IN RICORDO DI GIULIO DI FONZO

IN RICORDO DI GIULIO DI FONZO

Il libro di Giulio Di Fonzo Poesie 1992-2018 (con uno scritto di R. Mosena, Edizionicroce) si contraddistingue dalle troppe pubblicazioni odierne non solo per la qualità dei versi, ma anche per altri validi motivi: per la leggerezza del volume (poco più di 130 pagine) in confronto ai lunghi tempi della scrittura (1992-2008), visto che assistiamo sempre più a un eccesso di poesia, a volumi non ponderosi, ma solo poderosi; per il fatto di fondare la sua opera sul rispetto delle forme tradizionali e sull’adozione di un linguaggio di pregnante chiarezza (eredità dello studio di Sandro Penna di cui è uno dei maggiori studiosi) di fronte a una linea poetica oggi dominante che va verso la rarefazione semantica della parola, scelta per le sue valenze musicali e analogiche e verso la metrica libera. Ha ragione Roberto Mosena, quando nella sua nota introduttiva scrive che le liriche paiono «rimuginat[e] e infine portat[e] a maturità espressiva» (p. 136), in «una composta economia di versi» (Ivi): non vi si avverte alcun soperchio, ogni parola è soppesata e limata, e semplicemente sta. Esattamente dove deve stare. Essenzialità ed esattezza, niente che non serva, nessun bagaglio troppo pesante. Less is more: togliere è in questo libro un verbo coniugato con esultanza. In ogni opera, l’apertura e la chiusura sono essenziali, tanto più in questa, dove si narra la storia di un’anima, brancolante nel buio della notte e in cerca di luce, desiderata, invocata, mai però urlata. Non sarà quindi un caso che la prima lirica reciti: “Anche il gatto tra la ghiaia / al sole oggi splendeva. / Dolce creatura rinata / a primavera”,  in cui – oltre all’icasticità dei versi e alla notevole assonanza splendeva: primavera che risalta la squillante gioia primaverile – si può cogliere il messaggio dell’intero volume: dopo l’ombra la luce, dopo il naufragio l’allegria. Il tutto alluso metaforicamente da un gatto. A un romano come Di Fonzo, mi chiedo se scrivendo del gatto sia venuto in mente Trilussa, la cui opera ne è colma. In cui, tuttavia, esso rappresenta lo scetticismo esistenziale, l’apatica saggezza, rispetto all’impegno del cane. Nulla di tutto questo, qui: piuttosto è simbolo di leggerezza, di equilibrio, di pace interiore. L’ultima poesia richiama specularmente la prima: “Radioso mattino. Diffuse / di luce acque cullate. / E del mare placato la gran quiete”. Siamo ancora nell’ambito della luce, nel risveglio del giorno (significativamente il titolo è Risveglio) e dello spirito (rinascita spirituale). Stavolta è il mare ad essere invocato, con le acque che comunicano pace e serenità. E vien di fatto da accostare a questi versi una famosa strofa penniana: “Il mare è tutto azzurro. / Il mare è tutto calmo. / Nel cuore è quasi un urlo / di gioia. E tutto è calmo”. Stare al mondo senza essere ferito, ecco l’insegnamento del mare. O forse introiettare le ferite e farle colore azzurro, urlo pacato di gioia. Perché se è vero che il grido esplode irrefrenabile (lo sottolinea, a livello metrico, l’enjambement), è pur vero che è urlo nel cuore, a cui sopraggiunge repentina la calma. Luce riscoperta anche nei colori dell’autunno, come in quella che recita: “Non è oro matto / ma oro tenero, flagrante, / splendido tessuto delle piante / che trapela dalle mura come un coro / di dolci ninfe dagli alberi fiorite, / un coro agile assiepato / come per un saluto o un canto / di libera gioia per un autunno / tanto sontuoso e caldo”. Diceva Rilke che «cosa ch’è felice, cade» e allora l’autunno non è falso oro (“oro matto” si diceva una volta per indicare quello che oro non era) ma vero tesoro perché ci fa comprendere come sia  necessario accogliere la metamorfosi al nostro interno per mutare noi stessi: diventando, dunque, gli attori di questa metamorfosi. La felicità non sta in un luogo del tempo definito, ma in un passaggio di tempo. Si prenda il distico di novenari a schema giambico (usato da Pascoli, nella cui opera questo metro è di importanza straordinaria) di Onde: “La calda sabbia lieve. Il mare / intorno agli occhi ti scintilla”, con allusione alla vecchiaia della donna. Il tutto detto con delicatezza: le onde intorno agli occhi dell’amata, che alludono alle sue rughe, scintillano – ancora una volta la luce – nella serena celebrazione del tempo che passa. Di luce parla anche la poesia che apre la seconda sezione del libro (che pure, rispetto alla prima, ha un tono più doloroso, trovandosi anche immagini drammaticamente violente) in particolare di quella dell’estate, anche se il poeta non è completamente partecipe di questa felicità, visto l’anelito di questi versi: «In te disperdermi, fluire, / fondermi alla fonte chiara dove tu fiorisci». C’è tuttavia la speranza: nel pellegrinaggio attraverso il mistero e il dolore dell’esistenza, Di Fonzo – ungarettianamente uomo di pena – trova nell’estate il coraggio della fede e della resistenza, del canto della gioia della vita. Si avverte, inoltre, la vena autobiografica: traspare, infatti, che tutto nasce da contemplazioni (soprattutto della natura, in primis del mare), visioni  realistiche e quotidiane. Ma sbaglierebbe chi pensasse che è poesia narcisistica. Si tratta, piuttosto, di liriche discrete, in cui le allusioni alla vita vera sono trasfigurate in potenti simboli. Ho detto, all’inizio, che Di Fonzo rispetta la tradizione; questo non vuol dire che vi troveremo sonetti, ballate o canzoni. Piuttosto, il rispetto consiste nel ritmo poetico, con – ad esempio – l’utilizzo di versi consacrati dalla tradizione quali endecasillabi, settenari e novenari. Di seguito se ne darà un’illustrazione, prendendo la lirica a p. 44 – sei nitidissimi endecasillabi organizzati in due strofe, ciascuna delle quali formata da un unico periodo sintattico – che si rifà all’immagine consueta amata-luna dandole però nuovi godimenti: “Se in alto rifavillano le stelle / e la luna per me diffonde albore / io fermo nel turchino la certezza / che all’indomani rivedrò il mio amore. // E così splendido sarà il mattino, / che al primo sole rivedrò la luna”. A prima vista i versi sembrano ospitare una sola rima, quella fra albore: amore  (vv. 2 e 4). Ma ad un esame più attento, emerge un fittissimo reticolato di corrispondenze foniche che costituiscono la struttura della poesia. Innanzitutto la rima già messa in rilievo non è isolata: infatti le due parole sono collegate in assonanza con la parola-chiave sole (v. 6); così come mattino (v. 5) con una quasi perfetta rimalmezzo (ma si tratta comunque di due nasali) con primo (v. 6); la parola luna – sorta di senhal della donna – al v. 2 è ripresa in finale di lirica; da notare poi l’allitterazione al v. 1 che non è preziosità, ma colore, pittura musicale, dolcemente ipnotica; viceversa quella al v. 3 conferisce al verso un andamento solenne. Si prenda poi la corrispondenza nella struttura dei versi iniziali di strofa che presentano al loro interno parole sdrucciole, di cui la prima montaliana (rifavillano e splendido): non semplice ornatus, ma parallelismo nella struttura concettuale, benché di ritmo diverso (si tratta, infatti, di un endecasillabo a maiore e uno a minore). Chiude il tutto l’antitesi barocca soleluna. E qui mi fermo, richiedendo un’analisi più approfondita maggior spazio. Ad ogni modo, si sarà notato l’intenso lavoro che caratterizza una breve concentrazione lirica come questa. Che non è solo abilità tecnica nata da un’assidua frequentazione con la poesia, ma necessità intrinseca di chi nella forma sa ingabbiare dolori, gioie, aneliti e speranze. È certo che la poesia non cambia il mondo. È certo, però, che lo salverà.

Claudio Mariotti

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