LA RICERCA DI CARLA PAOLINI

LA RICERCA DI CARLA PAOLINI

Anche in Moti Moventi (Controluna) Carla Paolini continua, dalla sua postazione defilata, un lavoro sulla parola, soprattutto su quello che la parola, anche singola e apparentemente celibe, produce, all’interno del testo da una parte, all’interno del corpo che la emette dall’altra. Ne avevo già parlato qualche anno fa QUI e QUI, in relazione soprattutto, all’epoca, a una poesia in cui “il linguaggio coagula ulteriormente attorno a parole affini o parenti” e dove la parola stessa è un oggetto manipolabile, concettualmente, fino a farne una sorta di installazione, un testo cioè in cui il senso non è necessariamente conclusivo senza che, come in tutte le installazioni che si rispettino, il lettore “intervenga”, ci metta del suo, il suo “senso” o almeno la sua perplessità. Tuttavia, rimanendo nel campo del significato, sia in “Elettroshock” che in “Installazioni”, l’aura criptica del testo era abbastanza agevolmente perforabile, il senso, per dirla con Eco, abbastanza univoco, era cioè minore il grado di discrezionalità (in senso etimologico del termine) lasciato al lettore. Là si partiva, insieme all’autrice e secondo le sue parole, da “questo embrione energetico, [la parola da cui] il pensiero struttura e specializza nuove sintassi. La sostanza espressiva si diffonde, disseminando segmenti come linfonodi messi a difesa delle sue intenzioni. L’organismo poetico addensa fisicità singolari, s’installa sulla pagina e accetta l’urgenza di esistere”.  Era perciò possibile e intrigante scoprire queste nuove sintassi (e nuovi sensi), cosa non facile senza una lettura “attiva”, che in fondo è ciò che bisognerebbe pretendere dalla poesia. Come si vede da certi termini isotopici (embrione, linfonodi, organismo, fisicità) centrale è il corpo emittente e anche ricevente forse vittima o succube, del linguaggio, ma comunque individuale, un corpo d’artista. In questo ultimo lavoro mi pare che Carla abbia portato il suo cammino, lungo la direttrice del linguaggio, verso una poesia che blandisce l’oscurità, persegue la stramatura del senso, sceglie una identità astratta, un corpo generico che può essere di tutti e di nessuno, emblema e tabù, e – checché ne dica la postfazione di Marina Grazioli – una poesia che annulla le dicotomie dialettiche, a favore semmai delle contraddizioni di questi “moti moventi”, della infelicità che essi comportano. Qui scompaiono infatti gran parte dei canonici punti di riferimento anche contrapposti, come astratto/concreto, soggetto/oggetto, interno/esterno (in relazione allo sguardo o all’identità),  ecc., tanto che qualsiasi vago accenno a qualcosa di oggettuale o concreto vira, all’interno della forma di cui dico dopo, verso l’astrazione, verso una “condizione senza parole”, una probabile aspirazione, condivisa con molti artisti contemporanei. Lungo la direttrice della forma invece, Paolini va verso una rigida struttura di otto versi apparentemente chiusa, poiché i tre puntini iniziali fanno intendere che l’agire, indicato in genere da un verbo d’azione in terza persona, abbia un suo precedente e quelli finali una qualche conseguenza, sono insomma tutt’altro che i puntini sospensivi della poesia crepuscolare (e quindi potremmo definire questo libro un poemetto, con una sua continuità). L’azione, come si diceva è attribuita a un terzo, sia esso persona, corpo, mente o meglio l’inscindibile unità di questi, il che pone definitivamente chi scrive fuori dal testo/contesto, in una posizione “fredda” come quella di uno spassionato entomologo che, come scrive Paolini nel proemio, “resta a guardare il moto scomposto di un sistema umano instabile, che si sposta lungo i percorsi inesplorati della sopravvivenza”. Ma mi pare di dover aggiungere che forse questi percorsi inesplorati non sono necessariamente preesistenti al linguaggio che li crea, che cioè “scoperta” e invenzione creativa vanno a sovrapporsi nella poesia di Carla, in questo sì deus ex machina risolutore (con la parola) dell’enigma colto in questo “moto scomposto”. Infatti tra lingua e forma, che è l’unica vera dicotomia del libro, va ad inserirsi un flusso di pensiero tanto teoricamente ininterrotto quanto causale (cioè derivante da un’azione – i primi cinque versi, l’osservazione, l’immagine) ed effettuale (cioè il reale pensiero che genera – i tre versi finali, la clausola, o se preferite, per dirla con l’I Qing, la sentenza), un flusso che, per poter mantenere una sua forza persuasiva contro l’esuberanza del linguaggio, in quella forma deve essere contenuto. Ne deriva una poesia di non facile lettura ma certo rigorosa e interessante, che richiede l’accettazione di un metodo di vedere le cose, di interpretare i segni anche accidentali, i moti anche involontari dell’essere che il corpo incarna anche come simbolo di un esserci del tutto laico (qui il divino è assente) cha attraversa la vita.

Giacomo Cerrai

Imperfetta ellisse

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