TEATRO DI POESIA IN CARMELO PISTILLO
Il mio interesse per Carmelo Pistillo è nato negli anni Ottanta a proposito del suo “teatro di poesia” che questo autore molisano trapiantato a Milano coltivava con grande intensità, anche insieme ad Antonio Porta. Personalissima era quella sua maniera di far rivivere il testo nell’azione scenica, privilegiando la prosodia della lingua comune e assumendo la recitazione come metro di riferimento, così da renderlo autonomo nel suo essere scritto ma anche occasione di oralità verbale nella performance. Da allora in poi la sua parola è sempre stata vissuta nella sua fisicità come corpo sonoro musicalmente trainante. Anche in questo suo ultimo libro appena uscito Poesia da Camera-Kammerpoesie (Stampa 2009, presentazione di Maurizio Cucchi), che volendo fare un riferimento alla definizioneparallela della musica da camera contempla composizioni in cui il ruolo del singolo strumento è sempre individuale pur nel nell’insieme complessivo. Si tratta in fondo di una sorta di sceneggiatura teatrale in versi, a più voci giocate a ricomporre narrativamente un quadro esistenziale e sentimentale. Un libro originale, nel taglio, nell’orchestrazione, nelle figure e nelle situazioni. E il percorso si compie integralmente attraverso la poesia e perciò il testo si dispone all’interferenza consapevole/inconsapevole di quell’operazione intellettuale che, nella molteplicità e contraddittorietà dei suoi atteggiamenti psicologici, esprime l’ossessione, l’incubo, il dubbio, accanto al sogno, alla speranza, alla logica. Ogni racconto della realtà così detta oggettiva di ogni singola voce passa attraverso quel viaggio onirico che ne fa materiale di deriva. Ma la deriva, qui, ha il moto di un’oscillazione più propriamente periodica, con la dolcezza, sia pure angosciosa e angosciante (quale dolcezza non lo è?), di una memoria ostinatamente ritornante, relativamente a quei preludi del passato e relativamente a quei tanti “io”, “tu”, “noi”, di continuo evocati e di continuo perduti, di cui sono intessuti i discorsi di queste pagine. Vive dentro un’ottica visionaria quell’oscillazione di cui si diceva, continuamente messa in moto dalle pieghe tra le quali qualcosa è destinato comunque e sempre a perdersi, sul limitare dei sentimenti, nell’immagine che si accende e poi si spegne svanendo. E il riscontro di questa presenza/assenza si definisce in una specie di dissociazione benigna in cui i due volti (o le due parti) di una stessa personalità (l’autore e i suoi alter ego, ogni volta), interferendo inevitabilmente tra di loro, lo fanno, il primo – l’io sé –, in modo spontaneo e diretto (insomma, riflettendosi) e, il secondo – l’io altro –, con la consapevolezza addirittura propedeutica della regia e dell’imposizione di rotta (organizzando, insomma, il filo del discorso da uomo di teatro). Sprigiona da queste pagine una poesia come luce segreta che dalle cose rimbalza improvvisa verso la decifrazione possibile del mistero e come ansia che punta zigzagante a doppiare la meta della condizione incognita. Il disagio delle singole voci si trascrive talvolta in invocazione, qualche altra in stupore o nell’incertezza, si accende di un fuoco che, tra accenti di sofferenza e di passione, fa rivivere sulla pagina l’avventura di corpi e di cose alla deriva nel tempo.