L’ASSEDIO DI ENZA SILVESTRINI

L’ASSEDIO DI ENZA SILVESTRINI

La lettura di questa terza raccolta di Enza Silvestrini L’assedio (Ensemble) è stata per noi una piacevole (forse dovremmo dire “dolorosa”) sorpresa: risaltano evidenti una maturità strutturale e una complessità tematica di notevole spessore. Il percorso testimonia che la Silvestrini crescit eundo, come dicevano gli antichi, e si rivela degna testimone dell’inquietudine dei tempi, filtrati attraverso un’acuta sensibilità femminile. La letteratura italiana e, per tanti versi, mondiale, di questo primo scorcio del terzo millennio è per molti aspetti erede ed epigona della produzione della seconda parte del secolo scorso. Estenuazione delle ideologie, allarmato clima fine millennio, apocalisse incombente. In realtà non ne mancano motivi: ai disastri del riscaldamento globale, alla fine delle utopie delle umane sorti e progressive da una parte e della fiducia in un mondo giusto ed egalitario dall’altra, si somma oggi l’incubo delle pandemie di sistema attuali e prossime venture. Se in campo è rimasta quasi sola la generazione Z a contrastare il vaniloquio della politica che, cauta e possibilista, pressata com’è da lobbies di ogni genere, oppone uno strenuo muro di gomma, muri reali tentano di contrastare l’esodo biblico di una migrazione planetaria, senza nessun piano di intervento razionale o umanitario. Intanto nelle lettere non si riesce ancora a individuare una rotta nuova e spesso gli autori più sensibili si rifugiano all’interno di se stessi, alla ricerca di senso e aspettative, se si eccettua il gruppo sempre più residuale degli intellettuali impegnati o militanti, come si diceva una volta. A meno che non si scelga la strada più semplice – meglio semplicistica – della letteratura di evasione, quella dai tanti colori e dagli scarsi contenuti: il giallo, il nero, il rosa. I nostri studenti sanno per esperienza che di ogni secolo bisogna studiare una triade: Dante Petrarca Boccaccio, Goldoni Parini Alfieri, Foscolo Leopardi Manzoni, etc. Una rapida riflessione sul fenomeno: possibile che non esistano poetesse? Anche la poesia è mestiere inadatto alle donne? Eppure si era partiti così bene con Saffo, che poteva corrispondere alla pari con Alceo, uno dei più grandi lirici dell’antichità. Chi non ricorda l’ode della gelosia, tradotta o imitata fino ai nostri giorni dai più grandi poeti? Qui però potremmo stilare una lunga lista di poetesse di tutte le epoche, la stessa Ingeborg Bachman, citata dalla Silvestrini, o Virginia Woolf, o Alda Merini, o Silvia Plath, Wilslawa Szymborska. Siamo riusciti nei secoli a reprimere delle donne persino la voce? A proposito di triadi, invece, la Silvestrini si è nutrita alla scuola dei classici. Per l’antichità basterebbe scorrere il titolo della terza sezione de l’assedio, “diario greco”. Poi penso a Dante. Immagino che lei ne sia pienamente consapevole, almeno a livello di eco che ti risuona nella memoria. Ascoltate: è l’ora che peggio è solo morte; sillabe orribili accenti strani / lacrime tuoni imprecazioni. Che ve ne pare? Lei però si è costruita un suo Pantheon, in cui regnano sovrani tre grandi interpreti del Novecento. La prima è l’austriaca Ingeborg Bachman, emblema lei stessa della disgregazione dell’io. Una sua citazione dal romanzo “Malina” introduce alla prima sezione de l’assedio. L’introibo alla seconda parte è del polacco Zbigniew Herbert, al cui verso dissacrante, alla sua rivisitazione dei classici in chiave attuale, la Silvestrini deve pure qualche cosa, magari solo la consonanza tra “ciottolo” e “pietra”: il ciottolo è di Herbert, l’eleganza di una pietra appartiene alla Silvestrini, ma tra i due elementi corre un’affinità molto forte. Infine la terza sezione è affidata alle parole penetranti tratte dal racconto “Il braccio” del premio Nobel giapponese Yasunari Kawabata. Con tali numi tutelari non potete aspettarvi dalla Silvestrini niente di facile o banale o consolatorio. Un consiglio per l’uso: accogliete con cautela le ricostruzioni dei critici letterari – anche la mia, s’intende – perché i critici hanno una loro visione del mondo, alla quale curvano persino i dati più oggettivi della realtà. Nel supermercato universale che è diventata l’editoria pure loro debbono campare. Un’editoria che insegue l’effemeride e tutto consuma nell’arco della giornata, tanto che alcuni scrittori famosi sono costretti a sfornare talora tre libri all’anno per non sparire dal mercato in pochi mesi. In realtà anche la Silvestrini ne ha collezionati tre – parlo della produzione poetica – ma in soli dodici anni! In questo clima perturbato torna alla memoria il più impremeditato dei critici: Mario Ruoppolo – ve lo ricordate? – il postino di Neruda, quando dichiara, con un ardito anacoluto: “La poesia non è di chi la scrive, è di chi gli serve”, a significare la rivendicazione del lettore alla ri-creazione del testo letterario, in una visione rivoluzionaria del rapporto poeta/lettore. Come leggere i versi della Silvestrini? Intanto lo stesso Neruda ci mette in guardia: “La poesia se la spieghi diventa banale, meglio l’esperienza diretta delle emozioni”. Noi proveremo a servirci delle classiche categorie in disuso di contenuto e forma, partendo da quest’ultima. La poetessa, sulla scia dei maestri del Novecento, ha messo al bando una volta per tutte segni di interpunzione e diacritici: restano, in tutta la raccolta, come relitti di un naufragio, solo quattro punti interrogativi: tu lo sopporti l’inganno della schiuma?; il mondo è fatto ancora degli stessi elementi?; ma come concepire in solitudine / l’io trascendentale?; come fanno le isole a galleggiare così lievi?; in tre di questi casi le interrogative sono enfatizzate dal corsivo, unico segno diacritico.  Quanto al verso la poetessa sembra aver abiurato del tutto alla metrica e alla prosodia tradizionali. Dico sembra, ma solo in apparenza, perché poi trovi rime finali e persino all’interno del verso, apparentemente casuali, come risonanze interne dell’anima: male/banale, nel monologo del sultano, (troppo esplicito il riferimento per non coglierlo) o mondo/fondo, in ti depongo in una bara d’acqua, che apre una distanza incolmabile tra vita e morte. Perché Enza è una falsa primitiva, esperta navigante di tutti i trucchi della retorica: pensate a certi ossimori audaci, come deserto d’acqua o immobilità veloce. La raccolta, quarantadue poesie, è scandita da tre sezioni: dal mare; da qui; diario greco. Nella prima sono spariti persino i titoli, recuperati nelle due successive. Quindi la prima sezione può essere letta come un’unica composizione continua. Vi si riflette su una delle più drammatiche migrazioni di popoli della storia, quella dei nostri tempi. Sulla questione ciascuno, più o meno legittimamente, può avere un’opinione o una posizione: c’è chi intende difendere i confini della patria e chi minaccia utopici blocchi navali; molti si mettono la coscienza in pace con un po’ di carità pelosa, altri si fa fragile scudo di un buonismo senza conseguenze. Lei, Enza Silvestrini, capovolge tutte le regole del politicamente corretto e decide di imbarcarsi in una di quelle tombe galleggianti, per condividere con la massa di diseredati il viaggio oltre le colonne della vita. Non come avventurosa freelance, ma come una di loro, che si affida ad acque sconosciute. Con i suoi compagni di viaggio si aduna sulla riva e scopre il mare, deserto d’acqua senza fondo e fine, e già la nuova esperienza comincia a cancellare la storia di ciascuno. Dopo un tempo indefinito, forse due soli giorni di prova dell’assedio delle onde, di sonno agitato e di sogni più simili al delirio della febbre, l’incontro finale col destino, quando dovrà assistere impotente alla morte nell’acqua. ti depongo in una bara d’acqua (bella anche la traduzione in lingua spagnola di Antonio Nazzaro) è la lamentazione allucinata che accompagna il feretro dell’umanità, annegata nell’egoismo e nell’indifferenza. Morte anonima, annullamento di identità personale e negazione della memoria. Il nome perduto assunto come cifra della dignità umana cancellata. Disfacimento della vita e delle sue tracce, nel nome che si sbriciola nei suoi atomi costitutivi, sillabe e suoni. Infine, in convochiamo tutti gli dei, una preghiera universale tenta di librarsi sopra l’acqua. A noi resta il pietoso compito di ricomporre le spoglie. Per quanto detto prima, questa sezione della raccolta, senza maiuscole, senza interpunzione, diventa un unico canto silenzioso della tragedia, una trenodia, molto simile a un monologo interiore, talora un flusso di coscienza dolente, che di sera ti toglie il sonno (il pensiero s’attarda la sera), come una potente e inevitabile ruminazione notturna. Il mondo e gli eventi hanno perduto ogni senso, tutte le prospettive e i riferimenti. Il rischio è lo smarrimento, un naufragio universale che non ha niente di dolce, sganciato com’è da qualsiasi finalità. Adesso l’imperativo diventa raccogliere dai relitti qualcosa da cui ripartire, che ti faccia ritrovare un ubi consistam, ricostruire le coordinate di spazio e tempo. Nel passaggio alla seconda sezione, da qui, come accadeva già per l’autrice di Malina, l’identità si sdoppia e si riposiziona sulla terraferma, dove ritrova l’universo caotico della modernità, il fiato pesante dell’affarismo, la tragedia che diventa spettacolo da consumare, la distopia del futuro. Pare che anche da qui, nella ricerca affannosa di un appoggio solido, la situazione non migliori di molto. Non aiuta nemmeno il rifugio nel passato, che ha lasciato solo macerie e terre infeconde. Una logica imposta dal senso comune ci fa scoprire un “noi” straniero, fatto e disfatto negli acidi della logica. tutto il male è diventato banale. Forse non resta che la fuga, ma intanto anche il confine ha già perso senso. La noia si fa movente di morte, un tempo come ora, e la città diventa una foresta, dove appostarsi per scegliere con cura vittime inconsapevoli. Forse la via d’uscita è un ritorno al passato, la palingenesi nel desiderio della sorgente nativa. Ma l’erede moderno dei grandi imperi del passato è un banalissimo esercizio commerciale di mediazione di beni e consumi: per sopravvivere non ha più bisogno di organismi democratici, è autocrazia allo stato puro, sotto la quale si è ben felici di porsi al riparo dal pensiero. è tempo di tornare alla storia / al nostro passato di pesci. Posto che sia questa l’unica via di salvezza. A ciò conduce la terza sezione, diario greco, introdotto dalle parole del Nobel giapponese Yasunari Kawabata: In cerca del proprio io lontano vanno gli esseri umani. Di qui sembrerebbe che l’amore possa ancora stimolare e risolvere il recupero della propria identità. Infatti questa parte, attraverso una simbolica rivisitazione del passato, contempla la possibilità dell’incontro e del dialogo con l’altro, pur con le contraddizioni e le contrapposizioni che il quotidiano propone. Lucido sguardo, disincantato, sulle blandizie effimere del benessere delle società opulente, la cui cifra è la vanità, come vane sono le profezie di Cassandra e il cavallo di Troia che ti si ritorce contro. Gioco di specchi della Storia, crollo di miti e ideologie. La presenza dell’altro serve appena ad alleviare l’angoscia della solitudine (nel niente che dura da una vita; qui il tempo non si cura di noi). Nella rivisitazione della storia riaffiorano i contrasti della vita attuale, presente e viva. Fuga nel passato, alla ricerca nostalgica e al recupero effimero di immagini di sé perdute nel tempo, quel tempo che, per un eccesso di realtà, ti riporta impietoso al presente e ai suoi guasti. Mentre sulla terra e sul mare / ogni cosa trova il suo posto, mentre tutto nell’universo sembra obbedire all’ordine di una legge che regola il caos, nel cuore si apre l’abisso della scoperta che la presenza dell’altro conferma il destino di solitudine e deserto. Di tutte le storie, di tutta la Storia, di guerrieri dalle rutilanti armature, del sogno eterno del bello, non restano che memorie vuote come gusci di cicale, portate via dal vento del Tempo. L’ultima lirica, nel riflesso che hai scordato nell’acqua, riapre alla speranza che l’amore possa rigenerare persone e identità: il viaggio nel passato recupera una prospettiva di rinascita e di riconoscimento. Il segno, señal avrebbero detto i Provenzali, è un anello: l’anello di Kawabata o il reciproco simbolo di riconciliazione? Concludiamo confermando la complessità del testo della Silvestrini, che sembra richiedere una “chiave” di accesso alla lettura. Aldilà delle teorie letterarie e delle correnti filosofiche che le sottendono, un tentativo empirico per forzare il testo potrebbe consistere nella rilevazione delle frequenze, voglio dire della ricorrenza di certe immagini o, più concretamente, di certe preferenze lessicali. Con questo criterio, in una tassonomia crescente, saltando a piè pari sostantivi circostanziali, come alghe, marmo, pietra e molti altri, ci possiamo concentrare sostanzialmente su quattro forti richiami: il mare, il tempo, i nomi, i pronomi personali. Il “mare” è l’elemento che presta il titolo e la sostanza a tutta la prima sezione: è prima di tutto speranza, poi scoperta, quindi minaccia, infine bara d’acqua. Il mare è il contenitore universale, custode di speranze infrante e di vite tenacemente abbracciate. Forse il liquido amniotico in cui si vorrebbe tornare, come pare suggerire il testo di convochiamo tutti gli dei. Grande via aperta alla vita, ma che si potrebbe richiudere in ogni momento per la crudeltà di qualche faraone. Alfa e omega, incubatrice della storia. Il “tempo” accompagna la fatica di vivere, assumendo forme e funzioni cangianti: tempo reale nella misurazione dell’attesa (quando contiamo il tempo); tempo della storia che ci estrania e ci fagocita (il tempo si smemora; con la stessa memoria dei tempi); il tempo metafisico, indifferente alle vicende umane (qui il tempo non si cura di noi; il tempo stava fuori ad aspettare). Le due coordinate, spazio e tempo, alle quali si fa riferimento per costruire la propria identità, si sfaldano, si disintegrano, e non lasciano più posto ai nomi (senza nomi; cadono i nostri nomi con un tonfo; tutti i nomi di famiglia; l’ipotesi sui nomi cadrà / con la stessa memoria dei tempi). Nel naufragio universale c’è ancora posto per qualcosa che abbia un senso? “Rari nantes in gurgite vasto” riaffiorano i pronomi della terza sezione: io e te; di me di te di quelli che eravamo; di te e di me soli; dopo l’estate e noi. Per fare sintesi diremo che il fattore Tempo è termine medio tra Regressione e Resilienza. La regressione preconscia, come fuga dalla realtà di dolore e desiderio di ritorno al grembo materno o all’età del mito è vanificata dal Tempo storico, che impone la realtà presente, mentre la resilienza dei pronomi personali fa appello alla presenza dell’altro, alla solidarietà degli affetti, per sconfiggere il Tempo metafisico. Quando parlavamo di frantumazione dell’io, non abbiamo mai fatto uso della parola disperazione: la crisi di identità, come suggerisce l’etimo greco della parola, è solo un punto di partenza, di scelta, è la ricerca razionale del sé autentico, il reset della coscienza, che si libera delle incrostazioni del buonsenso imposto dai tempi e dalla storia. Un’operazione di pulizia faticosa, spesso dolorosa, ma che approda a una nuova consapevolezza di sé e dell’altro. Insomma, la terza sezione potrebbe essere il lieto fine della storia: c’è ancora speranza su questo pianeta, ridestata dalla presenza dei pronomi, più concreti dei nomi, ancorata alla solidarietà e governata dall’amore. Il titolo dell’opera è l’assedio. Di questa parola si ritrova una sola traccia, nella lirica “Osiride”, in forma verbale: quando mi assedi di gente e richieste / quando in troppi premono / ai confini. Naturalmente l’assedio è più complesso di quelle quotidiane pressioni: è il costante tentativo di annullare l’identità in nome delle convenzioni e del senso comune, per la sedimentazione culturale a senso unico, per l’ipocrisia della fiducia incrollabile nel progresso, che richiede guerre di supremazia, si serve della legge del più forte e discrimina i viventi tra assedianti e assediati, mentre il mondo scricchiola sinistramente sui suoi stessi pilastri. Enza Silvestrini, con la sua voce accorata, suggerisce un rimedio alla superficialità dei nostri tempi e indica un percorso di rigenerazione e di apertura agli altri. In fondo già Leopardi aveva previsto che la salvezza passa solo per la solidarietà del genere umano.

Francesco Sepe

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