ATTENTI ALL’INTELLETTO
La nuova raccolta di versi di Paolo Ruffilli viene in realtà da molto lontano. “Il nuovo libro”, come spiega l’autore in una breve nota anteposta a Le cose del mondo (Mondadori), “è l’esito di una lunga elaborazione, di un lavoro più che quarantennale. Ne è infatti origine e filo conduttore un progetto lontano ma rimasto sempre vivo, un progetto che risale agli ultimi anni Settanta e a cui ho tenuto fede per tutto questo tempo”. A dar retta al poeta non si tratta di una tappa tra le altre, dunque, ma di un lavoro che nel corso degli anni ha corrisposto alle sue premure più fondamentali: il rapporto tra cose e parole, il sentimento del cosiddetto “io”, l’orientamento e il senso della nostra vita. In quest’ambito si rischia sempre di sbagliare, ma la prima impressione è che l’impegno abbia riguardato non solo la selezione e l’organizzazione del tanto materiale disponibile (l’arco cronologico a cui appartengono le poesie si estende dal 1978 al 2019), ma anche la coerenza stilistica, l’inclinazione dello sguardo, l’intonazione della voce. Non si troverà qui infatti il Ruffilli che più conosciamo: il poeta che da Piccola colazione (1987) e Camera oscura (1992) è stato riconosciuto e apprezzato per la dimestichezza coi versi brevi e per il suo peculiare racconto solfeggiato o fischiettato, una specie di cantar ragionando efficacemente equilibrato tra grazia e scaltrezza, tra astuzia e noncuranza. Qui il verso è generalmente più lungo (tanti endecasillabi, ma anche versi più lunghi), come se il poeta, attribuendogli più peso, consistenza e, insomma, più corpo, avesse inteso conformarlo all’interesse di natura sostanziale che l’ha guidato nella composizione della raccolta. A tutta prima può apparire un fatto singolare. Contrariamente a quanto in genere avviene, infatti, Ruffilli impiega il verso breve per raccontare e quello più lungo per andare in profondità. Le cose del mondo è suddiviso in sei sezioni che equivalgono ad altrettanti comparti tematici. La prima, Nell’atto di partire, è una specie di poemetto per stazioni che può ricordare Le stanze della funicolare di Giorgio Caproni, che per altro di Ruffilli è da sempre il riferimento più importante. La seconda, Morale della favola, con la precedente forse la più riuscita del libro, riguarda le relazioni familiari, e dunque la vita coniugale e ancor più il rapporto con la figlia (“il mistero fitto dell’educazione”). La terza, intitolata La notte bianca, è rivolta invece al motivo dell’insonnia e delle meditazioni notturne, mentre le ultime tre riguardano rispettivamente le cose (è questa la sezione eponima), le parti del corpo (Atlante anatomico) e la lingua, a cominciare da quella della poesia, ovviamente (Lingua di fuoco, con un evidente rimando dantesco). Va solo aggiunto, a rimarcare l’architettura tematica che è di tutto il libro, che la quarta e la quinta sezione sono organizzate come un lessico per ordine alfabetico: Anello, Armadio, Astuccio, Bambola; oppure Ascelle, Bocca, Capelli, Caviglia, Cervello e avanti così. Il cuore della poesia di Ruffilli si può forse riconoscere nella sezione notturna, lì dove le ragioni della scrittura appaiono più esposte nel momento stesso in cui cercano di rendere ragione di sé. “È un’astrazione e non un fatto, / l’oggetto di un pensiero, / figura, idea, sogno o concetto / più che un reale sentimento”, scrive ad esempio. È vero allora che la tensione , se vogliamo la drammaticità di queste poesie deriva dal fatto che intendono celebrare la precedenza della realtà fenomenica, il primato della natura e della materia, la priorità della vita e, appunto, delle cose del mondo, ma attraverso percezioni e mezzi di natura affatto mentale, astratta, artificiosa. Il padre insegna alla figlia a dare credito alla realtà, a credere nell’imprevedibilità e nei diritti del vivente, ma di suo più che vivere pensa, riflette, si distacca convertendo tutto, croce e delizia, nei vicoli ciechi e nei cortocircuiti del pensiero. È dunque la notte bianca, è “la falsità dell’intelletto” il vero luogo e modo di questo poeta. Non le cose, il mondo, la vita, che saranno semmai il premio concesso ad altri dai suoi versi, ma la distanza, l’astrazione, i giri viziosi della mente, l’esilio nel linguaggio poetico. Non gli eventi o le persone particolari, ma l’analisi, l’indicazione di uno schema di comportamento, di un significato generale. E anzi: del significato. E di fatto nel sottotraccia della poesia di Ruffilli si avverte come uno strano tono, un’intonazione non del tutto trasparente che forse è riconducibile a questa sua – difficile definirla diversamente – cattiva coscienza. È come se nel gioco tra cose e parole il poeta non volesse mai farsi prendere con le mani nel sacco, quando poi proprio questa specie di dissimulazione diventa il suo tratto più originale e distintivo. Come definirlo? Ironia, sarcasmo, distacco, anche un po’ di perfidia e perfino di sadismo. Non è certo un poeta falso, né la sua poesia in falsetto; ma ecco qualcosa dell’uno e dell’altro aspetto sono presenti, nel senso che vengono attivati e messi a frutto. Non si tratta dunque di un difetto, ma di un modo di far reagire la lingua, di un risultato. In sostanza, di una fisionomia poetica. Questo poeta dà il suo meglio nella doppiezza, vale a dire quanto meno prende posizione facendosi portavoce di qualche causa buona e giusta. Non è un caso che il suo elemento qualificante sia una sintassi minuziosa, persino capziosa (spesso con giri di frase molto riusciti), nel suo rapporto di dare e avere con la misura del verso e con le tante rime collocabili giusto a metà tra malizia e saggezza. “È il pensiero che ti fa estraneo”, scrive Ruffilli. Il che a sua volta significa che è l’estraneità del pensiero a dare adito e sostanza alla sua poesia.
Corriere della Sera-La lettura