LA POESIA CAMPO DI LACERANTI CONFLITTI IN REBORA

LA POESIA CAMPO DI LACERANTI CONFLITTI IN REBORA

“Poesia di sterco e di fiori” è uno dei più noti Frammenti lirici di Clemente Rebora da tempo sotto la lente degli studiosi per via delle questioni di metapoetica sollevate dall’autore e sulle quali vale la pena soffermarsi. L’opera che la contiene, pubblicata nel 1913, rappresenta senza dubbio una tappa fondamentale nella vicenda della poesia italiana novecentesca, uno snodo dal quale i successivi sviluppi hanno preso le mosse. L’autore era nato a Milano nel 1885 in una famiglia agiata, quinto di sette figli, da Enrico, direttore della ditta di trasporti Gondrand, libero pensatore fedele agli ideali mazziniani e risorgimentali e da Teresa Rinaldi, appassionata di musica e poesia (si dedicò all’educazione dei figli da lei incoraggiati a coltivare passioni letterarie e musicali). Dal liceo classico Clemente era passato prima alla Facoltà di Medicina di Pavia e successivamente alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Milano, che allora si chiamava Accademia Scientifico-Letteraria, dove vi aveva conosciuto coetanei appassionati di filosofia, letteratura, arti e musica che lo incoraggeranno e lo sosterranno nei suoi primi passi nel mondo della creazione poetica . La sua esistenza, fino ai trent’anni, fu quella di un giovane di larghissime letture filosofiche e letterarie e di fervore intellettuale. Si laurea nel 1910 ma stenta trovare una collocazione nel mondo accademico. Subito dopo e fino al 1915 si dedica all’insegnamento nelle scuole tecniche e, talora, in quelle serali tra Treviglio, Milano e Novara. In questi anni inizia un rapporto di collaborazione con la rivista «La voce» di Prezzolini, che nel 1913 pubblicò con una bassissima tiratura la prima raccolta raccolta di poesia del giovane insegnante, i Frammenti lirici.  Franco Fortini così racconta la genesi di quell’opera: «Le prime prove di Rebora sono probabilmente da situare intorno al 1905, sui suoi vent’anni. Ne parla in una lettera del 1909: “[…] mi sono convinto che le mie poesie non raggiungeranno forse mai l’arte” . Sono di quell’anno (mentre continua lo studio della musica), e in coincidenza con la stesura della tesi di laurea, l’incontro con Giovanni Boine e il primo contatto epistolare con Prezzolini e «La Voce». Alla data del 16 novembre 1911, scrive a Dania Malaguzzi e già intravvede il futuro titolo, sebbene nel senso limitativo – e successivamente respinto – di alcunché di disgregato e casuale: “S’io pubblicherò alcuni pochi frammenti lirici […]”(..) È quindi verisimile che la maggior parte dei Frammenti sia stata composta prima del 1912 anche se il lavoro di revisione e di nuova composizione ebbe a continuare ancora per diciassette mesi e fino alla immediata vigilia della stampa.» (da: Letteratura Italiana EinaudiLe Opere Vol. IV.I, a cura di Alberto Asor Rosa, Einaudi, Torino 1995, pp. 6-7). In che consiste questa raccolta? «I Frammenti lirici sono una serie ininterrotta di settantadue poesie, numerate con numeri romani (..). Dei 2327 versi, i settenari e gli endecasillabi – ossia i moduli metrici di massima frequenza nella tradizione italiana– sono 1418 (60,93 per cento 21 . Il 31,58 per cento è di ottonari, novenari e decasillabi ossia di versi che per numero di sillabe sono fra il settenario e l’endecasillabo. Solo il 7,47 per cento ossia 147 eccedono queste misure, con quadrisillabi, quinari, senari, dodecasillabi, versi di dodici posizioni, doppi settenari. Le composizioni si dividono in due modelli metrici: quelle riferibili alla tradizione, con forme strofiche regolari, che diremo “chiuse” e quelle invece “aperte”, dove i versi si succedono, tanto per la loro misura metrica quanto per le sequenze strofiche, senza riferimento ad uno schema fisso ma solo alludendo a taluni momenti della tradizione lirica, come i canti leopardiani, soprattutto i più tardi.» (Ibidem, p. 8). Sempre a proposito dei Frammenti, scrive Romano Luperini: «L’aspirazione reboriana alla totalità si scorge anche nel modo con cui sono disposti i settantadue frammenti del 1913. Il termine “frammenti” allude a un momento di pressione psicologica e morale, a uno scatto di verità che può essere solo isolato, ritagliandolo a forza dall’esistenza alienata della vita cittadina e dalla passività che può derivarne, anche su piano conoscitivo. Ma si tratta pur sempre di un “frammento” di qualcosa, in quanto deve alludere a una totalità, a una verità più generale. Per questo i frammenti sono collocati secondo un ordine preciso, sì da rendere questa aspirazione all’assoluto. D’altra parte per Rebora la poesia non è mai esercizio meramente letterario o consolatorio, bensì strumento di verità, tensione al conoscere e all’agire. E se in ciò si può scorgere traccia di una concezione della poesia come attività spiritualmente privilegiata (come lascia intendere il frammento XLIX) è per Rebora immaginata come servizio sociale caratterizzato dall’anonimato e rispondente non solo a un “odio per l’io” spiegabile ideologicamente e psicologicamente, ma a una precisa condizione sociale in cui si riflettono massificazione del ruolo e nuove richieste della società industriale» (Novecento,  Loescher, Torino 1991, vol. I, p. 233). Franco Fortini così commenta il testo citato: «Una poetica “di sterco e di fiori” (fr. XLIX, v. 31) esaltata di contraddizioni, fa della poesia, del suo verso “lucido”, “livido”, “inviolabile” (vv. I, 6, 11), un controcanto delle stagioni, la negazione del male ma anche la sua dichiarazione (“terror della vita, presenza di Dio”; v. 32); e la formula finale, esclamativa (la poesia è “cittadina del mondo catenata!”; v. 34) restituisce un’altra definizione di sé, cara a Rebora, quella della libertà nella prigionia “tre le catene” ottenuta per concrezione e accumulo di stilemi. Di qui il frequente ritorno dell’immagine di una energia anche fisica prigioniera e incatenata» (Op. cit., p. 19). La poetica dell’autore trova in questo frammento una sua esemplificazione contraddittoria, ma nello stesso tempo abbastanza chiara ed eloquente, anche se non semplice da decifrare, specialmente da parte di un lettore contemporaneo. La lingua letteraria di Rebora è il risultato di una deformazione della sintassi (proprio per questo viene considerato un poeta “espressionista”): alcuni verbi intransitivi vengono arbitrariamente resi come transitivi, (come “divampare” al quarto verso “Che speranze nell’occhio del cielo divampa”), altre volte i verbi si rifanno a un substrato linguistico più antico; è questo il caso del verbo stringere nel dodicesimo verso “tu stringi le forme”, il verso cardine intorno al quale ruota tutto il componimento, dove il verbo “stringere andrebbe reso oggi come “dare forma” con riferimento a quelle forme che, come l’autore afferma nel verso successivo “malvive svanivan” (e cioè che altrimenti sarebbero svanite). La figura dell’ossimoro svolge un ruolo fondamentale nell’economia di questa lirica, specialmente negli ultimi versi, imperniati sui contrasti tra gli opposti (O poesia di sterco e di fiori, / Terror della vita, presenza di Dio, / O morta e rinata”). La poesia, secondo l’autore, sarebbe “certezza del grande destino” e, nello stesso tempo, “cagnara e malizia e tristezza”. Il verso finale lascia intendere la contraddizione di fondo: la libertà nella prigionia, l’ansia metafisica, lo slancio a cui la poesia da forma ma che, in quello stesso istante, ne imprigiona quello slancio dentro quella determinata forma. Ma anche per questo i frammento in questione è uno dei più importanti di tutta la raccolta, la quale rappresentò uno spartiacque tra due epoche. A essere messa in questione evidentemente è la referenzialità del’io lirico, che diventa improvvisamente un orpello superfluo. La poesia è un campo di laceranti conflitti che prescindono dall’ego del poeta.

Ilvascellofantasma

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