FOTOTESSERA DI FABIO BARBON
Fototessera di Fabio Barbon (Biblioteca dei Leoni) è il “diario di bordo”, come lo stesso autore scrive nella prefazione, di quell’avventurosa traversata che è la vita, attraverso i marosi e gli ineluttabili naufragi. Sono i fotogrammi di impressioni, emozioni, sensazioni, meticolosamente registrati sui quaderni della propria esperienza esistenziale, i quali riaffiorano ora a più di trent’anni di distanza. Inquieto navigante nel Mare solitario, Fabio Barbon ci racconta il suo fascinoso viaggio, novello Ulisse alla conquista di orizzonti perduti: “Navigo nel mare della solitudine / dove per rotte esterne / il sestante della speranza / si perde nella carta nautica del tempo. / Rifuggo i porti della consolazione / e rifiuto l’ancora dell’immobilità. / Veleggio perennemente / alla ricerca di isole di libertà, / ma i troppi bassifondi in agguato / allontanano la nave dei miei sogni; con lei alla deriva / va il mio cuore ammutinato, / un s.o.s. caduto nel silenzio / di un tracciato di radar ormai muto.” Lungo la rotta affannosa, che spesso fa perdere la bussola, nelle tenebre oscure s’invoca una stella che indichi la direzione, vale a dire il Padre celeste: “Dammi l’acqua e il fango / delle mani pietose, / l’affanno della sofferenza / sulla china del giorno, / sollevami dal letto del fiume / dove dormono i pensieri / mentre scavo il cielo / con il rantolo dell’animale ferito. /Allunga il tuo sguardo / su questo riflesso d’uomo, / in questa stagione luciferina / che matura more spinose / e mi ritrae nel silenzio / a lucidare frenetiche parole. / Non lasciarmi inerte / su questa frontiera d’occhi / dove contrabbando candele / lungo respiri d’ombre. / Illuminami dei segreti del tempo / che mi vestono d’inquietudine /quando nudo ed esausto / invoco il tuo nome.” (A Dio). Una vera e propria fototessera è l’immagine riflessa nello specchio, dove lo sguardo, i segni del tempo narrano di quella “vicissitudine sospesa”, per dirla con Luzi, che incanta e sconvolge insieme nel suo “mysterium tremendum”: “Nel mio volto baciato dallo specchio, / non occhi stranieri riflessi, / ma occhi ridenti, ammiccanti / che scavano dentro questo mio viso, / indiviso, sospeso e a volte lontano. / E l’immagine del tempo riflette / questo fotogramma soffermato di me, / di una migrante espressione d’attesa, / di una sognante stagione alla finestra, / già spogliata nelle sue labbra antiche, / muta, rosata, ma tornita di desideri / e avida per baci mancati e solo immaginati / che la compagna assenza ancora nutre. / È davvero mio lo specchio, fedele e infedele, / di brividi, paure, abbandoni, / di questa maschera teatrante da una vita, / ricolma d’affetti rubati e cercati, / segnata da occhiaie insonni, / d’un io corroso d’anni / e corrosivo di parole. / Una immagine, la mia, a lungo consumata, / in occhi attesi, giocati, socchiusi, / una immagine fermata sul greto di quel fiume di sguardi / che ancora fluisce su questo schermo / mia proiezione d’intimità nascosta / di un uomo da tempo scivolato / nella camera oscura del cielo, / spettatore cerebrale, sentimentale, / appeso ad una goccia d’ansia, / evaporata dallo specchio al primo soffio di vento.” (Identità allo specchio). I giorni si susseguono così come si voltano pagine sgualcite di un libro, senza troppi scossoni, né entusiasmi, alla stregua dello sbrigare una noiosa pratica burocratica: “Giorni evasi come cambiali, / l’attesa sofferenza è la loro scadenza. / Si susseguono i calendari in numeri sovrapposti, / in pratiche d’annata l’ufficio è attivo, / si regolarizza la morte ma sono vivo. / All’angolo la polvere sedimenta memorie, / un soffio di vita alza fuliggine antica, / mostra il volto patinato in copertina, / ricade il pulviscolo di dolore e tutto è come prima. / È immobile il tempo nella lancetta spezzata, / gli occhi navigano sul quadrante, / il ticchettio si fa sordo ammonimento, / il mio dossier è pratica inevasa.” (Ufficio del tempo). Densa di passione e di voluttà sensuale è la poesia Mia donna: “Identità di donna, / sofferto connubio / di terra e cielo / superbo ardire / di virtù e peccato / dove conoscenza carnale e sogno / tormentano le mie notti. / Perdizione della realtà, / sgomento del tempo / per labbra solo sfiorate / dove la rugiada d’amore / disseta ogni bramosia. / E mani ingorde percorrono / quel che gli occhi vedono; / e quale incanto / il tuo grido nel silenzio / l’urlato piacere dei sensi / nel tuo corpo sconfinato / dove luce e acqua / nutrono questo cuore pulsante, / di rutilante sangue, / di insalivata passione, / del brivido tagliente, / sottile come seta, / che va a tatuare la pelle / e a cesellare la carne / nella suprema intimità / di vita e di morte / che ci raggomitola e unisce / in un’unica essenza astrale.” Improntata ad uno struggente pathos è questa dedica Al figlio perduto: “Sotto quella pietra / v’è una roccia di dolore / che comprime questo mio cuore / in un respiro soffermato / da un tempo di non ritorno / dove tu perduto figlio / sei il ricordo presente, / ancorato alle anse della memoria. / Qui la notte si fa granito, / respiro polvere di vetro, / la bocca dimentica parole / il silenzio schiocca in pieno sole. / Dove sei figlio, non lo so, / ma sei nudo e indifeso / sotto quel tumulo di terra, / sotto questa coltre di pianto / di questo mare salato che sollevo / al cielo di disperazione / per quell’ultimo respiro soffocato / che la lenta morte avvolge / in spirali di perché, / lungo dubbi procreati dalla ragione / e partoriti dalla luce della speranza / per le ingannevoli illusioni della vita. / Figlio! Per sempre i tuoi occhi dimorano / nella cecità dei sogni / e divorano le albe imbalsamate / di questa mia vita sospesa, / fra pietà e crudeltà, / dove l’attesa d’infinito / è un tempo finito con te.” La vita si celebra come una liturgia offerta sull’altare del giorno, nella sacralità di ogni istante donato: “Non so che / della liturgia del tempo, / del chierichetto davanti / e l’altro a me dietro, / quando nell’altare del presente / ne celebro l’attimo, / uno non risponde / e l’altro è assente. / È la messa del momento / nell’omelia delle ragioni / che consacra l’evento / delle mie stagioni, / e nei paramenti d’attesa / l’officiante è l’assoluto / nel calice la sorpresa / è il mio tempo scaduto. / E quest’ostia divorata / dall’anelito del cuore / è comunione ricercata / legata al mio dolore, / vita vissuta o sembrata / al termine dell’amore, / una risposta trafugata / che risponde al mio nome. / Non so che dire.” Fabio Barbon, in questo avventuroso viaggio in versi, ritrae con efficacia icastica e intensa sincerità stati d’animo e scorci di realtà proiettati sullo schermo della trasfigurazione poetica, con un timbro di inconfondibile vigore che definisce il suo stile potente e raffinato.