IL SEGRETO DI RUFFILLI: MESCOLARE I GENERI
A volte di un poeta, soprattutto di una sua antologia come queste Variazioni sul tema (Aragno Editore), sono importanti le citazioni poste in calce, esse fanno da spia per il lettore, vogliono farlo senza disturbare, lasciare dunque briciole di senso, lasciti di una via per chi è chiamato a rintracciarne il filo che li collega. Il cammino della vita di Paolo Ruffilli fa tutto ciò. Evidentemente lo fa. Fin dal titolo : “Variazioni sul tema” (della vita, appunto) e fin dalla citazione iniziale da Mandel’štam: “Qual è il tuo tema, / la tua chiave preferita? / La vita, la vita…”. La vita dunque, certo, con accanto la sua ombra, non la morte come parrebbe ovvio, ma la paura: “Testa, se fa sul serio. / Se mi vorrà per sempre. /Croce, se è solo un gioco/che finirà”. L’amore, l’attrazione, la dipartita, il ritorno tra le braccia, il dubbio, l’assenza, che, citando Benjamin, è “la massima presenza”, sono materia da sempre inesauribile della vita e il poeta non si sottrae a tale abbraccio con Cupido. Che si mostra e viene raccontato anche nei suoi tratti familiari, ibridi, parentali mirabilmente da Ruffilli nei versi de la “Camera Oscura”. Qui d’impeto aleggia sottile la memoria. Una memoria dipanata talmente da mostrarsi nei versi “chiara e distinta” da un lato, però con il suo retro, la camera oscura, appunto titolo peraltro di una importante – come anzidetto – raccolta del poeta. Proprio da questo racconto familiare prendono le mosse diverse riflessioni su fogli d’album, diremmo alla Schumann, ove si avverte il passo lieve di una Romagna sommessa, il senso basso e piano della Romagna di Marino Moretti e terra madre di Ruffilli. Ma come sfuggire alla presa che Böll, il Böll di “foto di gruppo con signora”, esercita su queste confessioni di formazione in-finita? Il Böll anarcoide delle “opinioni di un clown” che rema dentro il mare duro delle ideologie con la carne ardente della sua critica di cattolico dissidente, di coscienza inquieta, di memoria insicura del tempo precedente? Non è possibile, fa parte del peregrinare ruffilliano tra le pieghe/piaghe della cultura europea e universale. Il tappeto dei sensi e dello spirito viene srotolato secondo la forma della confessione delicata, attraente, parsimoniosa, a volte dissacrante, celata e mai del tutto svelata, eppure lo stile è quello, completamente avvolto da una forma preraffaelita che è una delle maschere del poeta. Ruffilli non è moderno, di più è ultramoderno attingendo alla tradizione con mano sicura. Di più. Si avvina al garbo di Cristina Rossetti e del fratello Dante Gabriel muovendosi tra cielo e terra, tra il teologico e l’amoroso senza soluzione di continuità. Accanto al grande scrittore tedesco è inevitabile affiancare la “camera oscura” di Proust, la camera dove scriveva e aveva paura di vivere. Di dire e non dire e riportiamo versi di Paolo Ruffilli : “…c’è un odore di torte e di biscotti / sulla strada del passeggio”. E ancora : “È, forse, morto / quel passato? / O si nasconde fuori / del suo campo, / in un oggetto fermo / e distaccato… / Il pezzo di focaccia / inzuppato nella / tazza, quel / sapore ritrovato / all’improvviso…”. Più esplicito di così… ma il tempo di Ruffilli non è realmente ritrovato, è semplicemente quanto nuovamente visto dentro la camera oscura del negativo, dove molto se non tutto è sfumato, incerto pur nella rigorosità “scientifica” del verso. In questa dialettica duale tra rigore e sfumatura sta il senso della camera oscura, la dialettica hegeliana del negativo, che rovescia il positivo astratto nella negazione concreta definita dal filosofo di Stoccarda “l’immane potenza del negativo”, la lotta inestricabile della sostanza che si fa soggetto. Ma un negativo che nella sua (di Ruffilli, intendo) poesia non si risolve mai in una “sintesi”, rimane dualità aperta, gioco e mistero della vita non però oppositivo come per Pascal o Kierkegaard, ovvero nel senso di un aut aut ma di e e, ove il tempo appare un’antica versione quasi taoista dell’incostanza della via come è scritto nella apertura del Tao. E poi torna l’origine, e, stando alla Romagna, senza sociologismi di facile uso e consumo, la dualità ritorna tra campagna e borghesia, tra socialismo e cattolicesimo papalino, anticonformismo e vivere geniale di una provincia che si crede ed è a volte centro… Centro lo è l’amore, l’amore verso la madre e l’amore della madre, vicinanza e distanza: “è inutile / perché non vuoi capire / quello di una madre / è l’unico a non finire” (“Piccola colazione“), sopportabile intollerabile, unico, eterno, eppure ricerca dell’altra in una “piccola colazione” dei sensi, per un uomo, un poeta che resta di terra pur guardando il mare. Un uomo che si è formato tra gli anni Sessanta e Settanta, nel fuoco dunque “della controversia” per dirla con Luzi. Tra “passione e ideologia” non c’è dubbio: Ruffilli ha scelto la passione. Seppure con quel tocco minimalista che ha il gatto di solcare il suolo, quel suo realismo magico che sempre sorprende (vedi il “Diario di Normandia“): “Morbido flessuoso solo / tenero lesto e quatto. / Non c’è niente e nessuno / che mi faccia tenerezza / più di un gatto”. Ma non per senso di superiorità, quanto per inalienabile debolezza, timore e tremore del troppo certo, della totalità sia essa sociale che intima, stupore nel non trovare che rarissimamente chi abbia una missione nella vita, e diffidenza. Diffidenza verso la stessa natura umana (che è un ossimoro, no?!): “Ha la natura umana / una tendenza: / il segreto bisogno / di sollevarsi in alto / distaccandosi dal suolo / per tornare in possesso / di qualcosa / che le sia stato tolto…” (“Natura morta“) poiché l’alto copre quel senso del guasto delle cose, il gusto di un melone assaggiato sulla riva del mare, l’odore marcio del mare stesso, di foglie andate, di sensi fecondi: “Passa la forma. / Muore. Si dissolve / e per sempre ci scompare. / È la materia dicono, / che scorrendo resta…” (“Diario di Normandia”). Ruffilli non è che di rado un paesaggista, quanto un anatomopatologo delle passioni umane e del loro contesto ambientale e naturale. Viaggiatore certo, ma la sua materia è fatta dall’incerto minimo passaggio tra vita e sogno, quel rovesciare la clessidra dell’uno nell’altra e dell’altra nell’uno senza mai indicare ove sia il limite, il confine, anzi al contrario mescolandolo sempre, come in una inesauribile “piccola colazione” di zucchero nell’amaro con una sola strana certezza: “La certezza / di non aver più fedi / è in quel trovarsi / volentieri, una mattina / indifferenti a tutto”. Cinico il poeta? No, è la distanza che tiene minima tra la cosa e il simbolo della cosa imparata dal vivo da Lacan. Poiché la parola simbolica uccide la cosa. È la sua assassina. E le cose, gli oggetti che pure noi siamo, quelle nature morte, o quelle vite ferme traducendo dall’inglese, descritte nel penultimo volume di poesie dell’Autore, sono i soli numi tutelari del nostro appena essere, della nostra ventilata quanto poderosa esistenza. E l’esistenza è, per il nostro poeta, mescolanza, dimensione ibrida per eccellenza. Mescere. Mescolare è il segreto impenetrabile di Ruffilli. Mescolare i generi, il buffo, il serio, il tragico, il comico, il sublime e il miserrimo senza dare mai l’impressione di farlo davvero dentro un teatrale senso della vita come in un romanzo o in una sentenza di Confucio per guardare tuffandosi nel mondo dopo cauta mirata attesa. “Attendo sveglio il mondo / nel momento / del suo stare più deserto / per spiarlo meglio / a cielo aperto / in ogni suo girone / di miseria e splendore (…) che si è offerto di darmi / intanto, bontà sua, / in concessione / da provare alternati / nel piacere e nel dolore”. Accanto al primato dello sguardo si pone in Ruffilli il primato della parola sull’azione. Non certamente per disdegno ascetico. Anzi. L’agire è presente nell’arte del nostro, ma tra San Giovanni e il Faust di Goethe, il poeta trevigiano sceglie il primo. Tra “in principio era il logos” e “in principio era l’azione” non v’è dubbio: in principio era la parola. Lo ribadiscono a chiare lettere i seguenti versi: “La parola per me / veniva da distante. / Quasi un a priori / L’avvertivo…”. E lo avvertiamo anche noi in questa conclusione che ci porta al culmine del tragitto poetico di Ruffilli ove la parola è l’immagine “pigra e lenta” dello scatto della vita.