IN TRASLOCO CON CRIVELLARO
Luigi Crivellaro, In trasloco (Biblioteca dei Leoni). Una poesia vissuta intensamente, scritta da chi intensamente ha vissuto. In ogni verso appare tutta la profondità di chi ha consapevolmente affrontato esperienze, sfide, sconfitte, soddisfazioni, sofferenze e gioie. Ho conosciuto Luigi Crivellaro come editore, amante appassionato della letteratura, l’ho scoperto poi con piacevole sorpresa scrittore e poeta di grande spessore. In questa sua raccolta, pubblicata dopo alcuni anni di silenzio, il poeta ci regala preziosi momenti di emozione e riflessione, mentre, strettamente legati da un filo sottile, abilmente intrecciato dalla magia dei sentimenti e dalla logica della ragione, ci trascina in un mondo poliedrico e variegato. Ogni verso è intriso profondamente di vita pensata, esaminata nella sua inevitabile incertezza ed elaborata con la fredda conclusione della relatività del nostro esistere. Vivere intensamente è una locuzione forse troppo usata, anzi abusata, tanto da dimenticare che l’intensità ha a che fare non tanto con il numero di accadimenti che incontriamo, ma è legata alla consapevolezza di ciò che ci succede e alla capacità di considerarla preziosa opportunità. La scrittura di Crivellaro consegna valore alle parole e, mentre si scorrono pagine di una poesia che sorprende per la sua capacità di mutare nel linguaggio e nel ritmo, ci ritroviamo perfettamente a nostro agio dentro alla sapiente plasticità della composizione. Sentimento e razionalità si accoppiano e si sovrappongono in una fruttuosa e positiva ambivalenza e, procedendo nella lettura, sempre più prende forma il significato e la congruenza del titolo “In trasloco”. Tras-loco, ovvero locarsi altrove, perdere un luogo per trovarne un altro, questo comporta inevitabilmente il bisogno di elaborare una perdita, che forse è proprio la nostra stessa identità, costruita su tutto ciò che ha rappresentato finora un riferimento, ovvero la nostra bussola dell’esistenza. Significa rinunciare alla vita precedente e aprire un nuovo capitolo, di lunghezza e qualità dubbia. Significa affrontare un lutto, colmare un vuoto e un’angoscia che ci pervadono, lasciare la propria casa e soprattutto riuscire a chiuderla: “Insomma, si sta per chiudere/e mica sarò io/a dare il tempo della fine:/un mattino le imposte/resteranno sprangate/e chi passa di fuori/non presterà attenzione/alla quiete della casa (…)” Si ravvisa un senso di perdita di sé e contemporaneamente si sente forte la nascita di un desiderio di ritrovarsi, ben sapendo che tutto gira attorno a una grande incertezza: “Universale e generale domina/una fallace relatività/che riduce a maceria ogni certezza/elude il tempo e illude vecchiezza/(…)”. Un trasloco da sé stessi. È un sentirsi confusi, smarriti, anche se nel contempo si affaccia la timida speranza di un’evoluzione, di un rinnovamento. Il tema è quello del tempo e dell’età che si fa inesorabilmente avanti, portandosi dietro timori e angosce e la casa si fa ancora metafora di questo passaggio: “Una casa, forte e fatta di muri,/ a quest’età scrosta e screpola senza/ riguardo ai suoi mattoni (…)” Come possiamo oggi affrontare il passare degli anni che uno dopo l’altro -quasi un misterioso artifizio- si sovrappongono, formando una traballante torre di momenti passati? Siamo arrivati in “prossimità con il confine” e poco sappiamo “se al di là si rintani l’Indicibile/vero (…). L’ineluttabilità della morte abbraccia gli umani e li riempie di angoscia, il poeta si interroga su cosa sarà e si affida a versi (“oggi mi serve la poesia”) che hanno il gelido sapore della fine: “e avrà l’agro viso del rimpianto/ e la voce del disamato amore/ e la fiamma del tralasciato ardore/ e il gelo della mia anima ghiaccia”. Oggi invecchiare appare come un ostacolo sociale, uno stigma, un’età rinnegata perché specchio della morte. E se un tempo gli anziani erano considerati saggi, perché avevano vissuto a lungo e potevano offrire esperienza e consiglio, oggi i nuovi sistemi di informazione li hanno completamente sostituiti, diventando i reali depositari di competenza e saggezza. Il futuro sembra scomparso e senza meta, la vecchiaia è camuffata e completamente cancellata da un condizionamento storico-culturale che la vede come un’espressione di assoluta inadeguatezza. Già all’inizio del secolo scorso Max Weber diceva: “A differenza delle generazioni che ci hanno preceduto, oggi gli uomini non muoiono più sazi della loro vita, ma semplicemente stanchi”. E quando la stanchezza ci invade, arriva anche il momento dei ricordi, la nostalgia di un noi giovane e i pensieri pesano come un macigno: “Pesante di tutto il/non fatto, di tutto il/non vero, di tutto il/non chiaro con cui ho riempito/ le ore e svuotato il tempo.” Vorrei però citare, quasi in difesa dell’accezione negativa dell’età che passa, anche il pensiero di Manlio Sgalambro, filosofo, poeta e scrittore che nel suo “Trattato dell’età” (Adelphi, 1999) ci presenta un’altra prospettiva: “L’invecchiato sarebbe il re del passato” e ancora: È l’epoca della Valutazione. Dei grandi Sì e grandi No. Ciò che in essa viene valutato è il mondo stesso” (pag. 73), consegnando così rilievo e dignità alla vecchiaia. Perché, a differenza della fanciullezza, dell’adolescenza e della maturità che sono in balia del vento della vita, la vecchiaia è già compiuta ed è perciò perfetta, ci si può così congedare dal proprio tempo, quello dell’Io, quindi dal desiderio, per incontrare il tempo esterno, quello del mondo. Filosofia e poesia si tengono per mano e si accompagnano a vicenda, sostenendo la vita sia di chi scrive, sia di chi legge e Crivellaro sa che la poesia permette un pensiero universale e offre insieme consolazione e conoscenza. Il poeta insegue significati e risposte, con la razionale consapevolezza che non li troverà mai, si lascia allora trascinare da ricordi, avvenimenti, emozioni che hanno accompagnato la sua esistenza, occasioni di vita che si aprono con una serena malinconia e un sorriso per sé stessi nell’ osservare piccoli flash del passato. È presente in ogni pagina un’incessante ricerca di sé attraverso un interrogativo forse senza risposta, quasi uno stupore: “Ogni volta che mi arrischio a sbirciare/ la faccia crudele del mio inverso/ tale è la sorpresa che mi domando/ da quale mai gioco troppo perverso/ io l’abbia potuto generare.” In questa raccolta, che srotola, a volte con cinica risolutezza, i temi dell’esistenza, non può non comparire l’amore, il focus della nostra vita. Umberto Galimberti sostiene in un’intervista: “L’amore bisogna comunque farlo, bisogna comunque trovarlo. Bisogna entrare e uscire dalle storie d’amore. Che anche le storie che vanno male non sono sprecate perché il nostro io si è trasformato durante quella storia e non siamo più quelli che eravamo prima. Per cui l’amore è la macchina del cambiamento, è il metabolismo della vita”. L’amore lo osserviamo percorrere tutto il testo, ma è presente in particolare nel capitolo dal titolo “Cuori tardivi”. È condivisibile questo titolo, dove aleggia un senso di perdita inevitabile? Il cuore (e dunque l’amore) può essere tardivo? Oppure, proprio perché è il metabolismo della vita che ci rinnova e ci nutre, si impone come eterno presente da tenere saldamente stretto accanto a noi? Su questo tema è significativa la poesia “La piovra”: “(…) Una traccia e non più/il tardo amante abbaglia e frastorna. / Natura fomenta implacata/la piovra del sentimento e/non cura se le ventose del tempo/ ne fanno guardia disarmata.” La figura femminile compare con forza in tutte le sue misteriose sfaccettature: l’inquietudine, l’inafferrabilità, la rabbia, la smania, la tenerezza, l’incomprensione, la morbidezza, l’accoglienza, la perdita, il rimpianto, l’abbandono, il desiderio, il rifiuto. La donna ha mille volti e mille storie: donna amata, donna lasciata, donna desiderata, donna tradita, donna lontana, donna sognata, donna allontanata, donna inseguita, donna avvicinata, mai raggiunta. Colpisce l’uso delle metafore dove le emozioni si fanno oggetto (“L’hai estratto dal cuore/come gemma rara/Il tuo dolce rifiuto pungente”), corpo (“Una bella ferita,/ ho notato sollevando la testa,/ slabbrata e zigzagante ancora”), luogo (“ho mutato rotta piegando/ verso la spiaggia della consolazione”). Immagini che escono dai versi e si dipingono sull’anima. I sentimenti non sono raccontabili, esistono in noi e sono privi di parole, posseggono solo il nostro sguardo che li osserva attraverso una rappresentazione che prende sostanza nella nostra mente. E l’amore rimane senza risposta, incompiuto, come sempre in sospeso tra passione, abbandono, rimpianto, eccitazione, solitudine, nostalgia, incertezza e il tempo che passa… Verso la fine del testo ritroviamo alcune deliziose poesie scritte dall’autore in lingua inglese con grande abilità e padronanza della lingua. Alcune con un sapore di giovanile entusiasmo, dove corre un pizzico di ironia, a cominciare dal titolo del capitolo “Versi nella lingua del business”. Ricompare l’amore, vestito di eros, che recita: “When my hand felt the hard/ youth of her flesh, a scarf/ I tought I’d like to be/ for her nude neck (..)”. Crivellaro ama cimentarsi con questa lingua e ama molto anche il poeta americano E.E. Cummings, tanto che inaspettatamente ci propone la traduzione di alcune sue poesie, quasi volesse cedergli la voce per una possibile salvezza dallo scorrere del tempo, dalla vita e da noi stessi. Molti sono gli interrogativi sul nostro abitare il mondo, mentre rincorriamo con ostinata determinazione un confuso destino, e questi versi svelano, accompagnati da un crudo realismo, la fatale fragilità della nostra umanità. Ma prima di farci trasportare dalla poesia, che sicuramente lascerà un profondo segno nell’animo di chi legge, vorrei lasciare la parola a Carlo Rovelli, studioso di fisica teorica, che da sempre si interroga sull’esistenza, consapevole che, nonostante i grandi passi della scienza, ci sono (e forse sempre ci saranno) troppe poche risposte. Ma per fortuna lo scienziato crede nella poesia, perché la poesia è come la scienza, entrambe amano il mistero: “Noi siamo fatti della stessa polvere di stelle di cui sono fatte le cose e sia quando siamo immersi nel dolore sia quando ridiamo e risplende la gioia non facciamo che essere quello che non possiamo che essere: parte del nostro mondo. (…) Qui, sul bordo di quello che sappiamo, a contatto con l’oceano di quanto non sappiamo, brillano il mistero del mondo, la bellezza del mondo e ci lasciano senza fiato” (Sette brevi lezioni di fisica, Adelphi, 2014).
Prefazione