‘VALORI BOLLATI’ DI MAURO IMBIMBO
Mauro Imbimbo, Valori bollati (La Bussola). Che la poesia si debba guardare indietro sembra ormai una condizione necessaria, tanto è modesto il suo ruolo presente nella considerazione del mercato culturale. E non tanto a causa della “perdita d’aureola”, cioè di prestigio sacrale; quello scadimento già Baudelaire (il nonno di tutti i moderni) l’aveva diagnosticato come un effetto importante ma non paralizzante, in realtà una vera e propria liberazione: piuttosto il guaio (anche questo Baudelaire l’aveva ben colto ai suoi tempi) sono tutti quei sedicenti poeti che l’aureola se la sono rabberciata sulla testa come se niente fosse, e sono una gran maggioranza, al che non sai se ridere o piangere. E allora: che la poesia si guardi indietro, sì, se non c’è altro da fare. Ma il guardarsi indietro può avvenire in due modi radicalmente diversi. Uno è appunto quello di recuperare l’essenza, il valore sublime, che però ormai non può che ritornare in caricatura, nella riduzione a canzonetta, nel jingle della banalità (così ad esempio accade alla materia d’amore, che pure ha dato adito a una grande tradizione lirica, anche con un certo peso filosofico, mentre oggi è diffusa come sfogo emotivo e contentino personale). L’altra possibilità è il recupero della forma. Anch’essa però non può tornare così com’era, cioè come norma fissa e come garanzia d’armonia; se la si rimette in moto dopo il lungo sonno (oggi che ormai tutti i presunti poeti l’ignorano) schizza fuori dai gangheri con intensità negli eccessi della sonorità, in ripetizioni e variazioni da far invidia al rap dei giovanotti. Metrica breve, rima, bisticcio e altre assonanze sono le leve della poesia di Mauro Imbimbo. Una poesia di componimenti tutti molto brevi, ma ad alta frequenza allitterativa e paronomastica che non esita a proporsi come gioco, quasi fosse la performance di un clown acrobatico. Come gioco: e certamente contiene un piacere ludico, che si scatena grazie alla licenza che la poesia ha sempre concesso («licenze, licenze, licenze poetiche», diceva un altro grande poeta clownesco come Palazzeschi). Però un gioco che si fa serio: perché insieme alla poesia altre cose se la passano male nel mondo odierno, la politica, la socialità, i beni comuni, sicché questa poesia iperformale non può che farsi nello stesso tempo ipercontenutistica, e nel suo dissiparsi sonoro andare a mettere in gioco usi e costumi adulterati. Il titolo di questa nuova raccolta, Valori bollati, lo dice apertamente, mediante un gustoso calembour: perché non sono – è chiaro – quelli reperibili dal tabaccaio, bensì sono i falsi valori collettivi che vengono “bollati”, come si usa dire nel senso della satira, cioè ricevono a timbro un giudizio di disapprovazione. Appunto la satira e la polemica civile sono gli additivi che danno energia a questi versi. Sicché la misura breve si avvicina all’epigramma. Malgrado le pecche siano arcinote (“Sullo stato dello Stato / ogni lemma è stato usato, / e di crude e di cotte / v’è un elenco dettagliato”), il fatto che i rimedi non si vedano all’orizzonte invita ad insistere a toccare questi tasti: sotto i “ferri” è messa di volta in volta la prassi occulta (il “fare e non fiatare” il “mettere a tacere”), i misteri dei Ministeri, i rigurgiti di barbarie (“il tempo stagnò, / ritorna l’uguale, / la festa mortale”), l’incultura fatta di enfiagione del nulla a comunicazione zero (“E l’analista ci scrisse un saggio, / sulla rivista, quella in omaggio, / ci vinse un premio, andò nei Talk”). Insomma, una società di aspiranti assistiti (“Vogliamo la Manna! / ripetono in coro”), dove la voce della protesta è assunta in carico dalla natura stessa: “La Bellezza a primavera / marca visita di nuovo, / ha rimesso la panciera / e alla sera solo un uovo” (così recitano, una volta di più, gli ottonari tofaneschi di cui è prodigo l’autore). I testi di Imbimbo dimostrano che i classici avevano ragione, che castigare ridendo è molto più efficace di una predica in nome della morale. E il discorso dell’irrisione tocca non solo i governanti e i gestori del potere, non solo le incomunicazioni di massa, ma riguarda la stessa poesia. Emarginata ed esclusa quanto si voglia, non c’è giustificazione al fatto che la poesia ha perso la dignità della ricerca, è ridotta a linguaggio rimasticato. Così la satira riguarderà l’interiorità che viene fuori come aria intestinale (“Scambiate le interiora / per l’interiorità, / divenne il meteorismo / monologo interiore”), il dolorismo del privato (“Perché chi ce l’ha col cuore / lo desidera spezzato?”), gli abusati versi di “fiori e d’amore” che diventano “un gran bolo” mal digeribile. La poesia va sottratta al “cacofonico concerto” della confusione dilagante, ma andrebbe, per così dire, salvata dai poeti d’oggi; mentre invece in soccorso arrivano gli autori del passato, gli “antenati” provenienti da un’ampia memoria, da García Lorca a Voltaire, a Manzoni. Compaiono, tra una riga e l’altra, i “plausi e botte” di Boine e persino il “beri-beri” di Ragazzoni che fa “buchi nella sabbia”. Compare una “spera” montaliana, che già ne Gli orecchini aveva il “nerofumo” e qui, dove tra l’altro fa omofonia a contrasto con il verbo “sperare”, ribadisce un più prosaico “ma la spera è affumicata, / non si vede un accidente”. Con una tecnica effervescente (da Metastasio contemporaneo che dà una pista al rap), il poeta-dinosauro reagisce all’estinzione rilanciando una poesia di pubblica utilità, fatta di rime, ritmi e reminiscenze. Tramonto con rabbia, il titolo di un brano, è oltremodo significativo. Se ha da essere un finale, che sia almeno un gran finale pirotecnico!
Prefazione