PASSIONE E VERITÀ IN RUFFILLI di Renato Minore
Per la poesia di Paolo Ruffilli, Le cose del mondo (Mondadori) rappresentano un approdo certo e decisivo e, insieme, il punto di raccordo in una sorta di crocevia in cui, una volta individuato il sentiero da scegliere, diventa ancora più riconoscibile e illuminato l’itinerario finora tracciato, nella serialità dei suoi tempi passati, da Piccola colazione fino a Variazioni su tema. La sua “costruzione tematica” si allarga e si insinua nel format della versificazione in modo così stretto e avvolgente che le parti si toccano e divergono, si penetrano e si espandono, così che da tutte emerge quel tono di suadente, ragionevole “parlato poetico”. Come piccolo e decisivo percorso di conoscenza, passione e verità e, insieme, come uno scatto ulteriore che permette di contemplare il tutto da una postazione sapientemente riconquistata sul nuovo territorio. Ruffilli è lì, chino ad interrogarsi e interrogare sul viaggio e sulla parola, sui segni del corpo e sull’atlante dell’anima: “Che cosa può insegnarti l’esperienza? / Che ognuno è, contro l’apparenza, / l’autore della propria sorte / e che a chiamarle arrivano le cose / senza poterle allontanare più / dalla tua strada”. Il suo è come un eccezionale, ulteriore scatto dell’immagine, estratta e continuamente rigenerata da quell’album che segna il luminoso esordio poetico: l’autore de Le cose del mondo lentamente va a coprire, per calcolate sedimentazioni, lo spazio figurale e metrico dell’autore Ruffilli. E finalmente inizia ad apparire “autore della propria sorte” di poeta perché ha messo in moto (per usare le sue stesse parole, da critico che sa della propria poesia quel tanto che serve e ignora quel tanto che basta) “la sua esperienza, in un gioco di continui rimandi e rispondenze tra io e realtà esterna attraverso la pratica del linguaggio”. Ecco perché Le cose del mondo sono non il frammento significativo che si aggiunge ad altri, ma il pezzo decisivo che permette anche all’intero disegno di resettarsi, quasi di rimodellarsi secondo l’attrazione fatale che può nascere dall’intonazione di versi come: “Nel tunnel cieco / dentro, nelle grotte ciascuno, solo / e tutti quanti, insieme, in corsa / proiettili lanciati nella notte”. Oppure questi altri , ugualmente performativi: “Le persone muoiono e restano le cose / solide impossibili nelle loro pose / nel loro ingombro stabile che pare / non soffrire affatto contrazione dentro casa / perché nell’ occuparlo non cedono lo spazio / vaganti come mine, ma nel lungo andare / il tempo le consuma senza strazio solo che necessita di molto per disfarle / e farne pezzi e polvere, alla fine”. Ruffilli è sempre lì, il lessico smaltato in una lingua di sapida concretezza, la fluidità insieme oratoria e colloquiale, una costante vena ironica e autoironica che scivola sui contenuti, pensieri, foto, impressioni, sensazioni tattili o olfattive inseguendo qualcosa che lo sfiora con un tono leggero, così leggero, leggero come un soffio leggero. E così intuisce meglio (prendono forma in modo morfologico, determinato, senza ulteriori necessità di chiarimento) tutte le acquisizioni e il sapere accumulato dalle precedenti e singole letture dei singoli libri, con le costruzioni, i processi di scrittura, il modo fluido, ondeggiante, metamorfico dentro l’intarsio combinatorio e multiplo del loro scorrere. Concludo qui la mia impressione di lettura che ha ovviamente necessità di altri prelievi e altri approfondimenti che verranno con i futuri lettori. Ma in ogni caso con essa si conferma e si rafforza la convinzione che, grazie a Le cose del mondo, Paolo Ruffili ha trovato anche un metodo assai congeniale per rendere più densa e avvolgente la sua ricerca sul “gelido potere che la parola / ha in sé, più nuda e più crudele / di qualsiasi altra cosa in bene / e in male”. E, da questa nuova postazione, la parola di Ruffilli, all’apparenza più in chiaroscuro rispetto ad altre più scintillanti e magari più sottilmente demagogiche o spettacolari, ancor più appare coerente come poche, rigorosa come poche, inventiva come poche.