LA POESIA IN CAMMINO DI RUFFILLI
Per Paolo Ruffilli la poesia è qualcosa di mobile, perennemente in cammino, mai cristallizzata in una età, in un tempo o in uno spazio. E proprio per questo nel suo nuovo libro Le cose del mondo 1978-2019 (Mondadori), che raccoglie in qualche modo scegliendone una trama, individuandone un percorso, una lunga stagione poetica, non si ravvisa nulla di ultimativo; non è un bilancio – sarebbe una tentazione facile – né un’anamnesi, ma semmai un punto di ripartenza. L’uscire perenne di casa, il primo gesto, come dalla stessa poesia che inaugura la sezione significativamente titolata Nell’atto di partire («Nel porsi in viaggio, prese le distanze / e tutte le misure per quello che si può, / considerato l’angolo di fuga, l’impulso / di deriva andante dentro il vuoto…») è il gesto cauto e avventuroso che non può se non ripetersi circolarmente, all’inizio come alla fine di un componimento o di un libro. Ruffilli è un poeta del viaggio, viaggio che – questo emerge con maggior forza leggendolo nella sua continuità – ha direi caratterizzato soprattutto o quantomeno in modo più evidente la produzione matura, ma è il nocciolo da cui si muove tutto, sin dal principio, come si è appena visto. Partire non significa solo partire, e «senza mete», nudi «di fronte all’infinito», ma creare un orizzonte e di volta in volta interrogarlo nella sua mobilità, nel suo dispiegarsi fra ombra e luce, conoscenza e nascondimento, fino alla sempre momentanea sconfitta: «Di nuovo l’orizzonte, ecco, si ricrea / come mi accade sempre in questo posto /. Ma quello che si cerca ad ogni costo /– chissà mai perché – poi non ci appare». I «veri viaggiatori» baudelairiani che «partono per partire» e i cui desideri «hanno la formula delle nuvole» si ripresentano qui in una dimensione che non è più ovviamente quella romantica dei Fiori del male: nel mondo della complessità hanno forse affinato le loro illusioni e i loro slanci per chiedersi, questo è l’altro polo della poesia di Ruffilli, quale sia il rapporto tra il viaggio, magari mentale, nell’ipotesi di realtà o nell’immaginario, e le parole che lo generano: quale sia il senso della nominazione, del gesto che indica e riconosce – e forse conferisce un’esistenza più piena proprio perché inclinata sul bilico del dubbio. Poeta del viaggio e dell’interrogazione, della apparente riduzione stilistica in una potente e tuttavia autonoma riscoperta della lirica nell’antilirica di tradizione montaliana, Ruffilli sa affidarsi a un passo segretamente ritmato. Il gioco di rime è sempre discreto, come appena accennato; gli endecasillabi sono spesso celati, persino sepolti, per sorprenderci all’improvviso, in un breve momento, a voce spiegata. È una strategia che suona perseguita in tutta consapevolezza: così, in versi come «Solo tra le braccia della vita che rinasce / si spegne la sete di risposta al buio del mistero, / consegnati da se stessi al dolore e al desiderio / di un vuoto mai riempito per intero» è evidente anche solo nella rima una sorta di auto-riconoscimento in tonalità minore della voce, dopo tanti nomi, tante esperienze (tanti viaggi), perlustrazioni, interrogazioni al corpo, come corpo del poeta e corpo del linguaggio. Vengono in primo piano gli oggetti della mente e il mistero della realtà, o forse il suo seducente segreto da tentare, aggirare, forzare talvolta. Le cose del mondo raccoglie ed esalta una esperienza poetica importante, direi primaria, fra Novecento e Duemila: dove la poesia cerca nell’ombra le dimensioni di un essere malnoto, lo mette a fuoco, ne coglie, come nella scienza moderna, se non la realtà tangibile almeno l’eco, l’onda spazio temporale. Penso a questo proposito ai versi che fanno parte della sezione Lingua di fuoco, segnati come per una spinta liberatoria da una serie iterata di domande: «Qual è il colore / che più tace / nell’urlo del silenzio?… Da dove nasce, / prima ancora / di ritrovarci nata, / tutto quello che / – senza saperlo – / siamo già stati?…» La risposta è possibile, forse implicita, oltre la soglia appena superata: dove questa lirica che ha qualità e procedure filosofiche – e perché no, leopardiane – individua non tanto i punti fermi quanto il laborioso dover essere: «… ridare intanto fuoco all’energia vitale / prima che bruciata, dissolta e via soffiata / non stia risorta di nuovo generata».