L’INCANTO DELL’ANGOSCIA NELLA POESIA DI RUFFILLI

L’INCANTO DELL’ANGOSCIA NELLA POESIA DI RUFFILLI

di Tommaso Di Dio

Sebbene questo libro affondi le radici nel lungo percorso pluridecennale di scrittura di Paolo Ruffilli, ciò che stupisce subito è che sia scritto con una grazia e una levità sorprendenti: quasi in un ritrovato candore. È come se tutto il percorso di scrittura del suo autore, il suo lavoro di saggista (ricordiamo i suoi lavori su Ippolito Nievo e su Leopardi), di narratore e di traduttore che ha costellato tutta la sua vita (di cui forse vale la pena ricordare la traduzione del fortunato libro Il profeta di Khalil Gibran nel 1989 e nel 2018 e il Gitanjali di Rabindranath Tagore del 1993) trovi qui in questo ultimo volume l’occasione di raccogliersi e di mostrarsi in una rara compattezza. Dico compattezza perché il libro Le cose del mondo (Mondadori, 2020) non è una semplice raccolta di poesia, ma un vero e proprio organismo unitario. Lo chiameremmo un “poema”, se questa parola non facesse un po’ tremare i polsi. E infatti l’autore non si azzarda ad usare questo termine e parla più cautamente di una «costruzione poematica» che ne sorregge i diversi capitoli. Eppure, a libro chiuso, l’impressione è questa — e lo dico anche un po’ come provocazione—: che Paolo Ruffilli abbia provato a fare un poema, ma con la lingua che la poesia del ‘900 ha assegnato alla lirica. Dal canto suo, la sua scrittura è sempre stata attratta dalla costruzione larga, architettonica, latamente poematica: certo, di una poematicità aerea, aneddotica, attraversata dal gusto del frammento. In fondo già il libro Piccola colazione edito da Garzanti nel 1987 e il di poco successivo Diario di Normandia (che vinse nel 1990 il prestigioso Premio Montale), per poi arrivare ad alcuni altri capitoli della sua opera in versi in cui ha lavorato in maniera assai interessante sul doppio binario della scrittura e dell’immagine fotografica (così ricordiamo Camera oscura del 1992 e il successivo del 1995, Nuvole, con foto di Fulvio Roiter) sono tutti lavori in cui la singola pagina trova un senso pieno solo nel trascorrere dell’intero libro, nel passo di testo in testo costruito dall’autore. Ma in questo volume lirica e costruzione poematica trovano un accordo davvero fortunato. Da questo matrimonio assai strano nasce il fascino anfibio di Le cose del mondo, libro che riesce a combinare in una solida unione i luoghi più intimi e privati (area solitamente appannaggio della poesia lirica) con quelli più oggettivi e direi comuni, pubblici, sotto gli occhi di tutti, anzi direi sulla “bocca di tutti”, che sono area di solito appannaggio del poema. È infatti un libro in cui l’io del poeta si dichiara padre, in una commovente e privatissima sezione dedicata alla figlia, un libro in cui si enumerano con dovizia di particolari le più nascoste parti del nostro corpo, eppure si ha sempre l’impressione che quell’io di cui Ruffilli scrive sia un Io universale, un io-maschera: non un eroe, ma un everyman — ecco un «io-defilato» (pag. 41), come scrive in una poesia di questo libro, dietro il quale c’è il volto di chi sta leggendo più che quello dell’autore. Ed ecco perché questo libro, se vogliamo stare nel gioco e continuarlo a chiamare poema, più che su di un personaggio, su di un eroe, è un poema su ciò che ci rivela nella nostra più profonda e collettiva umanità. Se infatti dovessimo prendere i temi su cui si fonda l’impalcatura testuale del libro dovremmo dire che questo è un poema sul viaggio e sul linguaggio: come se queste due realtà umane fossero inestricabilmente legate. È come se il libro volesse suggerire che il movimento nello spazio e la parola fra le generazioni fossero i due, unici, fondativi elementi essenziali dell’essere umano dell’umano. E non mi pare poco: oggi che proprio il nomadismo dei popoli è sotto attacco, oggi che la società della parola è continuamente minacciata dal brusio perpetuo di una parola vuota, fake, inerte e continua. Mi sembra che la poesia di Le cose del mondo prenda una decisa posizione in mezzo a questa tenaglia. Una cosa colpisce ancora il lettore ed è proprio l’unità direi melodico-gnomica del libro. Sembra davvero che ogni componimento sia una “stanza” in senso metrico. Sensazione che è favorita anche dal fatto che spesso in clausola, negli ultimi versi, è presente una assonanza, o anche a volte una rima, proprio come a volere imitare l’aurea struttura dell’ottava. Ma al di là della suggestione metrica, c’è una volontà gnomica che si concreta in una tendenza a far trovare il lettore alla fine del componimento davanti ad una verità, verità che era già nota, magari, ma della quale non si era fatta esperienza, non era stata vissuta con intensità: ecco, la poesia accompagna insomma il lettore alla scoperta del già noto. E se la cosa sembra una diminutio non vuole proprio esserlo: anzi, è il carattere assolutamente antinovecentesco, il carattere antico, non greco, ma indiano, sapienziale direi, della poesia di Ruffilli che porta la sua poesia a questo felice esito (e appunto qui forse si rivela il senso del suo essere stato traduttore). È un espediente così esibito che il lettore non può non accorgersene: «che bisogna intanto perdersi / per potersi  ritrovare» (pag. 16); oppure «però lo sperimento nell’atto di partire / che tanto o poco è già un morire» (pag. 26). Ma la strategia diventa ineludibile nella sezione eponima e in quella chiamata Atlante anatomico, in cui il mondo delle cose è descritto sempre proprio a partire dal linguaggio, dai veri e propri “luoghi linguistici”, dalle strutture idiomatiche che condividiamo già prima di leggere: la poesia di Ruffilli qui si rifà — per dirla con un’espressione di Vittorio Sereni — al «luogo comune e il suo rovescio». Penso a certi incipit, come quello di Denti: «Batterli e digrignarli asciutti / metterci qualcosa sotto» (pag. 150) oppure a quello di Naso: «Rizzarlo, torcerlo, arricciarlo / ficcarlo dove tira il lezzo» (pag. 156). Come se la poesia non fosse altro che esposizione alla verità comune, rivelazione non dominio, anonimato non conquista. A questo proposito, durante il video per la presentazione del Premio Napoli, l’autore ha fatto un’affermazione che mi ha colpito. Ha detto che questo libro è il resoconto «non strettamente autobiografico, ma per certi aspetti generazionale». In effetti a volere avvicinare Le cose del mondo ad altre opere recenti, si ritroverebbe tratti in comune con altri tentativi di autori più o meno coetanei in cui la lingua della lirica è stata tesa verso un’ideale narrativo-poematico. Penso per esempio a Giancarlo Pontiggia con il suo Il moto delle cose (Mondadori, 2017) oppure Il Conoscente di Umberto Fiori (Marcos y Marcos, 2019). Fra questi libri c’è a pensarci bene un sotterraneo dialogo. È come se dopo tanto laborioso Novecento, la poesia sia lì a mostrarci concluso il dissidio fra l’uomo e il linguaggio. Nel libro di Ruffilli la cosa si fa manifesta: la lingua si svolge musicale e senza attrito, con una sua fluvialità che nondimeno è calore, fucina. Come se il legame fra la cosa che emerge nel dire e il dire stesso fosse connaturato, sorgivo, contemporaneo: come se la lingua della poesia fosse capace di sottrarre le cose ad una latenza, come se le cose e la lingua appropriata per farle emergere fossero da sempre lì, in un’eternità sospesa. Nella poesia che apre la sezione Lingua di fuoco, troviamo questi versi: «Emerge su dal fondo, esonda la parola / lingua di fuoco a rompere il silenzio / a pronunciare netto al mondo / ciò che aspetta ancora nell’assenza» (pag. 173). Questa capacità della lingua di ospitare la cosa insieme alla sua espressione è chiamata «il magico reticolo del nome» e denuncia il superamento di una conflittualità di cui molti altri della sua generazione hanno fatto tesoro. Già il critico Stefano Giovanardi nell’introduzione alla sua poesia nell’antologia dei Poeti italiani del secondo Novecento nei Meridiani Mondadori curata insieme a Maurizio Cucchi nel 1996, parlò di una lingua antilirica e di un «esaurimento storico di una civiltà poetica: ovvero civiltà del sublime e dell’ineffabile». Eppure, non è una poesia questa che lascia inerti e tranquilli. Roland Barthes ha scritto, a riguardo del lavoro di Ruffilli, che «la forza di questa poesia è nell’angosciare il lettore, incantandolo». E c’è certamente una certa incantata crudeltà in questa poesia: che prende atto della fine in maniera immedicabile, senza che questa consapevolezza faccia venir meno ad una sua singolarissima levità, come se appunto questa mortalità crudele fosse inerente al dire che la dice, inerente a quell’essere che non può che pronunciarla. Per esempio, come non essere sgomenti di fronte ad un verso così: «Le persone muoiono e restano le cose» (pag. 105). Impassibile, perentorio, eppure lieve: sereno. Non è un caso allora che si trovi scritto che «La felicità / invece sempre si confonde con la dissolvenza stessa / la dissomiglianza di ogni cosa» (pag. 95). Felicità e dissolvenza si trovano uniti, sempre concordi, mai divisi, mai separati. Mi sembra che questi versi conducano in fine alla sequenza forse più potente del libro, ovvero la sequenza di interrogativi finali. Tutta l’ultima sezione è una serie di domande. Come se il poema del viaggio e del linguaggio non potesse che fermarsi sul momento dell’interrogazione come suo punto costitutivo. Domandare è lasciare aperto, lasciare ad altri: offrire ad un divenire, lasciare che le cose siano infine «felici».

Tommaso Di Dio

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