‘DUE VITE’ DI EMANUELE TREVI
Chi li ha conosciuti anche solo attraverso le loro pagine, avrà piacere di ritrovare Pia Pera e Rocco Carbone nel libro Due vite (Neri Pozza) di Emanuele Trevi, che ricostruisce la loro fraterna amicizia a cavallo dei trent’anni, all’epoca di una fase importante per tutti e tre in prospettiva del comune talento per la scrittura. Pia Pera e Rocco Carbone sono morti relativamente giovani, la prima di sclerosi laterale amiotrofica a sessant’anni e il secondo a quarantasei anni in un incidente stradale, avendo dato prova entrambi di una vocazione narrativa assolutamente originale, essenziale, intensa, perfino tagliente. Come e perché l’autore pensa di far rivivere i suoi due amici nelle sue pagine? Lo dice espressamente che la scrittura è un mezzo singolarmente buono per evocare i morti che altrimenti vagherebbero soltanto nei ricordi, nei sogni e nei rimorsi. E l’amicizia tra di loro è stata troppo forte per non affidarne certi intrecci profondi all’azione di memoria e catarsi della parola. L’occasione apparente è il ritrovamento di una fotografia in cui l’autore viene ritratto da Rocco vicino a una Pia sorridente e divertita nell’atteggiamento inconfondibilmente suo di accudire e di proteggere, ma la spinta a raccontare quei ricordi è molto più profonda e necessitante. La volontà di illuminare le vicende esistenziali dei due amici coinvolge il bisogno dell’autore stesso di materializzare nel pieno dell’evidenza quella situazione particolare del binomio inscindibile di vita e scrittura che li ha caratterizzati tutti e tre. E l’autore, magari inconsciamente, rispecchia la sua personale esperienza a contrasto e a composizione rispetto alle esperienze di vita e di scrittura dei due amici, nel segno di quel “ordine/disordine” a cui nessuno sembra sfuggire per la perdita inevitabile di controllo che ciascuno conosce nella propria vita. Di Rocco si dice che “un ordine imperturbabile regna sulla struttura della frase, escludendo ogni riflesso emotivo, ogni perdita di controllo… la sfida è sempre la stessa: opporre al caos, alla forza del negativo la certezza di un controllo razionale”. Ma il controllo, si sa, è destinato a fallire e probabilmente l’incidente non ha dato a Rocco il tempo di accettarne l’impossibilità. Per Pia, invece, la consapevolezza dell’impossibilità è l’inevitabile di cui si prende atto, ma viene come riassorbita in un “oltre e insieme” che va al di là della propria persona, in una dimensione quasi panica ben evidente nelle parole dell’autore: “Quando immagino Pia nel suo giardino, una cesta di vimini in una mano e una piccola zappa nell’altra, non mi viene in mente solo un essere umano che rende vivibile o addirittura bello uno spazio estraneo. Quella che mi si fa incontro è un’immagine della totalità della vita, un’immagine che racchiude in sé ciò che è possibile sapere e ciò che non si può sapere”. Il talento di Trevi, il suo dono, è una penna sciolta e delicata che fa fluire sempre il suo racconto (nella descrizione, nella riflessione, nell’evocazione) secondo un ritmo che definirei poetico e che avvolge e coinvolge il lettore facendogli prendere parte per continue illuminazioni a quel che nella pagina accade.