I RE MAGI DEL GIOVANE LEOPARDI
Recanati 1809. Tra gli scritti del giovane Leopardi spicca per semplicità, fervore devozionale e sforzo di documentazione storica, in endecasillabi sciolti, un poemetto intimista di grande valore autobiografico: “I Re Magi”. Dalle Lettere sappiamo che in casa del Conte Monaldo Leopardi, in occasione del Santo Natale, si svolgeva l’annuale rappresentazione che coinvolgeva tutti i figli, anche i più piccoli. Per il Natale del 1809 il primogenito, battezzato Giacomo Taldegardo Francesco Salesio Saverio Pietro, presenta al padre alcuni suoi scritti come il padre reclamava. Opere non paragonabili alla grande stagione leopardiana, ma molto interessanti anche per il genuino spirito cristiano che le anima e che ci mettono a nudo qual era il vissuto religioso di casa Leopardi. Ci parlano dell’ambiente, del sistema educativo e della formazione poetica e religiosa dell’adolescente. Proprio in quello stesso anno, il 9 aprile, Giacomo aveva ricevuto la Prima Comunione. “Egli in quegli anni, scriverà il fratello Carlo ad Antonio Ranieri, amava molto anche le pratiche religiose. Si divertiva solo molto impegnamente con l’altarino. Voleva sempre ascoltare molte messe, e chiamava felice quel giorno in cui aveva potuto udirne di più”. Per quel Natale, Leopardi scrisse, oltre al poemetto “I Re Magi” anche “Per il Santo Natale. Canzonetta”, quattro quartine doppie di settenari sciolti, e un breve brano di prosa: “I Pastori, che scambievolmente s’invitano per adorare il nato bambino”. Del poemetto è lo stesso Leopardi che nel fare, in seguito, un “Indice delle opere giovanili ” ci informa: ” I Re Magi. Poemetto letto, ed approvato dal fu marchese Tommaso Antici mio zio Materno ex Card. di S.R.C. il quale rimandommi il Poemetto con questi versi: “O dotto Figlio di più dotto Padre/Segui il cammin che a somigliar t’invita/Quegli al sapere alla pietà di Madre”. “I Re Magi” è diviso in tre canti. Il primo canto apre con la descrizione della capanna e di una prodigiosa primavera. Apparizione della stella, la meraviglia dei Magi e la decisione di andare ad adorare il divino Infante: “ De’ Regi Baldassar, Gaspar, Melchiorre/ scuotesi la sapienza, e sono anch’essi/del fulgid’astro indagatori ansiosi:/Celeste lume a rintracciar li porta/su le sacrate carte il ver nascosto, /già vi passan le notti, e i giorni interi, /e ormai son certi che di un Dio fatt’uomo/in terra sceso sia cotesto un segno”. S’incamminano preceduti dalla stella. Con l’inizio del canto secondo, i re Magi giungono a Gerusalemme: “Già di Gerusalemme l’ampia cittade/a lor si mostra torreggiante, e bella/lieti affrettano il passo, e par, che in seno/il bel desìo s’aumenti, e il santo amore”. La stella scompare. Chiamati, si presentano ad Erode: ”Erode l’empio, che sul soglio assiso/tetrarca altero, e odioso, aspro tiranno/la Giudaica nazion regge, e governa/stupisce anch’egli, ed i Regnanti ignoti/a se d’innanzi chiama, essi ubbidienti/volgono il passo a la magion superba”. Ripartono. La stella ricompare. Giungono alla Capanna: “Così dicendo a la rural cappanna/volgono il passo, e fra timore, e speme/v’entrano umili. Il venerato Nume/giace Bambin: l’Immacolata Madre/Benigna, e tutta amor gli accoglie, a terra/piegan’essi il ginocchio, e l’aureo scettro/posan sul suolo, e dal canuto capo/traggono riverenti il lor diadema.“Adorano il Bambino e offrono i ricchi doni: “Spingon le braccia, ma il pudore umile/dubbiosi li rattien, vincono alfine/ogni timore, e un amoroso bacio/stampan sui piedi del Bambin celeste e poscia/offrono quindi i ricchi doni, e poscia/tornan gl’inchini a rinovar devoti”. Ripartono. Canto terzo. Consiglio dei Demoni. Erode è furibondo. Un angelo avverte Giuseppe di fuggire e i Magi a non ripassare per Gerusalemme. che infatti tornano per un’altra via. Fuga della Sacra Famiglia: ”Giuseppe intanto il Redentor Bambino/seco recando, e insiem la casta, e santa/Immacolata Madre esce ubbidiente/da la cappanna umile/ e a pari ignote/ rivolge il passo; il cenno sovrumano/ così comanda e d’ubbidir fa d’uopo.”. Il canto, e con esso il poemetto, si chiude con la strage dei neonati: “Ma quai gemiti oimè, quai pianti, e strida/…. Barbaro Erode! I desolati pianti/non muovono il tuo cuor, fermo tu resti…”. Nessuna meraviglia per i motivi ispiratori di quest’opera; argomenti sacri ma ammantati di atmosfere quasi fiabesche in cui il giovanissimo Giacomo, come scrive Maria Corti, cui si deve la riscoperta e la pubblicazione, nel 1972, delle opere giovanili (1809-1810) del poeta: “S’immerge, con cerimoniosa effervescenza, talora con grazia ingenua e infantile, come se il ragazzo fosse di fronte a una bella e illustre favola, che lo attrae e invita a scrivere”. Seppure ad una lettura superficiale “I Re Magi” appaiono come un poemetto che non esce dai confini di una buona esercitazione poetica con qua e là sprazzi di versi emozionanti, considerare queste opere giovanili di Leopardi, come semplici curiosità sarebbe un grave errore. Si tralascerebbe un quadro d’insieme che permette, in un più ampio discorso storico-letterario, di conoscere i prodromi della futura grande poesia leopardiana. Segnali della predestinazione alla poesia e come tali con estrema discrezione indagati; evitare il condizionamento del continuo giudizio comparativo nei riguardi della grande sua poesia, operazione che sarebbe antistorica e impietosa. Infatti, scrive ancora Maria Corti: “Uno studio sistematico su fatti fonetici e morfologici dei testi 1809 /1910 rivelerà sia la presenza di consuetudini formali della scuola dei Gesuiti [ ] sia la persistenza di forme antiche, tramandate dalla lingua poetica.” E quanto importante fu, in quegli anni per il giovanissimo poeta, l’insegnamento del gesuita Don Giuseppe Torres, fu lo stesso poeta a sottolinearlo: “A lui debbo la mia educazione, i miei principi, e tutto il mio essere di cristiano e di galantuomo”. Radici di una cultura classico-arcadica che diverranno, in seguito, elementi essenziali per la sua futura trasformazione ideologico-letteraria. E quale segno lasceranno quegli anni di fervente ammaestramento religioso? Ne dà una risposta – negativa- lo stesso Leopardi a vent’anni quando nello Zibaldone scrive: ”Quanto anche la religion cristiana sia contraria alla natura, quando non influisce se non sul semplice e rigido raziocinio, e quando questo solo serva di norma, si può vedere per questo esempio. Io ho conosciuto intimamente una madre di famiglia (sua madre) saldissima ed esattissima nella credenza cristiana, e negli esercizi della religione. Questa non solamente non compiangeva quei genitori che perdevano i loro bambini, ma gl’invidiava intimamente e sinceramente, perché questi erano volati al paradiso senza pericoli [ ] .” Ma in contrapposizione a tale assunto emergono tanti altri momenti in cui verrà fuori un Leopardi diverso: certamente non tale da potersi definire “poeta cristiano”, ma non molto lontano dall’idea di Dio. Ne è ad esempio il canto “Aspasia” ove la bellezza femminile appare indice di una presenza divina: “ Raggio divino al mio pensiero apparve, / donna, la tua beltà”; la bellezza femminile – da motivo stilnovista- come ” messaggio” per guardare oltre il terreno alla ricerca della perfezione, dell’infinito o come in “Alla sua donna”: “Se dell’eterne idee / l’una sei tu cui di sensibil forma /sdegni l’eterno senno esser vestita”. Ma ancor di più, quanto scritto nello Zibaldone che alla religione ha dedicato ampie e articolate riflessioni: “La maggior felicità possibile dell’uomo in questa vita, ossia il maggior conforto possibile, e il più vero ed intero, all’infelicità naturale, è la religione”. Ma sempre in lui costante sarà il dubbio: nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”: “ove tende / questo vagar mio breve” o in “A se stesso”, dove in pieno scoramento, senza null’altro attendere e sperare, gli appare svanita per sempre ogni sete di verità: “Non val cosa nessuna / i moti tuoi”. Solo l’anno dopo, il 24 dicembre, Leopardi in una lettera indirizzata al padre si scuserà per non aver scritto nulla, nessun “libercolo”, per le festività natalizie, perché aveva poco tempo preso ad occuparsi di “opere più vaste”: “ ardii intraprendere opere più vaste, ma il breve spazio, che mi è dato di occupare nello studio, fece che laddove altra volta compiva i miei libercoli nella estensione di un mese, ora per condurli a termine ho d’uopo di anni. Quindi è che malgrado le mie speranze, e ad onta del mio desiderio, non mi fu possibile di terminare veruno di quelli, che mi ritrovo aver cominciati”. Stava iniziando la grande stagione dei Canti. Periodo questo che Leopardi definirà “il miglior tempo ch’io abbia passato in mia vita, e nel quale mi contenterei di durare finch’io vivo”.