LE FARFALLE DI GOZZANO
L’ambivalenza costitutiva del presente quale ambito del non più-non ancora in Guido Gozzano si risolverà nelle Farfalle, forse in quella «stanza modesta» nella quale «dormono cento quete / crisalidi in attesa» del compimento della condizione crisalidea, e quindi della conversione al volo. Tuttavia, qui vorrei ricordare Umberto Eco: divagando su Gozzano a partire da un dettaglio dovuto a una mia dimenticanza. Apro Pape Satàn Aleppe e trovo una Bustina dal titolo gozzaniano: Rinasco, rinasco, nel milnovecentoquaranta. Cosí Eco: «La vita altro non è che una lenta rimemorazione dell’infanzia. D’accordo. Ma quello che rende dolce questo rimembrare è che, nella lontananza della nostalgia, ci appaiono belli anche i momenti che allora ci sembravano dolorosi», come «le notti passate nel rifugio antiaereo». Resto perplessa sul «nel» (identificazione precisa di un punctum temporis) che sostituirebbe il «del» (indice di una sensibilità e di una temperie storiche) che figura nell’Amica di nonna Speranza, alla quale, con leggerezza (e fuorviata dal titolo della Bustina), credevo che Eco si riferisse. «Rinasco nel» implica una madeleine: ed è esattamente ciò che Eco ha espresso. Infatti scrive, pensando alla reintroduzione del grembiule nero nelle scuole: «avverto in bocca un sapore di madeleine imbevuta di tiglio, e come Gozzano mi viene da dire ‘rinasco, rinasco, nel milnovecento quaranta’» (questa data è nell’Ipotesi).
Madeleine, e inoltre straniamento temporale, perché Gozzano ha scritto anche «rinasco, rinasco del mille ottocento cinquanta!» (appunto, nell’Amica di nonna Speranza), a conclusione, nella chambre à souvenirs, del catalogo delle «buone cose di pessimo gusto» – che secondo Eco interpretano una forma di kitsch – date in accumulazione per asindeto, penultima delle quali, in posizione strategica, «il cucù dell’ore», un richiamo letterale alla dimensione del tempo, e il solo elemento, qui, a sottrarsi alla condizione di fissità. E l’«ora antica» è l’«ora vera», Gozzano dirà in Torino, città consolatrice, ma consolatrice solo in absentia, alla maniera dei suoi amori, dei suoi desideri (ad Amalia Guglielminetti: «io non sono innamorato che di me stesso; voglio dire: di ciò che succede in me stesso»). E in Torino d’altri tempi: «E ancora una volta chiederò al sogno, al sogno soltanto, la cosa impossibile a tutti (anche impossibile a Dio): di resuscitare il passato». Perché? Perché il passato non è alterabile, e come orizzonte dell’ormai cristallizzato surroga ogni empito ottativo, realizza una autoesclusione dal presente, l’esenzione cioè sia dalla vita che dalle sue maschere. Il passato può essere ratificato da una fotografia, da un vintage, da un libro, da un gobelin, da una vecchia stampa, da una oleografia, da una storia, da una grafia arcaica, da una assimilatissima letteratura: l’essenziale è che si tratti di una immagine che non muta.
Torniamo all’album di famiglia. Nell’Amica di nonna Speranza la rima «canta : cinquanta» davvero traduce l’illusione del tempo ritrovato? Gozzano sembra dire «rinasco del» come se appartenesse all’anno 1850, data impressa nel «dagherottipo» dell’album fotografico: è il fascino delle date, affine a quello dei toponimi in Proust. In Gozzano al cronologizzare corrisponde la censura del proprio tempo. «Adoro le date. Le date, incanto che non so dire, / ma pur che da molto passate o molto di là da venire» (L’ipotesi): l’ennesimo artificio per schermarsi nell’inalterabile, vetrificato-accertabile, e quindi il solo grado di esistenza padroneggiabile, nell’esondante stilema della distanza da cui va guardata la vita, tanto per «non prendervi parte»? Oppure nella distanza come «via del rifugio», o un espediente «per rivivere in altrui», o qualcosa di funzionale al suo «libro di passato», in quanto fattore regressivo? Artificia che l’artifex compone per una fuga dalla contemporaneità che lo esenti dalla vita, ma non questo soltanto.
Si leggeva di Gozzano che interpretasse una sorta di crepuscolarismo a parte lectoris, per il quale il passato surclassa il presente per il suo carico di nostalgia, tempo irreversibile della memoria e terreno di illusioni che seducono per la loro facoltà consolatoria. Ovviamente non è lo stesso per Eco, né per i suoi lettori, sintonizzati sull’attualità (da cui trarre, semmai, indizi quanto al futuro) anche quando si tratti di questioni medioevali. Non si avverte una vicenda spirituale in Gozzano, è stato detto, quasi egli rientrasse nel cliché della finzione, della moda letteraria dell’agonizzante, dell’impostura lirica del tragico fallace che al contrario detestava, del falso tisico o «finto morituro» (Stecchetti), parte sostenuta da qualche poeta dell’età giolittiana. I suoi figmenta, il suo sentirsi ai margini della vita – la negazione crepuscolare – hanno un tragico radicamento in quella malattia di cui diffusamente ragiona. Quindi il volgersi all’«età passata» costituisce non tanto, o non solo, un regressus verso qualcosa di immodificabile, quanto soprattutto l’evocazione del non più, assimilabile a una natura morta o comunque a un oggetto di contemplazione a distanza. Distanza come immobilità dentro la morte: ma è il modulo estremo oltre la dissimulazione («età passata» in Felicita fa rima con «insalata»: insomma, c’è da attendere la sua promessa di tornare «con altra voce»).
Ora, se con «nel» ci si colloca precisamente nel tempo, con «del» si appartiene a esso, si instaura con il tempo una analogia sfumata, una consonanza spirituale più sottile. E dire «del» è come dire che la memoria o l’immaginazione, il vagheggiamento o lo schermo o la fuga, oppure qualcosa di non attingibile e di illambibile come Carlotta ci rapiscono da noi stessi, ci fanno diventare altri da noi, ci indicano altre origini e altre appartenenze. E questo è una specificazione della onnipervadente insistenza gozzaniana a collocarsi fuori del tempo, e inoltre della paradossalità, della qualità statutariamente irrealizzabile dei suoi amori, della sua conclamata propensione per le non condizionanti situazioni in potenza – quadrifogli e rose non raccolti né sotto il profilo del passato né in quello dell’ora –, benché Carlotta fosse diversa dal quadrifoglio: il quadrifoglio non raccolto è il presente desiderabile rifiutato, l’evento d’eccezione cui non prendere parte. Carlotta è il sogno del potenziale e dell’inverosimigliante. E cos’altro è il sogno dell’inverosimile se non desiderio di stare con sé solo, di «appartenersi», attraverso tutte le possibili strategie dell’«assenza volontaria»? Narrativizzare l’assenza, nella convergenza assurda e inaudita di vissuto e di accadibile.
Sul nesso tra distanza dalla vita e umanesimo è stato scritto che l’umanesimo gozzaniano si origina nell’orizzonte monologante-dialogante di un intimo colloquio. Donde risale una humanitas di autentiche maschere, in cui l’alchimia dell’«appartenersi» e del «meditare», nonché la strategia dei suoi alter ego – da quelli sparsi della letteratura alle figure deputate a promuovere le reazioni emotive del teoreta di una vita che non ha vissuto –, non fanno che richiamare l’interiorità cogitante, il trasferirsi, tramite la lettura e la riflessione, in altre età. Il che, da Petrarca in avanti, è un carattere saliente dell’umanesimo.
Quanto al discorso di partenza, sulla preposizione «del»: in Gozzano non è il passato ad appartenerci, siamo noi ad appartenere al passato, anzi siamo noi stessi figli, prodotti («rinasco») del passato che ricreiamo, che facciamo rinascere mentre in esso a nostra volta rinasciamo, dentro di noi. La memoria, che dovrebbe concorrere alla costruzione del sé, può invece destrutturare, ed esserne una deformazione. Così, la memoria e la rievocazione dell’infanzia, del tempo originario, della primavera stagionale che è anche rinascita della vita e, dantescamente, primavera dell’universo, altrove si fanno letteralmente straniamento da sé e dal mondo. «Socchiudo gli occhi, estranio / ai casi della vita. / Sento fra le mie dita / la forma del mio cranio… // Ma dunque esisto! O strano! / vive tra il Tutto e il Niente / questa cosa vivente / detta guidogozzano!» (La via del rifugio). «Risorge chiara dal passato fosco / la patria perduta / che non conobbi mai, che riconosco…» (Paolo e Virginia).
Qualcosa di analogo è, in fondo, nella coscienza storiografica. Viene in mente, per pura ardimentosa analogia, Tito Livio (XLIII 13): «Mihi vetustas res scribenti, nescio quo pacto, antiquus fit animus; et quædam religio tenet», «nel narrare cose antichissime, non so come, l’animo diventa antico, e una sorta di sacro terrore mi possiede». Anche il gozzaniano «cucù dell’ore che canta» è la musica del tempo: anzi il tempo spazializzato e misurabile dell’orologio, che si diluisce, attraverso il ricordo, nel divenire del ritmo interiore espresso dai versi. Quel «cucù dell’ore» ha misurato il passato così come sta misurando l’ora presente. È il passato che perdura nel tempo determinato dell’adesso per il manifestarsi del ricordo. È la misura del passato che dirada e relativizza se stessa. Forse una riduzione ironica, e forse anche inconsapevole, dell’«orologio da rote» di Ciro di Pers: «Mobile ordigno di dentate rote / lacera il giorno e lo divide in ore, / ed ha scritto di fuor con fosche note / a chi legger le sa: sempre si more». Antiquus fit animus: è esattamente ciò che accade a Gozzano, anche se per lo storico antico l’esito è la celebrazione, per Gozzano il senso della perdita: su tutto grava una «decrepitudine varia», «le scatole» sono «senza confetti», «le buone cose» sono sorpassate dal tempo.
Una circostanza minima come una preposizione potrebbe suggerire un discorso estensibile a tutta la coscienza storica di Gozzano, ad esempio alla sua visione del Risorgimento, quel malinconico mito, quella costruzione eroica, per così dire, liquefatta nella fonction fabulatrice e quasi dissolta in una atmosfera nostalgicamente evocativa. Oppure alla sua percezione delle antiche radici indoeuropee che egli a tratti sfiorò, la «cuna del mondo», come ormai straniate e remotissime e proprio per questo affabulanti nelle sue letture da Aśvaghoṣa, il Dante del Buddhismo. Una lontananza spaziotemporale in cui «l’amico delle crisalidi» poneva la speranza folle e vana, e forse neppure davvero sentita, in quanto sopravanzata dalla libido moriendi, dello scampo alla «Signora vestita di nulla» – che non è una perifrasi euforica o compiaciuta, e rende la circostanza di non riuscire a proferire quel nome fin troppo presago dello stato conclusivo dell’essere.
È tipico dei grandi poeti: hanno una loro interna coerenza, che è sotterranea, altrimenti non sarebbe coerenza, ma banalità; e basta un minimo dettaglio perché, nell’interpretazione, quel quasi impercettibile lampo corra en vague, e si trasmetta e si rifletta lungo l’arco vastissimo del loro discorso, mutandone l’aspetto o la parvenza. Ma il rischio della sovrainterpretazione è sempre dietro l’angolo. In questo rischio non è mai incorso Umberto Eco, la cui madeleine non poteva che riportarlo agli anni Quaranta, tant’è vero che cita dall’Ipotesi. «Quest’oggi il mio sogno mi canta figure, parvenze tranquille / d’un giorno d’estate, nel mille e… novecento… quaranta». Attinge all’Ipotesi soltanto per questioni cronologiche? Combinando – con la data «molto di là da venire» – la tensione gozzaniana tra l’essere fermo al passato e la meno frequentata proiezione nel futuro, anch’esso evasione dall’ora, e sogno, per altro qui prosaico, dell’irrealizzabile? O piuttosto perché anche questa Bustina è presaga di un futuro che ci riguarda? E se dobbiamo stare, com’è sacrosanto che sia, ai «limiti dell’interpretazione» (imperativo che ha sensibilmente contribuito al rovesciamento di una maniera di pensare), sarà più difficile mettere i giusti limiti alla nostra commozione, ora che Eco non c’è più, mentre noi con passione non smettiamo di leggerlo.
Elisabetta Brizio