IL POEMA DI PAOLO RUFFILLI
Da sempre, il Paolo Ruffilli poeta (cui si sono via via affiancati anche il biografo, il saggista e il narratore) è molto bravo e costante a sgretolare l’integrità dell’io lirico, a sfuggire alle insidie del dettato apertamente autobiografico e a crearsi una lingua poetica mobile e sciolta, rapida e sincopata, in accordo con una prosodia fondata su versi in genere più brevi dell’endecasillabo, arieggiati da molte rime spesso originali (dunque di rado suffissali) e generalmente memorabili per scioltezza d’andatura e leggerezza di ritmo. Il risultato è stato, nella lunga durata della sua storia compositiva, dal 1987 del folgorante Piccola colazione fino al 2014 di Variazioni sul tema, quello di un’originalità per così dire costitutiva e del tutto estranea tanto ai cascami dell’ermetismo quanto alle tentazioni di uno sperimentalismo fine a se stesso. Personalmente, all’interno di quest’ampia produzione, confesso di aver amato soprattutto due libri come La gioia e il lutto, del 2001, e Le stanze del cielo, di sette anni successivo, poiché in loro l’abolizione dell’io soggettivo e lirico e la cantabilità tutt’altro che superficiale in cui s’incarna alla perfezione la griffe d’autore hanno abbracciato – per via persuasivamente allegorica – i tratti di un’identità pronominale che ha dato voce (e disperato lacerto di vita) nell’uno al malato condannato a morte di AIDS; e nell’altro all’inquilino del luogo per antonomasia concentrazionario, il carcere.
Dati presupposti simili, sono rimasto non poco sorpreso quando ho ricevuto Le cose del mondo, esordio recente di Ruffilli nella prestigiosa collana dello Specchio Mondadori, con un libro poetico decisamente anomalo rispetto al corpus cui ho fatto cenno fin qui, composto di nove libri principali. Le cose del mondo, la decima, è infatti un’opera decisamente poematica e composta in un arco di tempo più che quarantennale (1978-2019), senza però che possa esserle accreditata la forma oggi diffusa (anche se spesso ingiustificata) dell’autoantologia d’autore. Anzi, come ammette Ruffilli stesso nella breve ma perspicua nota d’introduzione al volume, l’idea di partenza “è legata a un suo desiderio, a una sua precisa necessità, e cioè quella di perlustrare il concreto mondo in cui si è venuta muovendo la sua esperienza, in un gioco di continui rimandi e rispondenze tra io e realtà esterna attraverso la pratica del linguaggio.” L’endiadi di pensiero e immaginazione, a suo tempo individuata da Alfredo Giuliani come costitutiva della scrittura poetica di Ruffilli, è motore anche delle Cose del mondo, a patto che le si affianchi anche l’altra di corpo e parola e che si riconosca – a mio giudizio molto positivamente – che nel contesto presente Merleau-Ponty conta più di Heidegger e Leopardi più dei simbolisti.
Ecco, allora, in estrema sintesi, gli elementi che costituiscono il tessuto connettivo di questo testo ricco, rischioso e onnicomprensivo, quasi tentacolare, che non lascia al lettore un solo momento di respiro, entro la sua serratissima fisionomia interna, fatta di parti l’una all’altra indispensabili, con un’opera di montaggio accurata e necessaria: constatazione cui si aggiunge la novità metrica di un’oscillazione tra un verso otto-novenario e un endecasillabo aperto a un produttivo contrasto di armonia e disarmonia.
In primo luogo, se di poema si tratta (e in merito non sussiste dubbio), conviene chiamare Libri anziché Capitoli le sei parti che compongono l’insieme: in sequenza, la prima è quello del viaggiatore impersonale, soprattutto ferroviario, con un richiamo esplicito ma autonomo e un omaggio tutt’altro che esornativo a quel caposaldo della nostra poesia contemporanea che è il Congedo del viaggiatore cerimonioso (1960) di Giorgio Caproni; la seconda quella di un fitto dialogo anche pedagogico, e mai vanamente normativo, fra un Io/Padre e un Tu/Figlia, per uno strettissimo, fecondo abbraccio di parola come parabola, sintetica sentenziosità di clausola, moralità leggendaria e apertura al punto di vista dell’Altra da sé; la terza parte coinvolge la qualità astrattiva (e latamente scientifica) radicata nel sentire umano in rapporto al cosmo (“È un’astrazione e non un fatto, / l’oggetto di un pensiero, / figura, idea, sogno o concetto / più che un reale sentimento…”); la quarta, eponima, elenca come un’enciclopedia o meglio come un “registro, elenco, catalogo, inventario” in ordine alfabetico alcune “cose del mondo”, secondo un processo di implacabile reificazione del reale, mentre la quinta tratteggia un audace non meno che originale Atlante anatomico. Ed è questo un Libro davvero originale, che si svolge a mo’ di testimonianza diretta del passaggio di ogni percezione contemporanea attraverso il corpo e la sua consistenza fisiologica, in vista dell’ammissione metapoetica e finale che la sostanza stessa dell’universo è riconoscibile solo attraverso la consustanziazione di nome e cosa, perché “l’universo, a diversi gradi di verbalizzazione, è costruzione simbolica del nome.”
Il poema di Paolo Ruffilli si delinea così come la cartografia dei più svariati modi e mezzi e presupposti della percezione umana, filtrata attraverso il suo medium più potente, che è il linguaggio poetico. Poema vero, dunque, che ha un modello intertestuale attivo e operante già a partire dal titolo: il De rerum natura di Lucrezio, che – attraverso il lavoro in parallelo di altri poeti forti quali Milo De Angelis e Giancarlo Pontiggia – si conferma anche attraverso Le cose del mondo come un archetipo assai promettente della nostra contemporaneità.