RUFFILLI: TUTTE LE COSE DEL MONDO
Quaranta anni di vita e di poesia condensate in un volume: Le cose del mondo (Mondadori Editore). Non è poco, Paolo Ruffilli è consapevole della posta in gioco e avvisa il lettore alla prima pagina, prima che questi si immerga nella lettura. Lo sforzo compositivo è enorme, duecento pagine di poesie che vanno a comporre un’opera originale, da considerare e leggere come un insieme organico, per quanto articolato e complesso, disteso nel tempo ed elaborato giorno dopo giorno per decenni. Il lettore di questo volume, se già ne conosce e apprezza l’autore, arriverà all’ultima pagina e poi rileggerà e mediterà. Se invece non lo conosce, il consiglio è quello di non interrompere la lettura alle prime difficoltà: arrivato alla fine amerà o odierà, senza mezze misure, questa poesia così originale e particolare nella forma e nella sostanza. Alcuni dei temi trattati riecheggiano quelli affrontati in precedenti raccolte, alle quali idealmente questo volume si ricollega, accentuandone il carattere di riepilogo fondamentale. Trattandosi di decenni di lavoro poetico di un autore che osserva, ragiona, si interroga e scrive, la sua opera è inevitabilmente interconnessa. Questa raccolta contiene, come sempre in Ruffilli, una poesia che non è delicata, non è consolatoria, non è sentimentale, non è romantica, non è retorica. È tutto il contrario: tagliente, aspra e dura come una pietra di montagna. Non è una poesia di relazione; è introversa, riflessiva, tesa, concentrata, rapida, cerebrale, insomma è una poesia per solitari, per chi pensa il mondo e lo vive stando con un piede dentro e uno sempre fuori, in una posizione appartata che dà precisione e distacco alla visione. Si tratta di una posizione che comporta anche rinunce e difficoltà, difficile da tenere per la maggior parte di noi, ma anche di una posizione privilegiata se si vogliono capire davvero “le cose del mondo”, osservandole come sotto una lente di ingrandimento che rivela particolari che chi se ne va sicuro per strada non può notare, e forse non è nemmeno interessato a notare, perso nella rassicurante superficie delle cose. Ruffilli invece strappa il velo dipinto dell’apparenza e dell’illusione: il suo sguardo è penetrante, quasi ossessivo, non si ferma davanti a niente, scava nella realtà dell’uomo e del mondo e ce ne dà la sua visione iper-realistica, iper-dettagliata, molto vicina all’oggetto osservato; così, con questa precisione estrema, egli rivela a sé stesso e al lettore tutta la difficoltà, ambiguità, incertezza e fragilità della realtà del mondo e dell’umanità nella loro faticosa essenza. La lingua utilizzata è chiara e breve, sempre comprensibile, il lessico è sostenuto ma non oscuro, la sintassi è franta e ansiosa ma non difficile: per Ruffilli è così da sempre, il suo stile poetico è subito riconoscibile. Ma qui si tratta di poesie che, per la complessità dei temi affrontati e l’originalità del punto di vista, sono di comprensione spesso non immediata. Si tratta di testi che, dietro la brevità e la forma veloce e apparentemente semplice del verso, sono invece attentamente costruiti ed elaborati, quasi scolpiti, e perciò vanno letti con attenzione, magari riletti e anche meditati, altrimenti il lavoro di scavo che c’è dietro rischia di non essere percepito; al lettore è insomma richiesto uno sforzo di comprensione e direi anche di immedesimazione con l’autore e la sua ricerca, senza i quali si può avere l’impressione di restare come un po’ fuori della porta. Tutte le cose del mondo in un libro: l’infinita varietà dell’umano e del reale è impietosamente vivisezionata in questi versi, nei quali l’autore mette a nudo sé stesso, i suoi simili e il mondo, ma si tratta di una operazione compiuta con la pietà e la compassione di chi sa, al di là del proprio sentirsi un po’ straniero tra gli uomini, di essere comunque parte della realtà che descrive, ed è anche consapevole di non avere molte risposte da dare alle proprie domande. Un libro difficile, minuzioso, sottilmente angosciante, a tratti anche cattivo; ma allo stesso tempo alleggerito da qualche lampo di speranza, e soprattutto da una ironia che traspare continuamente dai versi, espressa in modi bizzarri ma comunque riconoscibile, e che spinge spesso al sorriso. Ironia accentuata dalle sporadiche rime, in genere negli ultimi versi, che l’autore inserisce, sembra quasi con personale divertimento, per concludere in modo fulminante e sottolineato il suo discorso ed evidenziare il carattere di sentenza delle sue poesie, emblemi immobili nella loro espressiva laconicità. Un libro non per tutti, una sfida che l’autore lancia al lettore e che vale la pena raccogliere pur nella oggettiva difficoltà della forma e della sostanza proposte, frutto di una lunga e sincera riflessione che alla fine risulta sempre illuminante e accattivante, per quanto poco consolatoria. Una raccolta fondamentale che è anche un invito a leggere le precedenti opere di Paolo Ruffilli, che non sono poche e sono molto variate, e nelle quali si ritrovano, in toni anche un po’ più distesi, molti dei temi, delle idee, delle forme, delle riflessioni, dei pensieri qui espressi.
Gabriel Gabrielli
È tornato Paolo Ruffilli con la poesia Le cose del mondo (Mondadori) che avvince, che ti trattiene come un abbraccio.
Versi che restano nel cuore, catturano lo spirito, fanno riflettere, mostrano persone e i loro amori, gli oggetti, i luoghi, le situazioni in una luce diversa; noi, il nostro essere nella malattia, nel quotidiano. Il viaggio di tante vite. E ti coglie quel brivido sottile che solo la grande poesia può dare.
Nel porsi in viaggio, prese le distanze
E tutte le misure per quello che si può,…
È proprio andando che si capisce
qual è il rovesciamento di ogni prospettiva.
…
E, poi, in procinto di partire:
il vuoto di ragioni, i futili motivi
di ogni viaggio. Il dubbio e…
Sono i versi iniziali delle prime poesie di questa raccolta, un’immagine potente e, se chiudi gli occhi vedi quel viandante, o te stesso, con spesso uguali perplessità e incertezze… Quasi come una controfigura. Forse.
Poco più avanti, a pag. 16: Ma, alla fine, mi rimetto in moto… La vita che continua…
Leggere questi versi fa sentire meno soli: il poeta sembra tenerti la mano e tu hai qualcuno accanto quando, magari, pensavi di non avere nessuno.
La stazione, immagine di pag. 34 con il suo bagaglio di umanità sofferente e rassegnata mostra scene che sono frammenti di vita, di scelte o non scelte. Immediata l’empatia verso questi soggetti e, quasi di conseguenza, verso te stesso se in quel momento ne hai necessità. Ciò unitamente alla considerazione che la vita vale la pena comunque di essere vissuta.
Verrebbe da soffermarsi su ogni verso, riflettere sui tanti perché senza risposta, sulla dolcezza soffusa a volte da lieve ironia, ma urge l’esigenza di andare oltre, poesia dopo poesia, nei viaggi reali o immaginari, nella vita con le sue stazioni, nel verso che trattiene la mano sulla pagina.
In quante di queste poesia ci si può riconoscere? Molte. Le parole ritrovate qui, dov’erano prima?
Paolo Ruffilli, il poeta che accompagna nel “viaggio”, che ti parla mostrandoti le cose del mondo, cose forse vissute senza guardarle
Ho letto cogliendo la poesia di Ruffilli come un dono, ho ripetuto adagio tanti versi, li ho letti sottraendoli dall’una o dalla’altra poesia. Per poi ricomporle.
La riflessione viene spontanea per me, che poeta non sono, e vorrei esserlo così le ripeto ad alta voce per ascoltarne la musicalità di ogni sillaba…
Una poesia garbata, osservatrice, maestra di vita, amica… tanto altro ancora.
Quanti deserti ho attraversato…
Mai, per un attimo neppure,
arreso all’evidenza della mia ferita…
Grazie per avere scritto questo libro.
Fosca Andraghetti
Qualche tempo fa ho visto un documentario su Vitaliano Brancati. C’era un treno che partiva e tornava in stazione, in poetica alternanza, e una voce fuori campo che recitava un suo pregevole scritto. Diceva (riassumo a memoria) che il mondo reale è sottile e siamo noi a dargli volume con la nostra immaginazione. Un frammento di grande emozione. La stessa che ho provato di nuovo, non a caso, leggendo (e rileggendo) il bel libro di Paolo Ruffilli Le cose del mondo (Mondadori) e, in particolare, quel capitolo iniziale che è “Nell’atto di partire”. Un viaggio interiore fatto di immagini fulminanti e sapienti riflessioni che hanno evocato tanti momenti vissuti nei miei “pellegrinaggi” a Roma, riscoperti grazie a quei versi. Parlo della Roma dei treni affollati, diurni e notturni, della Stazione Termini con quei “vinti” accasciati negli antri del Metrò e nelle scomode e oscure sale d’attesa. E poi di quegli sgomenti prima delle partenze, che il poeta ha reso così bene scandagliando le cavità e i labirinti della mente, i timori per il tuffo verso l’ignoto, con gli imprevisti e i disagi che mortificano la “pigrizia” del poeta: “Che stato di piacere / quello in cui, da fermi, / si segue con lo guardo / qualcuno in movimento / più lontano.” Viaggi e piccole avventure che, però, sappiamo ineluttabili, e che si impongono a chi voglia scoprire il mondo e confrontarsi con gli altri, ad aprire nuovi orizzonti, accrescere il bagaglio di esperienze che si sedimentano nell’anima e la rendono artisticamente feconda: “…un sesto senso che mi spinge, / la coscienza comunque fulminante /della scoperta più paradossale, / che bisogna intanto perdersi /per potersi davvero ritrovare”. Poesie che, per la loro tematica sono state accostate giustamente a Omero e al Dante della “Commedia”, e nelle quali ho trovato una continuità con le opere precedenti dell’autore e anche echi di Caproni e Rilke. Naturalmente il libro, maturato e scritto nell’arco di 40 anni, non si esaurisce solo in questo, ma si allarga ad altri aspetti dello scibile umano: agli affetti familiari più cari, come in quel dialogo immaginario con la figlia, sviscerato con la solita autenticità, mettendo in risalto i conflitti, le gelosie, i timori dettati dall’istinto di protezione, gli smarrimenti per ritrovarsi di colpo padre dopo esser stato figlio, il senso d’impotenza e l’inevitabile rassegnazione davanti alle implacabili leggi della natura. Una “confessione in pubblico”, come accadeva per il sentimento amoroso nell’altra splendida raccolta di Ruffilli Affari di cuore , e prima ancora in quel racconto per immagini, quell’album di famiglia che è La camera oscura. Per continuare con l’attenta osservazione (e trasfigurazione) del quotidiano. Di quelle “cose”, quegli oggetti che pur privi di libertà, in quanto sottoposti alla nostra tirannia, ci sopravviveranno e a cui è risparmiato il dolore, poiché “il tempo le consuma senza strazio”. Oggetti indistruttibili, o comunque longevi, dei quali il poeta si serve per il suo eterno gioco, rendendoli strumento della propria immaginazione e delle proprie visioni. Un ludico processo esteso, con grande originalità e fantasia, alle parti del corpo umano. Perlustrato e descritto anch’esso con dovizia di particolari anatomici e con spiegazioni di funzioni, come nella poesia dedicata alla Bocca: “Piena, ridente, amara, chiusa, cucita o asciutta… / è l’anticamera del cibo, è l’officina del linguaggio… / E labbra, lingua e denti, come lei sente e vuole, / ecco al lavoro in gruppo i suoi strumenti / per fare a pezzi e ingurgitare, insieme o sole, / tutte le cose e le persone anche a parole”. Il corpo, quindi, viene scomposto con una sorta di “dettagli cinematografici”, perché “Ogni parte del corpo chiede di essere / stanata e nominandola scaldata / sottratta al vuoto, ripresa e rianimata”. E quale modo migliore per farlo se non attingendo a tutte le potenzialità del linguaggio. Con un procedimento già messo in atto in Piccola colazione, con le parole pescate dai fondali della coscienza , dove smaniano le nostre inquietudini. Parole visionarie attraverso le quali, se non si può trovare un senso della realtà, si può almeno provare a rappresentarla. Perché la parola, quell’”eccitante che veniva da lontano”, è la grande risorsa del poeta, e gli è concessa per indagare il “concreto mondo” e renderglielo più sopportabile. Una nuova occasione per riflettere e porsi, con ironia e antiretorica, le eterne domande esistenziali. Riflessioni e domande che attraversano l’intera raccolta e in particolare la sezione “Notte bianca” e quella finale, “Lingua di fuoco”. Penso alla profondità dei versi di “Memoria” e di “Chiusi nel sogno” e agli interrogativi posti, ad esempio, in “Tracce”: “Da dove nasce, / prima ancora / di ritrovarci nati, / tutto quello che / – senza saperlo – / siamo stati?”. Domande destinate a restare senza risposta, se non quel riconoscimento del valore dell’esperienza che, pur fra i flutti violenti della vita e in prossimità del suo spaventoso traguardo, ci fa sentire stranamente più forti perché più consapevoli dei sentimenti e di quali siano le cose veramente importanti, capaci di comprendere che ognuno è artefice del proprio destino: “…che cosa può insegnarti l’esperienza? / Che ognuno è, contro l’apparenza, / l’autore della propria sorte… / comunque vada, rinuncia andando / per lo meno a tratti alla solidità del mondo / e alla lusinga forte del suo impero / fidando di pestare intanto il vuoto, / per non dimenticarti di aprire le tue porte / sul mistero della vita e della morte”.
Rossano Vittori