‘TARANTA’ DI VALERIA SEROFILLI

‘TARANTA’ DI VALERIA SEROFILLI

Valeria Serofilli, Taranta d’inchiostro (Oėdipus). La danza del ragno: “Corteggiamento in variopinto colore:/ non danzatore impacciato/ ma estatica taranta/ di colore in colore/ a farsi pavone.” Nel vertiginoso rincorrere colori anche il poeta potrebbe raggiungere l’arcobaleno che misterioso quando appare propone capricciosamente la musica del tocco, per spirali e girandole impazzite, quasi  inconsistenza rivelata in poco tempo. Ogni aspetto della realtà diviene complesso, multisfaccettato, multidirezionale e l’apertura al mondo ci appare poliedrica e multiforme, mentre il ragno diligentemente riesce a tessere quella tela che imprigiona senza pietà le vittime più variegate, e chiude un territorio dentro il quale ogni illusione svanisce per diventare astrattezza di luci e di ombre. Anche se il  sapere si approfondisce e si differenzia secondo gli schemi inarrestabili della contemporaneità, la poesia insegue le diversificazioni della conquista del segno e della parola, a tal punto  ramificati, che riesce difficile, se non impossibile, ricollocare tale frammentazione all’interno di un quadro sinottico che  ponga la parte in relazione al tutto. Tutto l’universo, che trovava, un tempo, una rappresentazione coerente nel soggetto, si riduce ora all’episodico, all’attimo di vita  esperito nell’immediatezza, nell’hic et nunc, cioè, ancora, nel frammento. Anche la poesia di Valeria Serofilli cerca e realizza quei parametri che rendono il verso immediata musica da recitare ed ascoltare, nella sublime unità delle iconografie ed in quella purezza estetica che sorge spontanea nel poeta che abbia alle sue spalle il bagaglio ricco e ponderoso di una cultura sempre alta. La punta dell’iceberg, abbagliante, sicuro, nasconde prodigiosamente l’incessante lavorio della ricerca, nelle sue varianti del “filato” che potrebbe rivelare l’ornato della valenza armoniosa. – “Taranta Penelope” : -Stufa di tessere, gettò via/ il suo fuso // prima pungendosi/ e mentre una goccia del suo sangue // irradiava/ l’intera trama per farne rosso arcobaleno/ tutti gridarono – Al fuoco –/ ma era solo la sua idea. L’intera silloge prende avvio dalla poesia d’amore “La notte della Taranta”(22 agosto 2015), un testo che rappresenta un significativo punto di snodo e al contempo un’evoluzione, seppure nell’ambito della continuità, della produzione e dell’ispirazione dell’autrice. Quale ragno mi ha morso?/Prova col nastrino colorato/ amore/ma tanto già ne conosco il nome/come già ne so l’antidoto:/tu il veleno / il contro veleno/la mia terapia coreutica/E abbracciati balliamo in pizzica lenta/ad uccidere un ragno che non c’è. Da questo spunto iniziale si giunge in seguito ad una valenza di portata universale quale l’allegoria della vita stessa, con i suoi nodi ed intrecci. Concetto già in nuce nell’esergo “siam tutti intrappolati in ragnatele tessute prima che nascessimo” (W. Faulkner) nonché della ragnatela della casualità e della potenzialità. In tale ottica la figura del ragno può avere varie funzioni a seconda del punto di vista del lettore. Chi è dunque il ragno? Serofilli pare identificarlo con il poeta, di per sé una sorta di demiurgo, il cui unico più alto equivalente è la figura dell’Eterno. Si veda ad esemplificazione di quanto sopra esposto il testo d’apertura “L’architetto” di cui riportiamo i versi a cui si è fatto riferimento. Tesseva un filo in più il ragno/come aggiungesse da poeta un altro verso/entrambi mattoni all’universo/al cospetto/dell’unico Architetto / il più/alto Maestro. Il testo citato è scritto in corsivo così come la poesia che chiude il volume, “Nell’ovattato silenzio”, venendo  a formare in tal modo una sorta di emblematica ring composition con la lirica iniziale. La poesia finale si contraddistingue anche per alcune scelte lessicali peculiari avvertendo in alcuni casi la necessità di coniare dei termini per esprimere anche foneticamente l’intento comunicativo, quale l’utilizzo del vocabolo “sprofondìo”. Si noti, anche sulla base di tali opzioni lessicali, il desiderio dell’autrice di essere all’interno di quella tela fascinosa che è costituita dalla sintassi e più in generale dalle regole linguistiche e al contempo la volontà e la necessità di ritagliarsi spazi di espressione libera e fuori schema. Stesso discorso vale per la descrizione attenta e puntuale della realtà a cui tuttavia la Serofilli aggiunge il fascino atavico dell’invenzione fantastica.  La libertà di rivivere il fantastico gioco della favola ha il pregio di fissare forme e linguaggi al di là delle dispersioni, degli spostamenti, in un’ottica di facile  riconoscimento, che mentalmente potremmo ripassare come cronaca, nella sua innovativa ricostruzione. Il tratto vertiginoso che ella descrive parte dal morso velenoso del ragno, ricalcando quella sindrome culturale di tipo isterico riscontrata nel sud Italia, che nella tradizione popolare è collegata ad una patologia che si riteneva essere causata proprio dal morso di ragni . I versi allora si ricamano intorno al termine tarantismo ricucendo però il contesto degli stati patologici che incidono sulla depressione, sulla malinconia, sulle immaginazioni che colpiscono prevalentemente le donne avvelenate, e scrive organizzando sapientemente circuiti che ripassano mentalmente la cronaca improvvisa dello stupore. Lasciando il capitolo intessuto nella ragnatela, ove “perle di saggezza senza scuola” scorrono nel luccichio di tramonti o di colori, ed i neuroni acquistano “onde in cielo ove l’ala non spezza il ricordo”, il poeta accompagna  ornati di memorie , tra  gli imprevisti di Ulisse e l’ansia di una scoperta, nell’ansimare del dettato e lo sgomento per l’intervento di Einstein. Sono brevi tratteggi elegantemente intrecciati, per comporre un racconto variegato ed efficacemente coordinato. Ed il cammino della sua parola  prosegue nei capitoli  che dedica a Luzi e il poeta e critico Giovani Luigi Paganelli: “Luziane” e “Paganelliane” , due delle cinque sezioni in cui si articola il libro, improvvisamente rientrando in quella atmosfera che potremmo dire di schematica sinteticità, ricca di memorie e di figure dagli effetti del chiaroscuro, in un  preciso approccio che sembra ricollegarsi a realtà scultoree, rinnovando una iconografia tradizionale, proposta nel segno rapido del verso martellante. La parola richiesta al maestro “si cristallizza nel momento della recisione/ dal sé / dall’altro, dal resto/ Questo da sempre temeva/ questo ormai sapeva/ nel momento in cui/ seppe più.” Prorompe in un sottile sibilo, intarsia figure, tra le scaglie dai variopinti riflessi, in una interrogazione ripetuta, per la quale incertezza e indecisione, tensione riflessiva e declinazione di pensiero  si alternano per intersecarsi nell’aderenza di un tema narrativo. Il sentimento allora restituisce  una realtà esistenziale  che si sviluppa nel ricordo, nelle figure che appaiono come uncini affilati, negli istanti fotografati tra quelle tensioni che hanno creato il linguaggio che non sfugge all’indicibile. Sorprendentemente Valeria Serofilli attraverso la scrittura propone lo sguardo rinnovato che trema alle visioni, tra i contorni ben definiti e l’inquietante campo che attraversa questo suo avvilupparsi alla ragnatela, semplicemente rappresentata e sempre presente nel susseguirsi delle pagine. C’è una forte vicinanza alla recita, qualcosa che dal fantasma gioca al tocco, al di fuori del dubbio del desiderio, al di fuori dell’inganno dei sensi, ed è la parola che traccia e che modula per legami di immagini e proiezione di metafore. “Sarà domani/  un altro risveglio:/ magari vedremo cedri dai terrazzi/ e saremo destati/ da inebriante profumo di zagare/-Entrerà luce bianca/ tra le lenzuola/ quando il tuo corpo / conchiglia/ mi accoglierà come perla.” – Nel giro di danza che accompagna queste poesie, in serrato susseguirsi di intermittenze musicali e sospensioni di miniature, il viaggio si conclude in un lasso di ritmi:  “Libertà di cavallo che a coda/ scaccia la mosca, questa volta il ragno/ Libertà di poeta/ contro militare costrizione/ di cui tu figlio, mi spiace,/a viverne l’eterna contraddizione.” Il senso dell’infinito vibra nelle leggere apparizioni o quando il personaggio narrante riesce a trasfigurarsi per immergersi in un perpetuo divenire altro, nel tentativo di abbandonare il  caos ed avvicinarsi sempre più all’esperienza poetica, che consiste quasi sempre nella sospensione della realtà. Particolarmente felice la simbologia, affidata a luoghi, ad animali, ad ambienti , ad oggetti umili e quotidiani, in un parallelo che suggerisce sviluppi espressivi di originale incisività, di solarità, di ricchissime esplosioni, di interrogativi emotivamente complessi.
Antonio  Spagnuolo

Postfazione

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