LA POESIA DI PARRONCHI
Alessandro Parronchi, partito dalla stessa matrice simbolista dei compagni fiorentini (Mario Luzi e Piero Bigongiari), si distinse fin dall’inizio per il tono più colloquiale della sua poesia. Se i primi libri di versi, permeati di ricordi leopardiani e dell’esperienza ermetica (I giorni sensibili, 1941; I visi, 1943), rimandavano a quella che il poeta definiva ”attesa”, alla sospensione che era stata propria dell’ermetismo (Un’attesa, 1949), il successivo volume, che raccoglie le poesie dal 1950 al 1960, sia pur nell’influenza de Il giusto della vita di Luzi, fonde la tristezza dell’incertezza amorosa e del suo sperato riscatto, la severa considerazione sui disperati e amari tempi della nostra società (motivo questo prevalentemente sviluppato nella successiva, discorsiva e affermativa Pietà dell’atmosfera, del 1970), alla riscoperta passione per la vita, all’invito al Coraggio di vivere, omonimo titolo della raccolta pubblicata nel 1960. L’angoscia per il passaggio inevitabile dell’esistere si univa a un poter essere onirico fuori del tempo e a una difesa del vero, non disgiunto da una fede possibile, come unica scelta. Ma con il restringersi progressivo del mondo nell’incombere della vecchiaia e della morte, il linguaggio poetico si farà sempre più aspro e disincantato, mentre l’io poeta, legato ormai soltanto a pochi volti e a una contraddittoria passione per l’arte, non potrà prospettare a consolazione che l’illusoria ipotesi di un Replay (questo il titolo del volume del 1980) che ripresenti, dai frammenti della vita vissuta, un iter infine perfetto, depurato dagli orrori e dalle viltà dell’esistenza reale. In Climax inevitabile (una raccolta, uscita nel 1990, delle poesie dell’ultimo decennio, a conferma di un’obbligatoria regolare cadenza) si acuiscono il senso della morte, il rimorso, il rifiuto per ogni narcisistico amore, ma anche la proiezione verso una vita rinnovata, che, nel passaggio dalla Venere terrestre a quella celeste, accetti di chiudere il passato o di aprirsi all’inconoscibile, mentre su tutto si tende l’antica variazione del tempo (Prime e ultimissime, con disegni di V. Venturi, 1981).