei tratti esteriori di quello ottocentesco cui è stato tante volte riportato. La condizione dell’uomo dinanzi alla morte ha cambiato aspetto. Le tesi di Montale ci sono taciute, ma vediamo troppo bene che al nichilismo romantico d’impronta dostoevskiana (Arsenio come Kirillov?) se n’è sostituito un altro, non meno implacabile, ma privo di gesti. L’uomo, condotto da misteriosi processi, è stato assorbito dall’incessante moto distruttivo della natura, senza che egli abbia potuto realmente ribellarsi. E l’antagonismo […] cessa di colpo, perché chi ‘vede’ tutto questo non è che un ‘doppio’, il poeta, quello per il quale il ‘male di vivere’ assume la concretezza di una catastrofe senza commento. […]. È una visione della vita che non ha precedenti nella lirica italiana». E se, in riferimento a Montale, si è indicata una discendenza pascoliana o dai «poeti della rassegnazione», resta il fatto che, Spagnoletti conclude, «mai nessuno aveva attinto con tale precisa aderenza il senso di una storia umana senza esiti e senza rifugi, sottraendo alla natura e alla società l’illusione, poeticamente durata troppo a lungo, di condividerne l’affanno».