POESIE IN TRADUZIONE DI CARLA PAOLINI

POESIE IN TRADUZIONE DI CARLA PAOLINI

Premessa a Most in translation di Carla Paolini (poesie italiane tradotte in inglese, Edizioni Italic Pequod). “Senza essere poeta non possiamo tradurre un vero poeta” sosteneva  Leopardi.  Come affrontare la parola di altri?…  come  trasferirla nella nostra lingua?… quella che conosciamo e nella quale siamo stati immersi:  il liquido amniotico che ci ha infuso sostanza e vigore,   insufflata  fra i primi respiri dell’infanzia,  vena madre preziosa che dà alle percezioni una unicità che ci avvolge e  identifica, linfa  che ci scorre nel cuore. Per affrontare questo transfert  abbiamo l’obbligo di  inquisire, spiare,  misurarci con la personalità di chi vogliamo tradurre. Affacciarci trepidamente al suo pensiero… alla sua vita, tentando di intuire ciò che fra i silenzi sospesi, gli spazi bianchi,  i frammenti  di pensiero l’autore ha voluto trasmetterci. Questa spinta la riconosciamo nel desiderio di scandagliare, di cimentarci affiancando  la nostra voce a  esperienze di  mondi altri nel tentativo di scoprirne il nitore o  l’opacità, sporgendoci oltre il dedalo misterioso dell’altra lingua per custodirne l’aura poetica.  Qualcuno sostiene che questo tentativo “derivato” suoni inattuabile assurdo, che nessuna traduzione avrebbe  vita se non esistesse un originale che ci permettesse di entrare in scena. Chi traduce lo sa bene,  questo impulso a traslare i sensi, i valori, il fascino si rinnova ogni volta che  accetta di proporre un’opera in una  diversa interpretazione, per l’esigenza o solo  la voglia di riaccendere l’interesse su qualcosa che ama e  tenta di preservare dalla corrosione del tempo. Anche se in fondo rimane l’insoddisfazione per non essere riusciti  a mettere in luce un dettaglio, a superare un piccolo scoglio o per non aver avuto  competenza sufficiente  a rendere  ciò che l’autore voleva trasmetterci. Ma, far rinascere la propria  parola in un’altra lingua: comporta una sfrontatezza anche maggiore!  Abbiamo bisogno di uno specchio, che  rimandi la nostra immagine, che ci ospiti senza tradirci troppo, permettendoci di rimanere noi stessi, ma allo stesso tempo crei la distanza necessaria  al passaggio da un luogo all’altro della nostra esperienza. Dobbiamo cercare accenti diversi, metterli a confronto, studiarli e ristudiarli  perché siamo entrati  nel mondo misterioso delle equivalenze, che saranno  la guida   per  sostenerci nel percorso di trasmutazione. Dobbiamo tradirci per assecondare, per rincorrere un nuovo linguaggio che ci sembra più ricco, addirittura più adatto a esprimerci?   Noi, ma anche un altro noi… da cosa dovremmo  preservarci o custodirci?  Siamo  presi nella tagliola pericolosa di rinnegare un linguaggio da cui ci sentiamo ormai distaccati, tanto stantio da  tradire i propositi alti dell’origine quando inseguivamo deliri di presunzione. Ingaggiamo un corpo a corpo con un clone indecifrabile, vagheggiando  corroboranti nuovi sviluppi  da cui la  nostra creatività esca rinvigorita. Ormai impossibilitati a decifrarci perduti nell’abisso di  nudità inespressive, tentiamo di risolverci  attraverso uno strumento diverso,  che  offra attrattive allettanti, con indagini perspicaci, più acute che   inventino una nuova trasfigurazione fondativa al nostro pensiero. Forse c’è solo la ricerca di un grimaldello  affilato da  incuneare nelle nuove fratture che le vecchie parole non sono più in grado di sfidare.  Si può immaginare che qualcun altro, che un po’ ci somiglia,  con un lessico più aguzzo infili questo congegno penetrante nel passato e interpreti tutto a suo modo senza darci retta.  Abbiamo  un bel dirgli: guarda che sbagli, non pensavo questo o non volevo dirlo così,  mi hai  frainteso, adesso che sono più lucido ho  nuovi espedienti per  chiarire,  mitigare i giudizi troppo spocchiosi, sono più consapevole  e tento di riaccendermi nella luminosità di espressioni che non conoscevo, e ora sembrano  giuste per reinterpretarmi. È possibile rinnegare il passato per muoversi verso una diversa densità espressiva? …accettare di non essere più se stessi per dare al proprio pensiero la forza di fiorire in  nuove più autentiche forme. C’è  una ambiguità di fondo in questo interrogativo, da una lato si vorrebbe mantenere  ciò che è stato, riannodarlo,  come parte imprescindibile della nostra personalità, ma anche sconfessarlo nel momento in cui ciò che abbiamo ideato, progettato, vagheggiato un tempo non ha più voglia di stare dentro di noi. Un rovello che ci attanaglia… ma da affrontare  se decidiamo di scioglierci  dai vincoli  a  cui eravamo legati, nel convincimento  che  tradurci  sia  non solo un  modo indispensabile per capirci meglio, ma anche  che  traducibile… traducibilità appartengono intimamente alla scrittura e, come suggerisce Antonio Prete, sono: ”Esperienza di un’ospitalità che è incontro, conoscenza, trasformazione di sé e della lingua”. Conoscenza e trasformazione: la prima  accetta di indagare  poi,  si allevia, sfuma  per dare modo alla seconda di rivelarsi. Un moto in progress che  avvia  affioramenti linguistici  inaspettati e coinvolgenti  intersecati non solo con la necessità di riaccendere il corpo del pensiero classico, perché ogni generazione possa riscoprirlo nel linguaggio che più gli è familiare, ma anche con le schegge e i riverberi del nostro passato narrativo che premono per toccare  nuove tensioni.

Carla Paolini

Premessa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Torna in alto