‘LA VERITÀ NASCOSTA’ DI CONTI

‘LA VERITÀ NASCOSTA’ DI CONTI

Iniziamo dal titolo: La verità nascosta di Alfredo Alessio Conti (Miano Editore). Sono – a mio avviso – due le ipotetiche chiavi di lettura: una riconduce alla celeberrima frase de “Il piccolo principe” di Saint-Exupery che, sebbene espressa in modo diverso (“L’essenziale è invisibile agli occhi”), simboleggia il medesimo concetto; l’altra, per certi aspetti diametralmente opposta, lascia supporre che il vero è accessibile ma qualcuno o qualcosa si ostina a volerlo occultare. Asserzione, quest’ultima, che può ricondurre a Pirandello ed allo stesso relativismo. Nel caso di Conti – nonostante la difformità delle due posizioni – ritengo si possa parlare di concordanza. Chiarisco prendendo in prestito pochi versi, tratti dalle Nuove Poesie (prima parte dell’opera). Da Perdersi, il solo “basta una carezza”: a cosa è sufficiente questa blandizia, questa non ben definita tenerezza? Ricorda, molto da vicino, il foscoliano “quando vaghe di lusinghe innanzi / a me non danzeran l’ore future”, ma è anche un fanciullesco (in termini non dispregiativi), pascoliano desiderio di ritrovarsi. Da Aprirò gli occhi la terna “scenderò / negli inferi / nel bene e nel male”, dove la visita all’inferno non è motivo di orfica disperazione bensì di più vaste vedute, dal momento che non viene tralasciato il bene o, quanto meno, la possibilità che il male possa fungere da tramite per la sua ricerca. Più avanti si parla di Attesa: “sull’altalena / della vita / come un acrobata / a piccoli passi / mi dirigo / alla meta…”, traguardo nuovamente indeterminato (altezza o profondità). Qui, tuttavia, ciò che interessa è l’equilibrio instabile, il “bilico”, come scrive il poeta stesso. Il dubbio è conditio sine qua non della fede: non si può credere a nulla se si è certi di tutto. Non si può riporre fiducia nella vita se si pensa di averne compreso ogni contraddittorietà. “Non c’è morte / che non ricordi la vita” – recita la chiusa di un’altra poesia -, un distico perentorio che mi spinge a rammentare e a riflettere ancora sull’intestazione dell’intera silloge. Il nascondimento, dunque, occorre paradossalmente al disvelamento della verità. L’asserzione sembrerebbe confutare entrambe le supposizioni interpretative dalle quali si era partiti, eppure non fa che avvalorarle qualora venga presa in considerazione l’eventualità (come, principiando, ho scritto) di una convergenza del pensiero poetante dell’autore. Il punto di vista può essere forse ulteriormente chiarito se si prende in esame un’altra lirica, Specchio, che riporto nella sua interezza: “Lo specchio riflette / il nulla / e / quando appaio / ho due facce / come nella vita. / Mi illudo / di essere / ciò che non sono. / Mi volto / e lo specchio / non esiste più”. Conti – guardandosi allo specchio – scopre di avere due facce, ma la rivelazione non lo turba in quanto è consapevole che lo stesso accade nella vita e, pur ingannandosi, vuole pensare che la sua vera immagine non è quella che gli rimanda il riverbero. È in quel preciso momento che lo specchio scompare. Perché? Perché ha terminato la sua funzione, che non è – come sembra evidente – quella di riflettere ma di farci riflettere. Siamo l’altro, siamo come gli altri ci vedono o tutti e due o niente di tutto questo? (il pirandelliano uno, nessuno e centomila). Ebbene – lo ribadisco – questa non è poetica della parzialità ma della totalità, per cui non ha senso perdersi se non per trovarsi nella stessa identica misura in cui non serve ritrovarsi per smarrirsi. Non ho dato – e me ne scuso – sufficiente spazio alla seconda parte del libro (dedicata a precedenti raccolte) per il semplice motivo che m’interessava mettere in evidenza, in questa sede, ciò che poi ho esposto. Desidero, pertanto, concludere con le parole del poeta che, in Sono! Vivo! (tratta da E in questo mal di vivere, 2002), così scrive: “Sono / una falena / grigia … // e in questo mal di vivere… // Vivo!”. Superfluo aggiungere altro.

Sandro Angelucci

alessandriatoday

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