LA POESIA DI PATRIZIA VALDUGA

LA POESIA DI PATRIZIA VALDUGA

Considerazioni critiche e psico-neuroestetiche sulla poesia di Patrizia Valduga

Quella di Patrizia Valduga è la voce poetica più scandalosa della poesia italiana degli ultimi decenni – e non lo dico per i contenuti esplicitamente sessuali che punteggiano, qua e là, parte della sua opera o, addirittura, ne costituiscono il nerbo, ma per il coraggio di riproporre, in piena post-modernità, le forme e gli stilemi di una tradizione letteraria dalle complesse connotazioni, senza che ne abbia avuto a soffrire l’attualità delle tematiche affrontate.  Certamente l’impietosa revisione che il “Nuovo Realismo” di Maurizio Ferraris[1] ha imposto all’anarchismo teoretico imperante negli ultimi decenni, suggerisce di verificare l’esperienza del cosiddetto “ritorno alle forme chiuse” della poesia alla luce di nuovi metodi di ricerca. A questo fine, dopo aver percorso, commentandola sotto il profilo della teoria della ricezione in letteratura per come elaborata da Hans Robert Jauss[2], la parte, a mio avviso, più significativa dell’opera valdughiana, ho svolto alcune considerazioni generali sul problema “esperienza psico-neuroestetica versus esperienza linguistica”. A dispetto del titolo, Medicamenta e altri medicamenta (edizione Einaudi del 1989) è un condensato di ricognizioni anamnestiche, semeiotiche e diagnostiche che mai approdano a una terapia: tutto è e resta dolorosamente immedicato. Se  è vero che “sa sedurre la carne la parola” (esergo e pag. 24), si tratta, in ogni caso, di una parola che, appunto seducendo, istituisce e cristallizza squilibri relazionali, all’interno dei quali l’una parte tende a dominare l’altra. Il quinto libro della Torah si apre con “devarím” (parole), dove il singolare “dever” può indicare anche una pandemia infettiva: si tratta, dunque, di un termine allusivamente mortifero (“ne uccide più la lingua della spada…”). Quando, poi, la seduzione si accoppia alla “simulazione” (pag. 10), palese è la volontà di utilizzare l’altro come mezzo e non come fine, sovvertendo l’aureo precetto kantiano. Le conseguenze sono il retrarsi, dalla persona, dell’”élan vital” e un involuto cadere nella senescenza fisica e spirituale (l’“Invecchio”, a 36 anni, di pag. 20). L’evocazione, a pag. 41, di San Juan de la Cruz: (“¡cuan delicatamente me enamoras!” di Llama de Amor Viva), si volge in foia bacchica, con il sentimento che degenera, permutandosi in un “indecentemente m’innamori”. A questo punto la poetessa s’interroga: “sarà mia colpa se è così” (“ibidem”), proponendo un tema che verrà ripreso a pag.  81 (“Vita non sono mia, ma del peccato”). L’autoflagellazione, di ascendenza iberico-barocca, non ha, tuttavia, consistenza e ragion d’essere in sede psicanalitica, laddove si medica, non si giudica (si ricordi l’evangelico “non giudicate, affinché non siate giudicati[3], perché “non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati[4]). E se, nei versi, è dato cogliere un anelito al riscatto per la via dei sensi (“Ti adorerò, Gesù, con atti osceni” – pag. 53 – e “mia croce, mio sacramentale amico” – pag. 71), un’apocatastasi in cui il divino si riconcilia col luciferino (il nient’affatto banale riscontro si può ottenere esplorando la dimensione erotica – e, perfino, oscena – della teologia cristiana[5]), la ricaduta in una vorticosa dipendenza genitale si ripropone, coattivamente, al modo della conclusione dello Eyes wide shut di Kubrick, del 1999, là dove si proclama, nella bolgia dantesca di un consumismo natalizio “made in USA”: “Una cosa importante da fare il prima possibile: scopare”, cui fa da “pendant” il Capodanno valdughiano di pag. 72:  “E l’anno con che scherno si diparte / [e] pur si scopa”, senza che mai la cateratta riesca a fluire in una turbina generatrice di energia positiva. Il mancato accesso, inibito dalla pudica ritrosia e dalla profonda dimensione mistica della poetessa (novella Marina-Malombra), alle “trombe della solarità” e il racchiudersi di lei in assillati “cori battenti” – oggetti di un conflitto intrapsichico “esotermico” – esplodono in accessi di “manìa” libidica, anticipati da seduzioni e fascinazioni (“fascinum”, in latino, è termine collegato, fra l’altro, con “pene”!), pur tradotte in adamantini endecasillabi. L’esibizione genitale, azzerata ogni mimesi, tra fescennino e tragedia, rinvia a chiari modelli di ascendenza rinascimentale e barocca (dall’Aretino o da Giorgio Baffo sino a John Wilmot), mentre l’altro versante estetico-etico del Rinascimento, quello del Castiglione, che tanto più apprezzava il Boccaccio quanto più questi si sforzava “d’esser più culto e castigato[6], risulta espunto dalla prospettiva della poetessa. La prigione erotica della Valduga ha in sé, tuttavia, anche qualcosa eroico, di prometeico, richiamando, per la sua devoluzione a un sacrificio di tragica coerenza, la scelta dell’amato Holan, autorecluso nella sua abitazione dopo aver esperito le frodi della politica.  La poetessa si definisce, alludendo a costrutti biblici (cf. l’”uomo dei dolori[7]), “donna di dolori”, ma anche “donna bambina […] sempre presa da trippe e budellame [… in] giorni di guerra […] a vedere come senza esche o trame [realismo o spietato cinismo? – vedasi quanto, sopra, a proposito della seduzione e della simulazione, N.d.R.] / poco lega l’amoroso legame”, onde ciò che resta è ”un annientato niente”: dichiarato stigma d’inacidito nichilismo (pag. 75). Il dialogo con la sua “piccola anima” (cf. l’”animula” adrianea), la conduce, di nuovo, ad approdi mistici: “Signore caro, tu vedi il mio stato, / vedi che ho l’avvenire nel passato” (siamo, di nuovo, a pag. 81), con una reminiscenza dal michelangiolesco “Signor mie caro[8] e una citazione, a distanza di  ventidue anni, del Tenco di “Un giorno dopo l’altro” (“Ma i sogni sono ancora sogni / e l’avvenire è ormai quasi passato”). Quanto all’afasia poetica di pag. 47, si tratta di ”parole […] che non sanno far niente”, ma l’angosciosa perdizione nell’ineffabile tanto spaventerà, ventinove anni dopo, da suscitare, in “Per sguardi e per parole” (pp. 55-56)[9], una veemente reprimenda: “’Impossibile a descriversi’, che brutte parole: un grande scrittore non dovrebbe scrivere parole simili, non dovrebbe neppure pensarle. Per chi ha scelto la lingua come mezzo di espressioni, non possono esistere l’indicibile, l’ineffabile; a maggior ragione se pratica anche la poesia: ‘nulla [”vaste programme!”, considerato che “There are more things in Heaven and Earth, Horatio, / than dream of in your philosophy…”, N.d.R.] al mondo è che non possano i versiinsegna Petrarca” – e dagli giù a Pasolini, non senza qualche ragione, peraltro, essendo stato il friulano, anche a mio personalissimo giudizio, sopravvalutato come poeta. Ma se tutto può dirsi, perché mai, ancora in esergo, a pag. 63, citare il Qohelet di “Si stanca qualsiasi parola / di più non puoi fargli dire”? Trionfo, ancora tutto postmodermo, dell’incoerenza. In Cento quartine e altre storie d’amore la Valduga (Einaudi, 1997), proponendo un esergo dal “Tristano e Isotta” di Wagner, ci ricorda l’invocazione degli amanti alla Notte affinché, nell’estasi della passione, vengano tolti dal mondo (a contrasto viene in mente l’invocazione di Gesù – nell’occasione impeccabile razionalista  – al Padre: “Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno[10]: non ci si aliena, infatti, dal mondo, neanche nel vortice orgastico, poiché anche questo è parte del “mondo”). L’esclamazione “sei così bello!” della  terza quartina è un chiaro rimando al faustiano “Verweile doch, du bist so schön”. La quinta ci offre un’entusiastica ripresa (“Baciami; dammi cento baci, e mille”) del catulliano “Da mi basia mille, deinde centum”. L’undicesima ci trascina in una dimensione apprensiva che si autoalimenta in una coazione a ripetere fomentata da un coacervo di “Io multipli”: babelici, famelici, diabolici, nel senso etimologico greco (“diabàllein” vuol dire separare, scindere, frammentare – nei Vangeli sinottici ad es. in Mc 5, 9, e il demonio, lo spirito immondo, si frammenta in “legione”), laddove ciascuno di quegli “Io” vien fatto agire in alternanza, in modo da diluire i sensi di colpa. Alla dodicesima la Valduga esibisce, impietosamente, la sua “mente malata”, che soltanto le parole (ma quali mai? – eventualmente quelle di un sagace psicananalista…) potrebbero sanare. La visione del rapporto amoroso che si propone nelle quartine quattordicesima, ventottesima e trentaquattresima è quella di un becero maschilismo “cretino”, tutto teso a definire la donna che attinge il piacere sessuale, all’interno di una relazione arcaica, di tipo asimmetrico, come una “troia”, con la fallace ipotesi che “sola garanzia di vita [possa essere una] malattia quasi mortale”: versi di un algore spaventoso, corrispondenti a una visione del femminile tipica dei consumatori di pornografia. Un esplicito richiamo al Qohelet (1, 18: “dove è molta scienza è molto cruccio, e crescendo il sapere cresce il dolore[11]) viene porto con un folgorante endecasillabo: “è sempre chi più sa che ha più dolore” nella quartina sedicesima. La settantatreesima celebra una prossimità degli amanti che cela la minaccia: “salvati se puoi” (il “prends garde à toi” della Carmen di Meilhac/Halévy/Bizet). Nella centodecima s’invoca la morte della morte (“ero mors tua, o mors”, al modo del profeta biblico Osea, marito della ierodula Gomer[12]).  I poemetti in terza rima, de La tentazione, che risalgono al periodo 1982-85 e vengono riuniti alle Quartine, s’aprono, vigorosamente, con un duplice omaggio: all’amato Juan de la Cruz (“notte oscura”) e al Buonarroti (“la vergogna dura”), premesse a una dichiarazione di pristina pudicizia, mentre, a contrasto, si colloca il “delicatamente” dello Spagnolo in una situazione orgiastica cui si giustappone un’accorata petizione, rivolta a Dio, di perdono, mentre l’onta s’addensa in un intollerabile “schifo”. Poi, di nuovo, un’allusione a Juan (“dolce pena” versus “dulce encuentro”), seguita da una letterale citazione (“Pàrtiti, va’ via”) della LXXII rima dantesca e da un serrato dialogo con la propria anima, (cf. il “ba” del “Dialogo di un disperato con la propria anima[13] e la già citata, adrianea ”animula vagula blandula” [il contesto è identico nei due testi]). E’ del 1998 Prima antologia (Einaudi), che mette insieme Donna di dolori, Monologo, del 1991, e Corsia degli incurabili, del 1996. La prima delle due raccolte, che porta, in esergo, un brano tratto dal Geremia biblico di Gerard Manley Hopkins[14], introduce, appunto, un Monologo che può immaginarsi come riferito al video di un’installazione concettuale in cui è rappresentata una donna “morta sotterrata allo stato colliquativo” e, insieme, “viva a grandezza naturale” – il cui viso non deve vedersi mai interamente (evidentissima metafora di un “Sé incoeso[15], di un Io frammentato, sèguito probabile di un rispecchiamento mancato della Vanduga in una madre anempatica e preludio a un’evidente condizione di “Reactive Attachment Disorder” [RAD][16]). Il titolo della prima silloge attiene al dolente, salvifico “Servo di YHWH[17]. I temi crudamente genitali, altrove largamente esibiti, qui si dissolvono e risolvono in una concentrata riflessione sulle tarme che rodono il tessuto affettivo, alle quali sembra resistere soltanto “la mente. Insperatamente / la mente resta”. Ma non è così: quel che salva può essere solo l’intelligenza, non la mente, che avrebbe bisogno – più che di “pietà” – di compassione, nel senso evangelico più vero e commovente del termine[18] . “Se impazzisco non fatemi del male / non fatemi del male, per favore” – ma cosa dire a una persona che pazza mai è stata e sarà, ma che ha commesso il “seul crime[19] di essere “stata una sentimentale” e di “sbagliare ancora e ancora e così via”? Da parte nostra: nulla dire, ma riflettere e agire. E qui mi piace immaginare Gesù che, dopo aver detto all’adultera: “non peccare più”,[20] se la ritrova il giorno dopo, ugualmente accusata, come il giorno avanti, di “pornéia”; cosa mai avrebbe egli fatto, se non attenersi al suo precetto di condonare sempre, senza riserve, “settanta volte sette” la colpa?[21] Se la mente non ha potuto o saputo (o “voluto”, per autoinganno inconscio, per incapacità di comprendere) dar luogo a una coerente “Bildung” etica (alla quale non riescono ad accedere quanti sono affetti da RAD, specialmente nella variante cosiddetta “dishinibited”), ecco materializzarsi, dattorno, “luridi… avvoltoi… topi… delinquenti… morti” in forma di “zombi”, di sesso sitibondi e sangue (cf. L’entrata di Cristo a Bruxelles di James Ensor – 1889). Persa la fede in se stessi[22], non si può che, pur normali (di una normalità, certo, acerbamente dolorosa), soffrire di una tensione mai risolta, ricorrendo, eventualmente e per saltuari compensi, a degradanti compromissioni sessuali, a tradimenti del senso – di quel senso che, disperso, si nega al richiamo della memoria (“Nihil est intellectu quod pria / quod pria… e dopo?” si chiede invano Patrizia, che ha ripreso a bere). E vengono fuori un cuore di “bambina… piccola e senza radici”, oggetto di violenza sessuale, e lo spasmo di un inganno che rinnovella un disperato dolore. L’appello al Pascoli e al Rebora (entrambi consentanei, nella loro vastità lirica – il secondo perfino nelle sue minute corrività religiose, stilisticamente e concettualmente discutibili), il cui tono poetico, elevato, l’autrice oppone al  “piccolo cinismo” montaliano, si configura come ancora di salvezza. Macerazione (pseudo-)masochistica, carne viva, abrasa ed uncinata: l’oltraggioso meccanismo ad orologeria di un “ Fammi a pezzi! Di più! Pesta il mio cuore! / ma resta!”, subito frustrato dal maschilista “Vogliamo scherzare? / Io sono l’uomo che… non può restare”, è la messa in scena di una tragedia senza “deus ex machina”, senza catarsi, senza “medicamenta”. Se i precedenti versi “Amore, amore mio, sei ancora li? / E’ me che vuoi, amore, o è qualcos’altro? /  Vuoi aprirmi di nuovo la ferita? [siamo di fronte a una tipica situazione di  “double bind”, alla Gregory Bateson[23], N.d.R.] / Tu dicevi che mi avresti guarita, [ma non è che sua madre non volesse; non poteva: la RAD si trasmette longitudinalmente attraverso le generazioni fino a che qualcuno, lucidamente, sapientemente non si dà a sconfiggerla, avendone preso  coscienza, N.d.R.] / mi lasci invece sola come un cane […] Oh Patrizia, non c’è solo il piacere, / e la carne… la carne non è tutto [può esserlo, tuttavia, se ogni altra cosa è stata tolta, N.d.R….] e il viso di mia madre […] mi spaventa” debbano riferirsi – come ardisco presumere sia – a un’incongrua figura materna, ne dirò, forse, un’altra volta . E se la “sōtería” non è giunta, se l’inferno non si è trasmutato almeno in purgatorio e la tortura s’è incistata, con irritante, irridente, dolorosa continuità, perché i chirurghi dell’anima non l’asportarono? Fossero bastati “calma e sangue freddo” (ma quali mai?)… Marx e Freud (potentissimi stimoli intellettuali) possono aiutare, certo, ma quel che occorreva non erano pannicelli caldi, liturgie “dei morti per i vivi” (macché! Gesù, fondatore della polemica anticlericale [vedasi la parabola del Samaritano, israelita eretico “par excellence”], ammoniva: ”lascia che i morti[-vivi] seppelliscano i loro [genitori] morti[-morti]”[24]), sibbene lucidissime “memorie dal sottosuolo” (“sottoterra” dice la Valduga) conseguite a sagaci ricognizioni nel profondo, almeno sulla scorta delle parole “placenta”, “il viso di mia madre morta” e “Bambin Gesù” (il più innocente della Storia, come in lei stessa e Saramago[25]). E ai “morti… vivi… divisi! E i redivivi / e chi ha il cancro gli in coma  i semivivi”, corte dei miracoli mancati, dei fallimenti di Dio, si oppongono pascolianamente, in un conato consolatorio, i “cari morti”, che, tuttavia, subito di mutano, nell’inconscio, in cadaveriche, orribili salamoie (“aringhe sottoterra”). E, ancora una volta, appaiono, in altorilievo, “tangheri egoisti”, amalgamati e, insieme, opposti ai suoi dolori. Fanno seguito “migrazioni di vermi… verso est… / migrano in linea retta… Nihil est / in intellectu… quod prius non pria… / Il mio latino che se ne va via / insieme con la testa”. Non è Atropo “la vecchia con le forbici”, ma colei che, da madre, avrebbe dovuto filare la vita per gestazione (“par[i]ca”) affettiva, oltre che biologica: Cloto, quindi. Tragica agnizione: “brutta cialtrona!” – ma perché prendersela, allora, con Elvio?[26] Altro che “notte serena”, è “nera notte. Nera. 1985-1990. Amate quod eritis” (S. Agostino), ma a lei non sarebbe stato concesso di riuscire ad amarsi. Carteggio, cornucopia mirifica di stile. Corsia degli incurabili: fa la sua felicissima, sdegnata comparsa, al proscenio (“utinam!”), l’invettiva civile: dantesca e, insieme, pariniana e alfieriana e foscoliana. L’”incipit”, quasi viatico, è rivolto alla Maria dell’”Ave” e delle litanie lauretane, ripartite con intenso, compunto raccoglimento; ma, di lì a poco, arriveranno sacrosantissime mazzate (siamo a un livello alto di pubblica moralità). Ce n’è, dapprima “allegramente”, dipoi, “con violenza” gesuana[27] – “et pour cause et à juste titre” –, per tutti: da un “Direttore del Corriere”, che inguanta i commenti politici con interventi di “qualche troia ignorante e cretina” (e correlata fauna di ”opinion makers, sponsors, promoters e followers”: bestiario mediatico decisamente inestinguibile – lei scrive nel 1996!) agli stupratori della lingua di Dante, ai “Dulcamara” della pan-taumaturgica medicina, agli “homunculi” di una politica (“Ahi! Serva Italia ancora coi fascisti / e con quell’imbroglione da operetta, / ladruncolo lacchè dei tangentisti”) fattasi araba fenice per tutte le stagioni. Una folla di fameliche maschere (e qui richiamo ancora “L’entrée du Christ à Bruxelles” di Ensor), assedia l’autrice; fino alla calunnia!: “E’ spaventoso quel che ho di nemici / e di diffamatori a chi a chi più può… / tutti invidiosi, furiosi, infelici… // Persino a dire che non so il francese, / che a tradurre non ero io, no, no… / E’ forse la peggiore delle offese. // Oh diffamate pure! Tanto ormai… / Ormai, più su, dentro il cielo profondo, / l’azzurro indugia… più azzurro che mai... […] Scrivete per snobismo, voi, per moda, / voi volete la gloria, voi il successo. […] Il vero ‘terminale’, in fede mia, è chi ama Benni, la Tamaro, Eco… / chi palpita per la similpoesia… […] / Io  potrei dire una cosa terribile // e  mi vendicherei di più di mille. […] Qua fuori, più di mille berlusconi / aspettano che muoia… hanno una fretta!… / il posto letto… i miei organi buoni”. Aggiungere qualcosa a tali versi è profanare. “Tutti hanno torto e tutti hanno ragione” è un altro “punto di sella” (geometria non euclidea in fisica: massimo potenziale, tuttavia, per un ipotetico cavaliere, nella direzione destra-sinistra e minimo per la direzione avanti-indietro – ma bisogna pur scegliere e scendere da quel punto…). Si termina con un’unica figura indiscutibilmente positiva (a livello conscio): “tu mi sorridi, padre mio, lo sento… / tu mi proteggi ancora… mi fai segno…”, mentre, pigolando sempre più piano, Patrizia invoca un lenente perdono. Segue Quartine, seconda centuria (Einaudi, 2001), che s’apre con una citazione dal Belli che, in qualche modo, allude a sempre attive, coattive, ineludibili ossessioni; così che, bellianamente (sonetto Capa), vengon fuori, tenendosi per mano, “peccato e penitenza” (rima, in Belli, con “schifenza”). Scomparse, quasi affatto, le esibite oscenità, restano il dolore e la “Commararaccia /  secca de Strada-Ggiulia” (sonetto Er  tisico). Quartina 101: l’attacco è quello del III dell’Inferno: “per me si va da un niente a un altro niente”. Quartine 103 e 109: la morte è sovrana in un regno d’incombenti larve. Quartina 114: bontà è in lei che, paradossalmente, petisce venia. 115: “E mai scopato gratis”, diversamente da come – mi figuro – facesse, almeno ogni tanto, “quella” del Vangelo: si concedeva gratis, appunto, a “poveri, storpi [penso al Leopardi di Napoli, tanto implacabilmente quanto ingiustamente stigmatizzato dalla Valduga], zoppi, ciechi[28], onde Gesù la difese davanti a chi ne menava scandalo: “le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato[29] (sull’amore oblativo, opposto a quello captativo tornerò in seguito) – ma qui la poetessa ritengo intenda dire: “ho pagato io sola – e a prezzi altissimi – una ginnastica pelvica che preludesse all’amore…”. 123: “C’era una volta il mio sogno d’amore, / tra l’asilo infantile e l’analista”: trascorsa l’infanzia (infelice perché violata), il mediocre analista non seppe far di meglio che spiegarle certe cose e lei seppe aver pietà del suo “Ego” trafitto esclusivamente attraverso un processo di autoguarigione che la preservò dal suicidio (191). 126-127: “io non prendo gli uomini sul serio” – “non ho mai preso gli uomini sul serio” (non è vero se, come si può ragionevolmente ammettere, lei ha dato corpo – il suo corpo – alle fantasie oro-ano-genitali di un’elementare, arcaica sessualità di “psicolabili” machisti – quanto all’amore, tutto rimandato a un’altra volta…). 139: non si riescono a tenere a bada gl’incubi che, alla Füssli, opprimono l’autrice (“sola con me è peggio che con lui”). 142: “Hevel hevelim, mataiόtēs mataiotētōn, vanitas, vanitatum, omnia vanitas” (ma, forse, si tratta, in gran parte, di mero intellettualismo e l’intellettualismo è la malattia infantile dell’estetica). 149: “Signore, dà a ciascuno la sua morte […] ma dacci vita prima della morte” – sì, ma se l’”Iddio che nun vô ar monno  uno contento” (Belli: La tribolazione) è colui che tu invochi, allora “qui nihil potest sperare, desperet nihil[30]. Commovente la 157: “Perché ho voglia di piangere, papà?” – ne capiremo il senso quando affronteremo alcuni componimenti di di Requiem e di Lezione d’amore. 179: “Bevi tutto il mio sangue: sia il tuo vino” – al di là del chiaro riferimento evangelico, sembra di ascoltare l’Albino Pierro di: Mi iunnére / da supr’a tti, / e tutte quante t’i / suchére, u sagne, / nda na vìppeta / schitte e senza / fiète, ( com’a chi / mbrièche ci / s’ammùssete / a na vutte / iacchete / e uèreta natè ndu / vine russe, cchi ci murì[31]. 181: “Dispera sempre e di’: putrefazione”: ebbro sfacelo, sconfortato “cupio dissolvi”. 182: se leggo ” impara che la pace è nel sapere, / perché sapere il mondo è possederlo”, m’interrogo: perché sempre questa smania di possesso? Conoscere è sapere, è amare, è rispettare, non possedere, non sedurre. 194: l’accordo fra l’assurdità del dolore e il “decrepito cervello” che l’avverte non potrebbe essere più compiuto – sennnonché tutto è, in Valduga, meno che cervello atrofizzato. In coda alla raccolta, un “aureum libellum”, piccolo saggio di poetica – appena tre paginette,  – a coonestare l’assunto compositivo dell’autrice, la sua fedeltà – prima che alle “forme chiuse” – all’uso del metro e della rima (e qui riprendo in nota, da Proust, quanto, tempo addietro, ebbi a scrivere[32]). Del tutto condivisibili trovo le riflessioni sulla funzione della poesia per chi ne faccia pratica di vita.  Requiem (Einaudi) è del 2004. Nel 1787 muore Leopold Mozart, padre di Wolfgang Amadeus. L’anno successivo questi compone una delle sue più intense, ispirate e drammatiche sinfonie, la quarantesima (Köchel 550) – si pensi al tragico (sic!) minuetto. E lo fa nella tonalità elegiaca, per lui inconsueta (la usa nella sua opera, in tutto, solo tre volte), di sol minore. Alcuni hanno inteso collegare i due eventi. Come che sia, il primo tema del primo movimento consiste in una cellula ritmica (due crome, in levare, in fine battuta, e una semiminima, in battere, all’inizio della successiva) ossessivamente riprodotta lungo tutto il pezzo. Mi piace immaginare, in esso, la reiterazione di una sofferenza (esaltata, appunto, da quel sol minore) indotta da un sentimento filiale intatto e rinnovato, malgrado le coercizioni “educative” (sic!) cui Leopold aveva consapevolmente sottoposto, nei suoi primi anni di vita, il piccolo Wolfgang. Il secondo tema, melodico (minima puntata, in battere, seguita da semiminima, entrambe legate alla successiva semiminima, con immediata successione da parte di una piccola scala discendente di semicrome), fa da sommesso contraltare alla devastante potenza del primo. Ebbene, nei componimenti della Valduga costituenti la silloge, il medesimo schema compositivo si ripropone, in modo vuoi angoscioso vuoi melanconico, lungo tutta l’opera; negli anni che vanno dal 1991 al 2001 e sempre in un giorno: quel 2 dicembre. E vien fuori la rievocazione inconscia d’un tempo, angoscioso – quello dei due anni (“Padre, il mio cuore compie oggi due annidicembre 1993) – sui quali incombé la sventura di una violenta iniziazione sessuale. I temi cupi della colpa, del perdono e della dissipazione, tanto congeniali al sentire della poetessa, si affiancano all’invocazione di una grazia che non verrà elargita: all’offerta di sé quale vittima sacrificale risponderà il silenzio dei cieli. L’inverno deposita, sul moribondo, nere farfalle di neve. Il decadere terminale, ineluttabile della “vis vitalis” paterna genera sintomi angosciosi[33]. Gli accenti, d’una sincerità pietosa e, insieme, spietata, son quelli stessi che compariranno nel successivo Libro delle laudi, del 2012, dedicato alla memoria del compagno Giovanni Raboni. Due figure maschili nelle quali – sole – si rispecchiano e compongono appieno gli affetti di un’anima dalla peculiare, eccitata sensibilità. Lezione d’amore (Einaudi, 2004) è la riproposizione, accentuata nei toni sado-masochistici, dei componimenti della prima maniera (anni ’80-’90); ne fa fede l’immoralistica dedica al “divino marchese”, il cui verbo, messo in bocca ai vari e mai amati amanti, punteggia, viziosamente e doviziosamente, il dipanarsi del racconto in versi. Già nella prima composizione del Primo tempo appaiono i temi distintivi della silloge: un maschio, chiama “bimba” la donna e, fingendo una punizione per immaginarie trasgressioni di lei (in realtà per toglierle la parola e, possedendola, umiliarla), minaccia di svitarle il cuore. E si procede, fra “bondage”, schiavismo sessuale, oltraggi, umiliazioni da parte di un crudele, anonimo “papi” (il linguaggio è quello di un pedofilo che trovi consenso da parte di una riproposta Justine, fanciulla precocemente sessualizzata – altrove, in contesti molto diversi e del tutto positivi, l’autrice adopra, invece, l’appropriato, umanissimo termine “padre”). Nella finzione-realtà affiorano parole come “inferno”, “ferro e fuoco”, “troia”, “falsi amori”, “scimunita”; nel Secondo tempoputtana”, “cesso”, “gallinella”, “sborra-cena”, che disegnano atmosfere allucinate, in un “gurgite vasto”, in un “Maelström”, alla Poe, cui non è dato scampare. E lei? “regina della notte”, senza un Sarastro a governarne le pulsioni autodistruttive, riconosce di esser presa, dal maschio, “per quella che sono”. Perché –sarà un caso? – mi viene in mente l’Invetticoglia di Alfredo Giuliani? Nel Terzo tempo, in prosa, si cita Valéry a mezzano di un assurdo connubio: quello tra il “vero” e la “menzogna” – assurda, irredimibile “fruit salade”. E s’invoca la pseudoscienza di  Matte Blanco, secondo la quale, nel cervello degli umani non c’è modo di far collassare la funzione d’onda di Schrödinger e il gatto sarà (indipendentemente dall’apertura della scatola e del principio di una potenza che si fa atto) murato in una condizione eternamente congelata, statica, sterile, incapace di conferire predicati a un soggetto: che il felino viva o sia morto, non cale. Siamo nella Caina. E la presunta “antinomia fondamentale e costitutiva dell’uomo” – massima espressione del più eclatante, cinico dei determinismi – è un falso che non tiene conto della distribuzione gaussiana dei caratteri e dei temperamenti umani, arbitrariamente riducendoli “ad unum” e privandoli delle loro intrinseche, molteplici peculiarità. Vera, peraltro, la constatazione che “i poeti e gli schizofrenici tendono a includere molte cose – ma chi mai, per essere o riconoscersi poeta, farebbe di tutto per diventare schizofrenico? Qui si confonde l’uso lucidissimo, pertinentissimo e ragionevolissimo della metafora con la realtà (ahimè, quanto dolorosa, del malato mentale, la cui condizione, ci disse Mario Tobino, poco o nulla ha a che vedere con l’umanità). La rigorosa, razionalissima, formalmente perfetta, “aristotelica” metrica e la folgorante rima della Valduga sono lì a smentire, almeno in parte, le irruzioni dell’irrazionale all’interno della mente .  La scrittura, quindi, come terapia? Sì e no. Si scrive, in fondo, per iscrivere la scrittura nella “reward circuitry” cerebrale, ossia per piacere – che, poi, il piacere sia anche terapeutico… (forse, si potrebbe meglio dire che il piacere è igienico, profilattico, più che curativo – infatti non cura, di per sé, alcuna malattia profonda dell’anima).  Nel Libro delle laudi (Einaudi, 2012) – “a Giovanni / infinitamente amato” – la poetessa attinge il livello più alto della sua – pur altrove elevata – “morphè” (Aristotele), in quanto platonicamente, magari anche “sans le vouloir”, tesa “a ciò che è puro, immortale, eterno e immutabile [e] congiunta con quelle realtà che sono tali” (Platone, Fedone, XXVII) – siamo nell’ambito categorico del “necessario” e dell’”universale” (un ”a priori” kantiano, del quale oggi si riconoscerebbe la datità genetica). Il senso del sacro (nell’accezione paleo-giuridica latina, che include l’ineluttabilità della condanna e del ripudio sociale) grava sulla malattia e su una morte imminente, svestendosi degli orpelli di un’esteriore religiosità e confidandosi a una dimensione gesuana del patire. Si è passati da un dolore “ab/ex”, subito, a un dolore “ad/ob/propter”, offerto: da un amore captativo a un amore oblativo. Il male che ha colto Giovanni Raboni, compagno della poetessa e grande poeta anche lui, si declina tutto nella dimensione di un sentimento pacificato, nel quale parole come “amore”, “cuore”, “dolore”, avvertite talora, altrove, nella loro inevitabile consunzione e anfibolia, acquistano, in queste liriche partorite nella tragedia, tutto il loro umanissimo e civilissimo significato: bandite le scorribande genitali, “chinati i rai fulminei” d’un’esuberante (ma anche esulcerata) sensualità, respinte sul fondale le tenzoni erotiche, il verso si concentra sulla storia di un male fisico senza “medicamenta” (da quello psichico si spera sempre sortire – da quello del corpo no: si va sempre, in progressione, verso la fine, secondo insegna il Tolstoj de La morte di Ivan Il’ič). Ed è proprio la matematica ineluttabilità del fatto a terrorizzare. L’incolpevole che lo subisce, come il fanciullo sul quale incombe la mortifera Canidia nel quinto degli  Epodi oraziani, trasmette angoscia all’astante, che si volge supplice, in iterata umiltà, allo stesso Dio-assente del Nondum hopkinsiano: “Deep calls to deep and blackest night / giddies the soul with blinding daze / that dare sto cast its searching sight / on being’s dread and vacant maze // And Thou are silent […] My hand upon my lips I lay ; / the breast’s desponding sob I quell; / I move along life’s tomb-decked way / and listen to the passing bell /summoning men from speechless day / to death’s more silent, darker spell.[34] Ma lei, Patrizia, non cessa di pregare, come fa, nell’Alceo del frammento 4a V, Teti la supplice, toccando le ginocchia di Zeus (siamo lontani, le cento miglia, dall’algida perfezione neoclassica di un Ingres). Lei non ha mai amato tanto e tanto sinceramente; mai ha condiviso con qualcuno, in slancio e passione (nel senso etimologico della parola), i suoi pensieri; il suo pianto, tutto interno al suo fragile petto, si adorna di nobilissimi accenti, talora mutuati direttamente dal Raboni, che nutrono un’inconcepibile, indomita speranza. Sembra di riascoltare, qui e là, le martellanti, sconvolte, selvagge (al modo del Compianto sul Cristo morto di mastro Niccolò dell’Arca) esclamazioni della Donna de Paradiso del frate di Todi. Il “mea culpa” delle opere passate qui si tramuta in dichiarato sacrificio, lucidamente consapevole di quanto il soma (condizionato da precoci, inquietanti esperienze sessuali) possa pervenire ad avviluppare, saprofiticamente, il Sé, precipitandolo nell’abisso di mai risolti conflitti. Nelle immagini di “Per sguardi e per parole” si andrà alla “recherche” di una ”res” che si spera felicemente rinvenire, di una “kalokagathìa”, a un tempo gesuana e cartesiana. Al pristino accordo tra vulva e testa è subentrato quello tra amore e ragione. Dal relativo di un innamoramento dai tratti adolescenziali all’assoluto dell’amore oblativo[35]; dall’esplosiva iperbole d’una coatta genitalità alla ricomposizione parabolica di moti affettivi ricondotti a compiutezza mediante un travagliato processo autoterapeutico. La maturata consapevolezza di una frammentazione dell’Io (volontaristicamente negata, tuttavia, sotto l’influsso di una illogica/pseudo-logica/pseudosimmetrica struttura dell’Es [A = A = non-A] di matrice matteblanchiana[36] [quante brutte parole! – le parole brutte non sono mai buone: nascondono inganni]) sta facendo spazio a un fecondo processo di autoguarigione. E’ qui la chiave per un’impostazione corretta del problema: se da un’aridamente prospettata, in termini staticamente descrittivi, teoria della mente, come quella, appunto, di Matte Blanco, si riesce a pervenire a una dinamica esplicativa che consenta all’Es di fare, realizzandolo nell’Io, il salto dall’Io al Mondo, dall’irreale al piano di realtà, al di là di algide, fumose dissertazioni su ipotetiche bi-logiche, si può realizzare la guarigione  – e si può farlo, a mio giudizio, soltanto o prevalentemente, adottando gli approcci ai sintomi del disagio psichico al modo di Bowlby (nell’infanzia) e di Balint (nell’età adulta) o ricorrendo ad una sempre ardua autoguarigione. D’altro canto, allorché la Valduga parla di “depistaggi” nei confronti dei suoi analisti sa bene che, se essi si sono fatti depistare, non valevano poi molto come terapeuti (ed è sempre il Paziente che, soprattutto con il suo inconscio, a decretare, infallibilmente, il successo o l’insuccesso di un’analisi). Ché, se, poi, per una qualche ragione, una teoria funziona nella pratica clinica, “chapeau”! Il resto, la teoresi, non conta. Ma, allora, Patrizia non puoi proclamare, “coram populo”: “non hanno sospettato niente”! Non posseggo alcun titolo di “training” professionale di tipo corporativo, ma percepisco, da lettore e da medico, quanto è contenuto nei “messaggi in bottiglia” propri della poesia e delle umane petizioni (“homo sum et nihil humani a me alienum puto”). E quando la poetessa intuì di dover “imparare a separare” qualcosa che era indistinto (transitando dall’indistinto bi-logico alla conquista dell’individuazione) compì un passo decisivo, da sola, verso la guarigione. Purtroppo, appena dopo, fu risucchiata, ancora una volta, nell’ineluttabilità della bi-logica (“ma tutto è unito… sono tutta unita…” – unita, in un inconscio, condizionante abbraccio con il terapeuta), quasi timorosa di poter “farcela da sé”, inibita da sovrastrutture e dipendenze e suggestioni riconducibili ad un conformisno psico-sociale di marca distintamente veneta  e all’astrusa teoria di un’assoluta, infinitamente necessaria e cogente strutturazione dell’inconscio in insiemi infiniti (dubitate, gente, dubitate: il “genio maligno” della prima fra le Meditationes de prima phylosophia  [Meditazioni Metafisiche] cartesiane è sempre all’opera. Ognora infaticabile, malgrado Hume…).  Se Aristotele attribuisce alla retorica “la facoltà di scoprire in ogni argomento ciò che è in grado di persuadere”, ossia di costruire proposizioni efficacemente eristiche, e Cicerone ci ricorda che cinque sono i “gradus” da usare per costruire una poesia: (“inventio”, “dispositivo”, “elocutio”, “memoria” e “actio”), ad essi la Valduga fa ricorso in modo naturale, piano, disteso, “en souplesse” (“un giorno mi accorsi, con stupore, del fatto che, anche quando mandavo un ‘sms’ a qualcuno, lo facevo in endecasillabi”), ma quando lei si appressa ai penetrali del proprio ”essere nel mondo”, la forza che proviene dalla luminosa tradizione classica si estenua, si dissolve, quasi che tutta l’energia creativa si condensi ed esaurisca, a un tempo, nello stesso poetare. Nell’ultima sezione (la terza) del volumetto lei si avventa contro la casta immorale dei giornalisti, omnipervasivi e spesso incompetenti, asserviti a padroni di giornali latori d’interessi del tutto alieni dal dovere d’informare, tuttologi senza umiltà e senso del dovere. Alta testimonianza di poesia civile, e tuttavia limitata dall’occasionalità  dell’intervento. Il modello dantesco, che si presta a indagare, notomizzando ogni manifestazione dell’umano agire, l’omnipervasività del male viene qui assunto in maniera episodica, transeunte. Peccato: la versificazione della Valduga, affrancata da ipoteche neurotiche e assiduamente posta al servizio di un elevato sentire morale, avrebbe potuto donarci componimenti memorabili. Il corporativismo della società italiana (retaggio fra i peggiori del fascismo, coonestato da “padri costituenti” impari al loro ruolo) è passato indenne dall’infausto ventennio alla Repubblica e gl’intellettuali non ne hanno mai fatto specifica menzione – al fine di evidenziarne l’esiziale natura e da essa prendere, inflessibilmente, le distanze – hanno preferito ricorrere alle assai più facili e fragili e comode categorie del piagnisteo moralistico. Se la Nostra avesse potuto allargare i suoi orizzonti poetici in senso speculativo ci avrebbe donato prove esemplari di elevato sentire – poetico e civile: all’Alfieri, alla Parini, alla Foscolo… Peccato. Le Poesie erotiche del 2018 (Einaudi) riprendono temi e luoghi già frequentati negli anni precedenti, attraverso itinerari di anoressia oblativa “compensati” (?) da bulimia captativa, la quale si ripiega, in Lezione d’amore, su un autodafé condensato nella dedica “a Donatien Alphonse François”. L’omaggio al diabolico (altro che divino!) marchese, assunto, nel Libro delle laudi, come “fratello di sventure” ancorché pedofilo (sic!), non avrebbe dovuto avere, nella pubblicazione del 2018, più senso alcuno dopo il plausibile avvio di quel processo di autoguarigione che sembrava avviato (in morte del compagno Giovanni) nel 2012. Tant’è. D’altro canto la Valduga usava, appunto nel 2012, il tempo indicativo imperfetto “avevo dedicato a lui dei versi”, indicando come Lezione d’amore avesse preceduto, nello specifico, il Libro delle laudi (va’ a capire certe diacroniche scelte editoriali e autorali e certi omaggi a “moribus soluti” atleti della depravazione libertina…). Uno dei prodotti musicali più innovativi apparsi sul mercato della cosiddetta “musica di consumo” degli ultimi decenni è stato il “rap” (noto anche come “hip-hop”)[37]. Sorto come espressione degli umori giovanili della popolazione afro-americana degli USA, ha avuto come capofila il “disk jockey” DJ Hollywood, il quale ha dato inizio al genere verso la metà degli anni ’70 del secolo passato. Caratteristiche del “rap” sono: una particolare attenzione nei confronti dei temi proposti, un accentuato ricorso al ritmo e alla rima e un forte richiamo ai valori prosodici – ciò che, in sede neuroestetica, viene considerato come elemento imprescindibile in ordine alla sintesi che si realizza, nella poesia, tra valori cognitivi e valori formali. Il rap, che giunge decisamente a recuperare elementi stilistici della poesia classica greco-latina, nonché araba, come la metrica quantitativa, espressa in giambi, anapesti, trochei, spondei e dattili[38], costituisce oggi uno degli esempi stilematici più lampanti della conformità del genere alle modalità funzionali del cervello umano. Eminem (al secolo M. B. Mathers III), che si guadagnò gli apprezzamenti del Premio Nobel per la letteratura Seamus Heaney, per l’energia (oltre che per la spiccata densità letteraria) dei suoi testi [39], usa largamente il pentametro giambico. Nessuna meraviglia, dunque, che il Nobel per la letteratura del 2016 sia stato assegnato a un cantautore e che la poetessa di Castelfranco Veneto abbia riscoperto ed usi sistematicamente, a partire dallo scorcio del secolo scorso, alcune delle forme della tradizione. A voler attenersi al mero dato cronologico: chi più, al mondo, di DJ Hollywood ha, dunque, giovato al recupero, a partire da una classicità deleta, del metro e della rima? Che la riproposizione di una poesia costituita, appunto, dalle “forme chiuse” della tradizione, dal metro e dalla rima non abbia goduto (e, in parte almeno, tuttora non goda) di consenso, anche dopo che un’autrice come la Nostra ha chiaramente dimostrato non essere sufficienti le rivoluzioni linguistiche e gli sperimentalismi affermatisi tra ”800-900 a consentire una compiuta esperienza estetica, è cosa nota. Invero, secondo metodo scientifico, si sarebbe dovuto dimostrare, da parte degli avversari di un tal modo di poetare, in cosa il suddetto assunto programmatico avrebbe inibito (o potuto mai inibire) una qualche attitudine espressiva degli autori della contemporaneità (questione mai affrontata in sede critica – al più ci si è limitati ad opporre opinione a opinione).  Perfino in sede accademica, si è proclamato ancora, piuttosto di recente: “ Il punto, a dirla tutta, è che la loro [quella dei fautori della versificazione tradizionale, N.d.R.] è una metrica che, anche dopo aver attraversato centinaia di sonetti, quartine, distici di versi doppi, sestine liriche e quant’altro di simmetrico e compiuto l’eredità classica possa offrire, non si stacca mai da un effetto – intenzionale o inintenzionale, poco importa – di parodia, di artificio, di falsetto. I metri chiusi, cioè, sono impiegati in modo da farci sentire la loro inattualità, la loro arcaicità: gabbie paradossali che si portano dietro tessere acroniche della lingua poetica italiana, campionature (proprio nell’accezione musicale del sampling) dall’intera tradizione, indispensabili non tanto per puntellare il verso, ma per far scattare la frizione – appunto parodica – tra forma e contenuto, per togliere al testo ogni possibilità di classica “naturalezza[40]. Per contro, studi recenti degli psicolinguisti del Max Planck Institut di Francoforte sul Meno[41] [42] hanno sperimentalmente dimostrato una maggiore facilità di accesso alla cognizione derivante da un testo poetico che contenga metri e rime rispetto a una corrispondente versione in prosa. Questa che, nell’esperimento, era stata effettuata da esperti di livello accademico, doveva contenere le stesse parole del testo originale, affinché non si producessero differenze semantiche e morfologiche fra i due testi (quello originale e quello ridotto in prosa) e la differenza fra di loro consistesse alla fine, esclusi altri fattori disturbanti, solo tra la musicalità del componimento poetico e la non-musicalità del corrispondente prosastico. L’accurato disegno sperimentale, che prendeva in esame  un certo numero di poco noti componimenti d’importanti e molto noti autori dell’’800 tedesco, rispondeva, quindi, all’esigenza di prendere in considerazione una sola variabile – ovvero poesia “contro” prosa – ai fini della maggiore o minore facilità di accesso semantico, da parte del lettore, all’una invece che all’altra delle due versioni. Quantunque un successivo apporto della stessa scuola – com’era, d’altro canto, logico attendersi – abbia rilevato, in generale, un maggiore tasso di ambiguità semantica e una corrispondente difficoltà esegetica a carico dei testi poetici[43], la cosa – apparentemente contraddittoria rispetto a quanto appena riportato – è stata spiegata alla luce del peculiare disegno sperimentale adottato in questo ulteriore studio. In esso la versione in prosa delle poesie ha, questa volta, ammesso, a fini esplicativi, un uso illimitato di parole (nello studio precedente esso non doveva eccedere, di regola, quello del testo poetico), donde una comprensibilità, derivata appunto dal testo prosastico, facilitata rispetto a quella consentita dal corrispondente materiale poetico (ciò che si fa, in sostanza, nel corso di una lezione “ex cathedra”, nel corso della quale s’impiegano anche molte parole per delucidare e disambiguare, concettualmente, un testo poetico). In ogni caso, nelle condizioni di concisione espressiva richieste dalla versificazione, la prevalenza cognitiva di un testo in metro e in rima su uno in prosa rimane indiscutibile. Detto in altri termini: partendo da due testi (l’uno in versi, l’altro in prosa, modellato sul primo), nella condizione di densità e concentrazione che la poesia tipicamente esprime, “vince sempre quest’ultima; per converso, ove non si pongano limiti al numero di parole che sia consentito usare a fini esplicativi, a risultare “vittoriosa” è la prosa. Tutto questo s’accorda con la constatazione che, in generale, il numero di parole e di pagine che comprende un romanzo o un saggio – prodotti tendenti, più di quanto faccia la poesia, all’oggettività esplicativa – è largamente maggiore di quello dedicato a composizioni poetiche. E qui viene alla ribalta – sempre restando al tema Valduga – la questione posta dalla “processing fluency theory[44] [45], vale a dire dalla maggiore o minore fluidità/facilità percettiva cui il cervello umano è in grado di sottoporre un qualsiasi stimolo che gli pervenga. Sto parlando, evidentemente, di un cervello medio (in termini statistici), che, poi, è quello di chi, comprando e leggendo libri, quindi influenzando il mercato e le politiche sia editoriali sia culturali in quanto dotato, appunto, di un livello culturale dalle caratteristiche comunemente e largamente riscontrabili nella popolazione, si tiene discosto tanto dall’estrema refrattarietà quanto dall’estrema raffinatezza fruitiva tipiche degli estremi opposti di una curva “a campana”. Ebbene, la poesia della Valduga soddisfa entrambe le condizioni poste dal metro, dalla rima e dalla concisione poetica in ordine a quella facilità di accesso semantico di cui il cervello necessita per attivare sia la “processing fluency” sia la “reward circuitry” (vale a dire il complesso neurale orientato alla ricompensa edonica) – quest’ultima è fonte, a sua volta, di soddisfazione tanto emotiva quanto concettuale, in perfetto accordo, quindi, con il substrato anatomo-funzionale della mente. La versificazione della poetessa, infatti, si svolge lungo percorsi compositivi il più delle volte estremamente chiari – “cartesiani” financo –, a dispetto di coloro che prediligono il buio e le nebbie ideative ed espressive (spesso gabellate per espansioni semantiche alla Umberto Eco di “Opera aperta[46]). A questo proposito, tenendo a mente ciò che Alfonso Berardinelli ha più volte espresso a proposito degli pseudo-poeti che non sanno comporre  un sonetto o anche un sol verso, è bene rammentare quanto egli ha scritto sulla Valduga, cogliendo sinteticamente – ed apprezzandolo – il senso di un’opzione programmatica “che si serve di forme tradizionali, usate nella loro perfezione scolastica, per esprimere contenuti tutt’altro che tradizionali[47]. Ma non basta: il paradigma retorico-stilistico della poetessa non rappresenta solo una scelta controcorrente nell’ambito della poesia italiana dei nostri giorni. In esso il “verum” (la conformità, cioè, dell’impianto ritmico dei suoi versi alle strutture biologiche del cervello) e il ”factum” (la scelta operata nel processo della versificazione) “reciprocantur seu convertuntur”; detto altrimenti: si è di fronte a una mirabile “adaequatio rei et intellectus”. Ed è questo uno degli elementi – forse quello cardine – dell’originalità dell’opera della Valduga, che i cultori del verso che termina in maniera aleatoria (vecchio e mai risolto problema) non riescono ad accettare. Che tutto questo renda evidente un “gran dispitto” in capo a certi acrimoniosi colleghi o critici è cosa irrilevante per il cervello umano (eccetto che per quello di cui sono forniti costoro). Quanto alla peculiare opzione espressiva della poetessa, posso richiamare quanto già scrissi altrove[48]: “Il gusto per la forma ‘classica’ si è più volte riproposto nella storia e si potrebbe chiamare a testimoniare il Frost, riprovatore di quanti calliopei, euterpei, eratei che, poetando in free verse, pretendono “playing tennis without the net” ), o il Bacchelli di Amore e poesia (“il verso libero ha dimostrato laboriosamente di non esistere e di non aver ragione di esistere”), ovvero, nell’ambito della critica d’arte, l’Arnheim il quale stigmatizzava l’insana spettacolarità di tanta parte della produzione artistica svincolata dalla figurazione. “Delicato” definiva poi Marcel Proust il pensiero che la madre del protagonista-scrittore de La strada di Schwann volgeva a quei ‘buoni poeti che la tirannia della rima forza a trovare le loro bellezze maggiori’”. Qui aggiungo soltanto che il lettore di cultura media, che ami e acquisti libri di poesia, tiene – quantunque inconsciamente – in gran conto un “qualium” conforme alle modalità funzionali del complesso “cervello-mente”, avvertendo “gestalticamente”, come consentanei al proprio gusto, versi dotati di una decisa reiterazione ritmica (s’intenda: uso dei metri della tradizione, a partire dal sublime endecasillabo); la stessa (trascorrendo dalla poesia alla musica) che fa preferire, all’ascoltatore, appunto, medio, la variazione di un tema alla pur raffinata e complessa elaborazione tipica della forma sonata della classicità. E, a tal proposito, si può ricordare come, nel caso della poesia che si esprime in metro e in rima, vengano attivati i cosiddetti “circuiti riverberanti”[49]: strutture micro-anatomiche presenti nella corteccia prefrontale (e altrove), costituite da neuroni che funzionano secondo un meccanismo a “loop”, il quale favorisce la stabilizzazione della memoria a breve termine (“working memory”) – e ben si sa, da millenni, che una poesia fortemente ritmata è più facile da ritenere rispetto ad una priva di ritmo reiterato o, addirittura, alla prosa. “Ne Il poeta e la fantasia Freud sviluppa un parallelismo fra la creazione artistica e la fantasia a occhi aperti, forma di espressione diretta e preterintenzionale dei desideri che nell’adolescenza si sostituisce al gioco; ma chiarisce subito che il racconto diretto di queste fantasie non avrebbe nessun interesse estetico: l’arte consiste invece proprio nel saper velare, deformare, nascondere, e nel creare un piacere preliminare con cui attrarre il proprio pubblico [mio il grassetto]. Anzi, dai verbali delle sedute della Società psicoanalitica, su cui ha attirato l’attenzione Mario Lavagetto nella sua eccezionale indagine sul testo freudiano, si evince che esiste un rapporto inversamente proporzionale fra la qualità estetica e l’emergere diretto dell’inconscio [idem]. Gli artisti di livello modesto si limitano a effondere le proprie fantasie primarie, mentre quelli grandi sanno deformarle, travestirle, mascherarle [con un lessico e con ritrovati stilistici che inducano alla comprensione, all’ammirazione e alla riflessione, N.d.R.] per poterle comunicare così attraverso un’istituzione sociale come è la letteratura. La censura non è infatti un’istanza che reprime [“simili modo” non risulta essere repressiva la strenua fedeltà della Valduga alle ‘forme chiuse’, N.d.R.], come si sarebbe portati a credere dato il parallelismo con l’istituzione politica: è un processo che permette il passaggio del contenuti fra le varie zone della psiche. L’arte si colloca in un’ampia sfera che va dall’espressione meccanica del desiderio, considerata rozza e poco interessante, all’eccesso di controllo e di deformazione, che inibirebbe del tutto il piacere estetico. Come si vede, siamo ben lontani dalle registrazione immediata delle fantasie inconsce che i surrealisti auspicavano proponendo la tecnica della scrittura automatica[50], credendo d’ispirarsi proprio a Freud, che lì smentì. Che aggiungere, infine? In Valduga sicuramente molto, forse tutto, può dirsi, certo, nevrosi, dolore esistenziale, istintuale compensazione a frustrazioni profonde. Eppure la sua moralità, checché se ne possa dire, è quella stessa del Caravaggio. Come questi, pur incline a reprobe condotte, seppe attenersi a un’altissima concezione del suo “in-der-Welt-sein”, del suo stare al mondo, artistico, mai deflettendo dal senso più autenticamente convinto della sua opera che potremmo definire “missionario”, così la poetessa di Castelfranco-Milano-Belluno si propone senza veli (quelli, cioè, del proprio assunto poetico), recuperando, in termini estetici ineccepibili (quanto a “processing fluency”), le costanti formali dell’esperienza musical-letteraria della tradizione, riuscendo a non aggiogarle al carro di un ”dejà vu” cognitivo, anzi interpretando, come tutti gli artisti degni di tal nome, la temperie della contemporaneità. Per modo che, di lei, si può dire quanto il DeLillo di Mao II[51] disse di sé, rovesciando per un attimo il suo devastante nichilismo: ”Io mi sono sempre riconosciuto nelle mie frasi. Incomincio a riconoscermi parola per parola, mentre lavoro alla stesura di una frase. Il linguaggio dei miei libri mi ha formato come uomo. C’è una forza morale in una frase quando ti riesce giusta. Esprime la volontà di vivere dello scrittore. Più mi coinvolgo nel processo di produrre una frase che sia giusta nelle sue sillabe e nei suoi ritmi, più cose imparo su me stesso”. Esemplare magistero di sublime artigianato convertito in arte.

Michele Arcangelo Nigro


[1] M. Ferraris. Manifesto del Nuovo Realismo.  Laterza.Roma, Bari. 2012.

[2] H. R. Jauss. Estetica della ricezione. Guida. Napoli, 1988.

[3] Mt 7, 1.

[4] Mt 9, 12.

[5] M. C. Jacobelli. Il risus paschalis e il fondamento teologico del piacere sessuale.  Queriniana. Brescia. 1990.

[6] B. Castiglione. Il libro del Cortegiano., capitolo II. In Internet: it wikisource.org.

[7] Is 53, 3.

[8] M. Buonarroti. Rime. Sonetti nn. 274, 288, 290 e 296.

[9] P. Valduga. Per sguardi e per parole. Il Mulino. Bologna. 2018, pagg. 53-54.

[10] Gv 17, 15.

[11] Bibbia CEI online: ora-et-labora.net/bibbia/qoelet.html#cap_qoelet_1.

[12] Os 13, 14.

[13] Papiro egizio 3014 di Berlino.

[14] But man – we, scaffold of score brittle bones; / who breathe, from groundlong babyhood to hoary / age gasp; whose breath is our memento mori – / what bass in our viol for tragic tones? (Ma amico, impalcatura d’ossa fragili / noi siamo che respira: da una lunga / infanzia che gattona alle lacune / della canuta età – il cui respiro / altro non è se non memento mori – / quali mai bassi avremo per suonare / tragici toni sulla nostra viola?).

[15] H. Kohut. La ricerca del Sé. Bollati Boringhieri. 1982.

[16] J. Bowlby. Costruzione e perdita dei legami affettivi. Cortina Raffaello. Milano. 1982.

[17]Disprezzato e reietto dagli uomini, / uomo dei dolori che ben conosce il patire, / come uno davanti al quale ci si copre la faccia, / era disprezzato e non ne avevano alcuna stima. // Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori / e noi lo giudicavamo castigato, / percosso da Dio e umiliato”  – cui fa implicito riferimento il Gesù di Mt 7, 1 -5 (“Non giudicate, per non essere giudicati; / perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati. / Perché osservi la pagliuzza nell’occhio di tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio? / O come potrai dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio, mentre nell’occhio tuo c’è la trave? / Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello”.). Is 53, 3-4. Nuova CEI. Libreria Editrice Vaticana. Città del Vaticano. 2008

[18]Se uno ti costringerà [si badi bene: “se ti troverai addirittura in uno stato di molesta costrizione!”, N.d.R.] a fare un miglio, tu fanne con lui due” (Mt 5,

[19] A. Dürer. La civetta (incisione): Mon seul crime est d’y voir clair la nuit..

[20] Gv. 8, 11.

[21] Mt 18, 21-22 (CEI): “Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?’ / E Gesù gli rispose: ‘Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette’”.

[22] Gesù, allorché opera miracoli (intervenendo, come sempre compassionevole, in situazioni patologiche di matrice psicosomatica), non li riferisce alla taumaturgia del Padre o sua personale, ma, laicamente fiducioso nella capacità di autoguarigione (maieuticamente assistiti) di che soffre: la guarigione proviene dall’”interior homo” (Agostino): “la tua fede ti ha salvato”. E’ stato un movimento interiore e non l’azione di un qualunque attore divino a operare il “miracolo”: Dio o lui stesso Gesù non li nomina mai.

[23] G. Bateson et al. Toward a theory of schizophrenia. Behav Sci. 1956; 1: 251-64.

[24] Lc 9, 60.

[25] J. Saramago. Il Vangelo secondo Gesù Cristo. Feltrinelli. Milano 2010.

[26] Bombonato (“nomen omen”)? Fachinetti?

[27] Gv 2, 15 (CEI): “fatta allora una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori del tempio”.

[28] Lc 14, 13 (CEI).

[29] Lc 7, 47 (CEI).

[30] Seneca. Medea, 163.

[31]Forse già tu mi vuoi / e mi sogni la notte. / Io pure ora comincio / a tremare di sete / e spavento mi prende. //  Ma qui, mi avventerei / sopra di te, a succhiarti, / d’un fiato solo, il sangue: /  come fa l’ubriaco / che s’attacca alla botte / spaccata e che vorrebbe / nuotare nel vin rosso, per morirci.” (A. Pierro. Nuove liriche. Danesi in via Margutta. Roma. 1949).Traduzione di chi scrive.

[32]Mettiamo che uno scelga, per coazione – per favore, non s’incolpi l’ossimoro, potrebbe aversene a male -, di scrivere oggi un tipo di poesia definibile come arcaica; in forme e lessico. Potrebbe, facendo spallucce, giustificarsi con un: “Che c’è da obiettare se tutto, in questo nostro tempo, finisce per essere placidamente triturato e digerito?”. Potrebbe ricordare, in aggiunta, che il gusto per la forma “classica” si è riproposto più volte nella storia e chiamerebbe a testimoniare il Frost, riprovatore di quanti calliopei, euterpei, eratei che, poetando in free verse, pretendono “playing tennis without the net” (giocare a tennis senza la rete), o il Bacchelli di  Amore di poesia (“il verso libero ha dimostrato laboriosamente di non esistere e di non aver ragione di esistere”), ovvero, nell’ambito della critica d’arte, l’Arnheim il quale, stigmatizzava l’insana spettacolarità di tanta parte della produzione artistica svincolata dalla figurazione. “Delicato” definiva poi Marcel Proust il pensiero che la madre del protagonista-scrittore de “La strada di Swann” volgeva a quei “buoni poeti che la tirannia della rima forza a trovare le loro bellezze maggiori”. Come dire, per quanto attiene all’oggi: tra Sisifo e i pittori giapponesi di bambù che si consacrano, per una vita intera, a una dedizione sottrattiva che non fiacca il loro umile, testardo amore per cose che il tempo ha, forse, consunto ma non estinto” (Fra Damone e Withman. Capoverso. Edizioni Orizzonti Meridionali. Cosenza. 2011, pagg. 21-25.

[33] Mi viene in mente una mia traduzione da  Agonia: “Un respiro, un silenzio, un intervallo; / il tuo viso contratto. Si rinserrano / le palpebre su un tempo sigillato / e tu respiri ancora. A poco a poco / s’avvicina la fine. Riapri gli occhi / e sento che mi dici. “Sono morta”. //  Ma io scuoto la testa: “Non è vero. / Non parleresti se tu fossi morta”. / Sorridi quasi lieta, senza téma. //  Sono lunghe le ore dell’attesa, / mentre ascolto il respiro travagliato / che scandisce il timore e la speranza / che tu possa avviarti nella pace. // Vorrei lasciarti andare, custodirti. / Un respiro, un silenzio, un intervallo. / Misteriosa è la morte e noi insipienti. // L’eternità s’insinua in queste pause. Ospedale di Mantes la Jolie, camera 4007. Notte fra il 27 e il 28 maggio” (inedito, da N. Damiano-Appia. Poesie.)

[35] A Cana (Gv 2, 1-10) Gesù vivifica, con il vino dell’amore oblativo, dal gusto eccellente che non subisce alterazioni (quello di qualità, che si usava offrire nelle fasi iniziali dei banchetti di nozze [fuor di metafora: l’innamoramento, la “mania” del Simposio platonico, l’”eros tyrannos”, la seduzione che persegue  rapporti disuguali tra le persone, usate come mezzi e non vissute come fini] e che veniva poi sostituito con un altro, di qualità inferiore, allorché i commensali, ormai brilli, non erano più in grado di cogliere la differenza tra i due, lo mantiene, al di là degl’inganni del tempo onirico-psicotico, sino alla fine, mutando in esso l’acqua delle giare (lo stato indifferenziato, primigenio dell’affettività). La bevanda che il Nazareno offre al banchetto della vita e che non mortifica il senso e i sensi, anzi li inonda di piacere pari alla sua qualità, è quella cui alla Valduga è dato di accedere e gustare solo (?) “in mortem ac in memoriam” del compagno.

[37] Il dato non va inteso tanto in senso storico (essendo le forme precorritrici di tale genere poetico-musicale di più antica data, essendo possibile farle risalire alle pubbliche dichiarazioni dei “griot” dell’Africa Occidentale – sorta di custodi verbali delle tradizioni popolari -, ai discorsi che James Brown indirizzava al suo pubblico, alle esternazioni di Muhammad Ali e alle composizioni dei cosiddetti “Last Poets”), quanto in quello della diffusione del genere, in termini sia creativi sia fruitivi, tra i giovani di molte parti del mondo.

[38] A. Finch. The body of poetry: essays on women, form, and the poetic self. The University of Michigan Press. Ann Arbor. 2005.  Vedansi anche M. Berry. Listening to rap: an introduction. Taylor & Francis. Abington. 2018, P. Edwards. How to rap. Chicago Review Press. Chicago. 2009 e D. Fuss, W.A. Gleason. The pocket instructor – literature: 101 exercises for the college classroom. Princeton University Press. Princeton. 2016.

[39] Seamus Heaney praises Eminem. BBC News, 2008.

[40] P. Giovannetti. Dalla poesia in prosa al rap. Interlinea. Novara 2008, pagg. 209-10.

[41] C. Obermeier et al. Aesthetic appreciation of poetry correlates with ease of processing in event-related potential. Cogn Affect Behav  Neurosci. 2016; 16: 362-73.

[42] C. Obermeier et al. Aesthetic and emotional effects of meter and rhyme in poetry. Front Psychol 2013; 31: 4:10.

[43] S. Wallot, W. Menninghaus. Ambiguity effects of rhyme and meter. Exp Psychol Learn Mem Cogn 2018; 44; 1947-1954.

[44] R. Eeber, C. Unkelbach. The epistemic status of processing fluency as source for judgement of truth. Rev Philos Psychol. 2010; 1: 563-81

[45]  R. Reber et al. Processing fluency and aesthetic pleasure: is beauty in the perceiver’s processing experience? Pers Soc Psychol Rev. 2004; 8: 364-82.

[46] U. Eco. Opera aperta – Forme e indeterminazione nelle poetiche contemporanee.  Bompani. Milano. 1962.

[47] Internet: raicultura.it/letteratrura/articoli/2019/11/Alfonso-Berardinelli-il-pubblico-della-poesia-6b1b16dd-173e-405e-92f3-065166dc4c61.html.

[48] M. A. Nigro. Fra Damone e Whitman. Capoverso. Rivista di scritture poetiche. 2011; 21: 21-25.

[49] P. K. Dash et al. Molecular activity underlying working memory. Learn Mem. 2007; 14: 554-63.

[50] M. Fusillo. Estetica della letteratura. Il Mulino. Bologna. 2009, pagg. 64-65.

[51] D. DeLillo. Mao II. Einaudi. Torino. 2003, pag. 54.

1 commento su “LA POESIA DI PATRIZIA VALDUGA”

  1. (Leggendo il saggio critico del prof. Nigro: Un pensiero )

    La Valduga, merita un plauso per la sua arte poetica espressa in mirabili perfetti endecasillabi, ma non posso fare a meno di chiedermi se, forse non goda di un’eccitazione fuori campo nel farci entrare nell’intimità di amplessi erotici, con parole avvampate di oscenità. Nigro coglie nel segno scrivendo che il lettore si sente un intruso, osservatore non invitato che assiste a uno spettacolo a porte chiuse, che non prevede pubblico. Si ha propriamente l’impressione che i lettori si trovino nei panni dei cosiddetti “guardoni” che, senza spiare dal buco della serratura, assistono, si può dire in presenza, all’accoppiamento animale di un uomo e di una donna assatanati dalla passione carnale. Sono cose reali che succedono, più o meno comunemente, fra partner di sesso diverso o dello stesso sesso. La letteratura poetica epigrammatica greco-romana ne è piena, però più allusiva e amorosa, che marcatamente coitale.

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