L’ENEA DI CAPRONI E L’ULISSE DI BARONI
Giorgio Caproni si è a lungo confrontato con la figura di Enea, non solo in poesia (basti pensare al poemetto Il passaggio di Enea del 1954-55 e all’omonima raccolta del ’56) ma anche in prosa. Scrive Filomena Giannotti nell’ampio saggio introduttivo al volume Il mio Enea, pubblicato da Garzanti nel 2020 e da lei egregiamente curato: «Ben sette degli otto articoli in cui l’autore è ritornato sull’argomento risalgono ai primi quindici anni dopo la guerra, tra il 1948 e il 1961 […] A questi sette vanno aggiunti un lungo articolo del 1979 su Genova […] e un pulviscolo di riferimenti minori e occasionali, lungo interviste e interventi di varia natura […], che mostrano quanto lunga, ininterrotta e capillare sia stata la meditazione di Caproni su Enea». Dopo la sconfitta, la distruzione di Troia, le fiamme e le rovine fumanti, Enea vive una condizione di solitudine e di consapevolezza del compito gravoso e delle responsabilità che l’attendono. Allo stesso modo Caproni è costretto quotidianamente a confrontarsi, come d’altronde gli uomini della sua generazione, con un dopoguerra che pretende sforzi, fatica, impegno, sacrifici e che impone agli adulti di farsi carico del passato, di ricostruire il presente e di progettare il futuro. «Con sulle spalle questo vecchio Anchise, per la mano il figlio» lo raffigura Caproni; lo scrittore Maurizio Bettini nella Postfazione parla di Enea «come simbolo della tragica congiuntura in cui si è venuta a trovare l’umanità moderna. Alle spalle la guerra […] di fronte un futuro gracile e incerto». L’incontro fra Caproni ed Enea avviene nel 1948 a Genova, una delle città italiane più bombardate, in piazza Bandiera «ancora ingombra di calcinacci», dove una statua baroccheggiante che, continua Caproni, non ha «nulla di eccezionale dal punto di vista artistico» raffigura l’eroe in fuga da Troia. Si tratta, fa notare lo studioso e poeta Alessandro Fo nella Prefazione, di uno di quegli «attimi in cui, in un lampo, diverse contingenze convergono a condensare un’esperienza profonda, toccante e decisiva, un’epifania che illumina, con forte impatto emotivo, un qualche asse portante dell’esistenza». Definendo progressivamente i contorni e i dettagli dell’avvenimento e facendo riemergere dalla memoria particolari trascurati Giorgio Caproni, come già detto, torna ripetutamente su questo fatale incontro. Nel 1949, sulla rivista “La Fiera letteraria” ribadisce: «Fu l’estate scorsa ch’io, trovandomi a Genova per una visita m’incontrai la prima volta (e si capisce mentre meno me l’aspettavo) con Enea figlio di Anchise. Me lo vidi di soprassalto davanti in piazza Bandiera, e sebbene fosse un Enea di marmo, cioè quel monumentino a Enea che tutti i genovesi sanno, la mia emozione non fu minore di quanta ne avrei provata incontrando Enea in carne e ossa». È l’uomo Enea più che l’eroe («meno eroe che uomo») a suscitare nel poeta meraviglia, curiosità, commozione, a stimolare un avvicinamento che sconfina quasi nell’immedesimazione. In alcune occasioni Caproni confronta Enea con Ulisse, lo sente più vicino alle esperienze della sua generazione; il destino del troiano, che ha perso moglie patria e guerra, gli sembra più drammatico della sorte dell’itacese. Il libro curato da Filomena Giannotti risulta, sottolinea Alessandro Fo, «necessario per chi (come me, come noi), crede fermamente che l’antichità abbia ancora un importante ruolo da giocare nell’oggi».
Più volte mi sono confrontato con la figura di Odisseo/Ulisse, sono uno dei tanti. In un breve saggio intitolato La menzogna di Ulisse, pubblicato nel 2021 dalla rivista “Menabò” e nel 2022 nel volume Come lucciole nel buio. Dieci riflessioni sulla vita e sulla letteratura (puntoacapo editrice), dico che «Gli scrittori moderni e contemporanei sono affascinati da Ulisse, come i naviganti dalle Sirene; la letteratura non può fare a meno di confrontarsi con la sua figura, attraverso di lui sembra prendere consapevolezza di se stessa. Un confronto difficile ma che avvince e mette alla prova. Naturalmente non tutti affrontano l’eroe greco allo stesso modo, c’è chi si limita a stuzzicarlo, a girargli attorno, e chi lo sfida apertamente precipitandosi verso di lui; alcuni lo sfiorano soltanto e altri gli si lanciano contro come dei treni. La lista degli scrittori è lunga e destinata ad infittirsi». La principale mia poesia che parla dell’astuto eroe greco è frutto di una lunga elaborazione. La versione inziale, intitolata Ulisse, appartiene alla sezione Eroi della raccolta Contraddizioni d’amore (Mobydick, 1998). La seconda e definitiva versione, intitolata I ritorni di Ulisse, apre invece la raccolta Le anime di Marco Polo (Book, 2015): sono trascorsi quasi vent’anni. Le inquiete “anime” a cui il titolo accenna sono quelle dei viaggiatori (da Marco Polo a Cristoforo Colombo, da Matteo Ricci ad Amerigo Vespucci…): chi meglio dell’Ulisse omerico e dantesco può fare da riferimento e da guida? Ecco la poesia nella sua forma definitiva, quella del 2015: I ritorni di Ulisse «Dicono in coro come / pretendi Ulisse di sfuggire a noi / che accesa la tua inquietudine incendiamo / anche il tuo desiderio, smetti / di fingere re dei mentitori / e abbraccia noi per sempre. Poi quelle / voci sibilanti si propagano / fino a raggiungere la stanza che conserva / l’amore coniugale, persecutorie proprio / con me che non lo merito. / Vent’anni ho attraversato nel pericolo, dieci / a combattere lontano per la patria il resto / cercando di raggiungerla. Che altro / di più avrei potuto fare. Purtroppo ora, / trascorso un anno dal mio improbabile ritorno / ricongiunto a Penelope la saggia mia regina, / vivo scontento, oppresso da questi suoni che insistenti / imbrogliano i miei pensieri. Io amo / Penelope e più di ogni altra / cosa adoro la mia terra loro / lo negano. Devo essere stanco davvero / esausto, se la passione commossa / che provo da lontano verso le cose amate / lascia spazio, avvicinandosi, al sospetto. / Non resta forse allora che scovare / la misteriosa origine di queste / ambigue voci e sottometterle, domani / riparto». La differenza fra la versione del 2015 rispetto a quella del 1998 consiste sostanzialmente nell’esclusione di queste due strofe iniziali: «Ulisse urlava / che di soppiatto si erano introdotti / nella dimora sua e di Penelope, e che qualcuno / nascosto furbescamente negli androni / scuri, o negli angoli sghembi, / chiamava lui osando. / “Atena”, invocava il re che abdicava / così alla fama acquistata e al suo provato / coraggio “tu che discreta / ci aiutasti a debellare gli eroi / troiani e a deportarne le donne: soccorrimi! / Io, astuto vincitore di perfide / magie, di ninfe incantevoli e di mostri; / io, audace / esploratore inoltre / di vastità oceaniche e di abissi / tremo / se per identica voce ascolto / la stessa litania”». In entrambe le versioni (l’iniziale più ampia e la conclusiva più stringata) il protagonista dialoga con la parte più irrequieta, tormentata e insoddisfatta di se stesso, quella che lo costringe a una incessante inquietudine e che lo spinge perennemente verso un altrove. Non c’è pace, l’irresistibile richiamo delle Sirene è dentro Ulisse. L’agognato ritorno rappresenta una pausa, non è per sempre. D’altronde Circe lo aveva ammonito: «Chi ignaro approda e ascolta / la voce delle Sirene, mai più la sposa e i piccoli figli, / tornato a casa, festosi l’attorniano / ma le Sirene col canto armonioso lo stregano». Nel mio breve saggio citato in precedenza scrivo: «Le Sirene, che Omero non descrive, non hanno niente da spartire con le fanciulle dalle gambe di pesce delle fiabe; nell’antichità venivano raffigurate come esseri in parte donne e in parte uccelli. Con i loro artigli se ne stavano aggrappate agli scogli aspettando che qualche nave attraversasse il loro tratto di mare e costeggiasse la loro isola. Allora iniziavano a cantare e suonare una musica che stregava. Inevitabilmente le navi si precipitavano verso quei suoni, finché si sfracellavano contro gli scogli. I marinai, che con tanta passione le avevano desiderate, finivano sbranati dalle bestie alate». Nell’antico manuale di mitografia intitolato Biblioteca, Apollodoro le descrive così: «le Sirene […] si chiamavano Pisinoe, Aglaope e Telsiepia. Di questa l’una suonava la cetra, l’altra cantava e l’altra suonava il flauto: e con questi mezzi persuadevano i naviganti a fermarsi. Dalle cosce in giù esse avevano aspetto di uccelli» (Adelphi Edizioni, 1995, edizione italiana a cura di Giulio Guidorizzi). Nel libro V delle Metamorfosi Ovidio le ritrae con «piumaggio e zampe d’uccello» e «volti di fanciulle». Ho letto, non ricordo dove, che la trasformazione delle Sirene da donna-uccello a donna-pesce fu forse causata da un errore di trascrizione: da pennis (penne) a pinnis (pinne). Ipotesi suggestiva ma non saprei fino a che punto veritiera. Nuove parole creano nuovi racconti, trasformano la percezione della realtà, invitano a guardare le cose da un punto di vista inedito, inventano immagini originali o ne riscoprono di trascurate. Gli sbagli, le sviste, le imprecisioni, gli equivoci e principalmente il caso scompaginano in certe occasioni la realtà e sono in grado di favorire e avviare inaspettati cambiamenti. Alla forza metamorfica del caso accenna questa poesia compresa nella mia raccolta I nomi delle cose (puntoacapo, 2020). Le sirene del copista assonnato «Penne con pinne / appannamenti visivi / sbagli di trascrizione / ti cascano le palpebre, in sogno / confondi aquile e delfini / trasformi le arpie in pesci». Platone, ne La Repubblica, immagina che l’anima appartenuta a Odisseo debba decidere in quale corpo reincarnarsi: «ormai guarita dall’ambizione grazie al ricordo dei travagli passati» sceglierà l’aspetto dimesso di un uomo qualunque. La condizione dell’eroe richiede notevoli energie tanto che ci si può stancare di esserlo e desiderare finalmente un’esistenza più tranquilla, riposante e appartata. I tre seguenti versi affrontano la questione della spossatezza di Ulisse ponendo un interrogativo e un dubbio. La rinascita di Odisseo «Dopo le avventure eroiche / della vita precedente / sceglie il corpo di un uomo comune?» Alberto Savinio intitola un dipinto del 1933 Il ritorno di Ulisse. La persona raffigurata non è però il mitico eroe greco ma il cognato del pittore, Gino Galletti. Il corpo non proprio atletico, i colori slavati e per niente mediterranei, lo sguardo non troppo magnetico, un cappello in bilico sulla testa: un Ulisse antieroico ritratto mentre si prepara forse per una passeggiata. Il quadro di Savinio, fratello di Giorgio De Chirico, ha ispirato questi miei versi che, come i precedenti, fanno parte della raccolta I nomi delle cose: L’odissea di Savinio «Ulisse reincarnato / hai gli occhi chiari di mio cognato / indossi il cappello della festa / stai partendo per una passeggiata». I miei contatti con l’eroe itacese sono prevalentemente letterari, prendono vita e si animano nelle pagine dei libri, ma anch’io, come Giorgio Caproni (uno dei poeti italiani che più apprezzo) con Enea, ho avuto l’occasione di incontrare Ulisse ammirandolo scolpito. Nell’affascinante Museo Archeologico di Sperlonga, con i resti della Villa dell’imperatore Tiberio affacciata sul mare, mi sono soffermato a lungo davanti al Gruppo scultoreo di Polifemo, realizzato (la datazione è incerta) fra la fine del I secolo a.C. e l’inizio del secolo seguente. Raffigura l’astuto, coraggioso e in questo frangente spietato Ulisse che, aiutato da alcuni compagni, acceca con un palo appuntito il possente Ciclope mentre ubriaco dorme.