LE POESIE D’AMORE DI PARDINI
Questa plaquette di poesie d’amore di Nazario Pardini, Il sorriso del mare. Dieci poesie d’amore (Blu di Prussia Editore), nell’ampiezza di un sorriso marino, induce a immaginare una giornata nello scorrere dall’alba al tramonto, inaugurata dal sorgere del sole, trionfante e sovrano, fonte di un grande auspicio: “Vado spesso sul torrente / con la rete nelle mani, sperando / di catturare altre immagini di te / che in acqua te ne scorri indifferente / al mio bisogno di averti.”[Con la rete da pesca] notte totale, buia, pur in agguato rimane ancora remota. Appena comprendo, quindi, che l’innamorata è assente, torno con il pensiero a quando da ragazza leggevo le parole di Rabindranath Tagore: «Lei m’ha lasciato nell’ora in cui la notte / già si dilegua. / Il mio cuore cercava di consolarsi pensando / che tutto è vanità. “Tuttavia” mi dicevo / “questo nome tracciato era il suo, questo ventaglio / di foglie di palma, ricamato in seta rossa dalle sue dita, / non è forse cosa reale?”» [da Petali sulle ceneri]. Infatti Nazario Pardini scrive: “Ma tu ricordi? / O sei chiusa nell’oblio / voluto dalla vita. / Eppure eri tu, / quella sera, sul mare, / a disegnare un cuore / sperso chi sa dove ed io con te.” [Corri Delia!] Il mare delimitava l’orizzonte e «l’onda luccicava», mentre Delia correva lontano illuminata dalla luna. Ed ecco una sfumatura malinconica scendere, irresistibilmente, nell’abisso smarrito della primissima gioventù, dove l’antico suono di cui si trovava espressione era un desiderio all’epoca immaturo, anche se una sorta di magico accordo «accompagnava quella fuga / che facemmo inesperti»: “i primi baci, i primi approcci, / […] / quell’immagine sacra, le sue mosse, / i suoi lunghi monologhi, le grazie. “ [Il sorriso del mare] A quale grazia allude il poeta? Una volta Theodor Adorno ha scritto: «Basta ascoltare la voce di una donna al telefono per capire se essa è bella. Nel timbro della voce si concentrano e si riflettono […] tutti gli sguardi di ammirazione e di desiderio che le sono stati rivolti nel corso degli anni. Essa esprime il doppio significato della parola latina gratia». Ma ne Il sorriso del mare l’immagine evocata di Delia è silenziosa, le labbra sono serrate: il suo prolungato mutismo segna anche l’unico incontro di persona, dopo tanti anni, quando all’assenza di parole si accompagna però una indimenticabile luce nello sguardo. Trapela così, urgente, l’esigenza di concretizzare la memoria del riverbero dell’icona femminile sul mare: “Mi guardò / con un sorriso strano come fossi straniero. / Nei suoi occhi, / solo negli occhi, si rifletteva il mare / che la vide sbracciata quella sera / un po’ folle, in corsa sulla rena.” [Il sorriso del mare] Pare di ascoltarne l’eco diffusa, essendo l’orecchio – ancora con le parole di Adorno – «in grado di avvertire ciò che è proprio, in realtà, dell’occhio, poiché entrambi vivono dell’esperienza e dell’apprensione di una sola bellezza». La beltà di quelle «mani vergini», con le quali giocava ad «arruffarmi le chiome», entra nella serie dei flash visivi con i quali Pardini tenta di richiamare Delia attraverso l’immenso potere della memoria: nonostante l’aiuto di un’oggettualità mirata (la piazza, la panca, il libro di latino), la figura vagheggiata si sottrae all’abbraccio, forse rimproverando il suo amore giovanile di non aver imparato a riempire l’assenza con il ricordo durevole del passato. “Ho richiamato / tutto il potere delle mie memorie / a collocare il suo corpo / alla mia destra sulla stessa panca: / mi ha rivolto uno sguardo freddo e stanco / senza citare i giorni dell’amore / come se fosse ansiosa / della mia timidezza. Ho provato, / ora che sono esperto della vita, / a darle un bacio, a farle una carezza. / Ma mi è sfuggita di mano e fra le braccia / mi son trovato il vuoto.” [Il ricordo di Delia] La donna amata sfugge lasciando incolmabile quel «vuoto»: quasi fosse terminato l’intervallo in cui lui poteva ricompensarla dell’amore non fiorito, non manifestato, come allora avrebbe desiderato. Adesso, con il sentimento pronto a espandersi, lei scorre in un fluire continuo dell’acqua, «indifferente» al bisogno di «affogare» con la sua bocca nel cuore. Il gioco delle contraddizioni non sembra però casuale, rispondendo invece a una logica serrata e stringente che Nazario Pardini mostra di conoscere assai bene. Sempre per Adorno, alla felicità accade un evento analogo alla verità, vale a dire «non la si ha, ma ci si è», ossia: «Felicità non è che l’essere circondati, l’“esser dentro”, come un tempo nel grembo della madre. Ecco perché nessuno che sia felice può sapere di esserlo. Per vedere la felicità, dovrebbe uscirne […]. Fedele alla felicità è solo chi dice di essere stato felice. Il solo rapporto della coscienza alla felicità è la gratitudine: ed è ciò che costituisce la sua dignità incomparabile». Nei dieci componimenti de Il sorriso del mare rivivono i luoghi ideali del legame amoroso, accompagnati dal quesito costante: “sono qui; ma tu dove sei andata? / Dove sei, anima dei giorni miei?” [Dove sei] Da un verso all’altro, il ritmo degli invisibili passi di questo tragitto risuona armonioso, perseverante, e nell’intelaiatura logico-intuitiva richiama la canzone delle onde, immagine doppiamente metaforica che in Corri, Delia! assimila le battute lente e melodiose di una chitarra all’andare e venire ritmico dell’acqua sulla spiaggia. Ma come procede la poesia di Nazario Pardini in un simile cammino? Il nostro autore accompagna il destinatario del messaggio di mondo in mondo, lo trascina di apparenza in apparenza, nel dubbio angoscioso che Delia abbia dimenticato ogni cosa, a dispetto del luccicare di tanti specchi sinceri dove brillano ancora i suoi sorrisi nella forma di pensiero all’altezza di tornare frequentemente nel cuore: e chissà se lo spirito del poeta saprà imporsi, appoggiato sulla spalla di un torrente, pensoso sulla sponda del fiume, perso sulla riva del mare. Di pagina in pagina, di riga in riga, scopriamo come Pardini abbia costruito sapientemente un locus semantico privilegiato per noi lettori, lì ad immaginare di aver vissuto insieme nell’infinito di tale microcosmo, avendone condiviso un continuum di sentimenti appassionati, rattristati, feriti. Tra Dove sei e Non è più il tempo il poeta sembra accettare uno scacco personale ed esistenziale. Mentre «il cielo chiudeva una stagione», non abbiamo, purtroppo, occasioni ulteriori di bussare a una porta per chiedere: “Lasciami entrare”. Quasi in forma epistolare, scrive Pardini: «Scade l’ora, mia carissima Delia»; e se una volta, seduti vicini nell’intimità, gli attimi scomparivano tra scherzi e risate, nell’immediato la grandezza dell’eros non trova espressione in un chiarore adeguato: «noi patiamo il giorno che si oscura». Nell’apprezzare una dopo l’altra queste dieci poesie, avverto la sensazione di dover mettere in dubbio la sfera della veridicità terrena di un simile incanto amoroso, in quanto le strutture immaginifiche («ti amo di un amore che sa correre / più dei tuoi passi allegri sulla spiaggia») brillano sublimi al pari delle stelle, mentre il suo brivido vitale sfiora idealmente quello della loro polvere. Gli astri nel firmamento sono remoti: Delia, al contrario, parlava qui con noi, il volto lambito da una carezza, un bacio sfiorato, anche se, all’improvviso, si è interrotto il cammino comune all’autore e a chi lo ascoltava. Poi, riflettendo meglio, comprendo come sia tutto reale, altrimenti l’arco della vita – di nuovo sulla traccia delle parole di Tagore – si sarebbe «concluso per sempre», avrebbe fermato il «procedere del giorno», il «ritmo di colori», e non avremmo visto, come scrive Nazario Pardini, «il vinaccia, il giallo, ed il rubino» mischiarsi «insieme in immagini finali». Il tempo meteorologico scandisce la fine dell’estate e sconvolge il teatro naturale degli affetti: “Il cielo è bigio, le nubi si accavallano, / e il mare incattivito invia burrasche”.[Non è più il tempo] Ha inizio un nuovo periodo: “Lo vedo questo autunno, come / l’ultimo fiore che ti porsi il giorno / prima che il cielo si mutasse in notte.” [Dalla città è fuggito l’autunno] La stagione assomiglia all’ultimo omaggio floreale offerto alla fanciulla prima e non dopo «che il cielo si mutasse in notte». In un componimento raccolto nella silloge Dono d’amore, Tagore suggerisce: «Se il luminoso tramonto dei tuoi capelli / fosse sparito nel buio della disperazione, / l’ombra e il fiore della foresta / morirebbe nei suoi sogni». In Pardini, la spinta energica dell’eros alimenta la capacità di rimemorare, là dove «ricordarlo vale a ritornare»: “Ed io ti amo, / ti amo di un amore che sa correre / più dei tuoi passi allegri sulla spiaggia / dove azzardai lo sguardo / che a ricordarlo vale a ritornare / a quei giochi fugaci.” [Non è più il tempo] Gettata la rete in mare, i ricordi avanzano concreti: sotto la luce accesa il dolore trascorso risulta così forte da schiarire le sofferenze del presente, nella speranza possa emergere un sollievo alle angosce. L’amore tenace, assiduo, chiede di nuovo di essere ancora amato: ma per questo è necessario un patto con la donna, un rapporto di scambio e solidarietà. Non è tuttavia un’inversione di rotta nel percorso poetico dell’autore, in quanto Pardini chiude idealmente Il sorriso del mare con un richiamo a un’istanza di concretezza, fattualità, logica solidale (la stessa che caratterizza l’amore), idonea a veicolare il messaggio fondamentale del libro: “Io ti aiuto / e tu farai altrettanto; rinfrescare / varrà per noi riviverla, / tradire con gli spasimi l’oblio / che sempre più potente ci sommerge. / Non diciamo “ricordi”. Raccontiamo / le cose come stanno.” [Non è più il tempo]