L’ATLANTE DELLE COSE DI RUFFILLI

L’ATLANTE DELLE COSE DI RUFFILLI

Paolo Ruffilli tenta un’impresa decente e disperata. Nel suo “Le cose del mondo” (Mondadori, 2020) muovendosi con la perizia del tessitore di versi consumato fino a raggiungere a volte guizzi di sorgiva ironia e lampi di grazia, propone, dopo la sezione iniziale dedicata al viaggio o alla sua illusione, una specie di catalogo delle cose e dei movimenti dell’animo che con poesie brevi e pensose prova a catturare. Così abbiamo poesie dedicate alla paura o al piede, alla nostalgia del mare o al pene, dal “tatto delle cose” o direttamente a loro “le cose”. Un catalogo apparentemente  nel segno della resa, ma intesa come unica possibile accettazione del mondo e del destino che Ruffilli vi vede inscritto, ovvero il progressivo annientamento delle cose che pure, secondo un topos letterario già sviluppato da tanti -tra cui ad esempio Giampiero Neri- si sa durano pure più delle persone. Un libro personale e cosmologico, che indaga la natura del linguaggio e la resistenza materiale della vita. Ruffilli però nella sua quasi pacificata catalogazione al cui fondo tiene sempre desto un cuore che “conosce la paura”. La stessa forza definitoria di oggetti, cose sentimenti, realtà fuggevoli pare il riflesso di una lotta contro una paura di fondo. Forse la poesia ê quell’ambito dove può accadere che la parola umana fallisca a questa classificazione che è conoscenza. Pure potendo essere la poesia il luogo di  “poche semplici uniche parole”.

Poche semplici uniche parole

solo strettamente necessarie

secche scorticate nel loro lividore

quasi puntiformi e tuttavia capaci

per ampie ondate in successione

di ingrandire e amplificare il senso

dentro lo splendore illuminante

della sua accensione, fino a indurre

la più inedita ardua comprensione.

Ma se fallisce la poesia allora cosa ci resta? sembra gridare dal fondo trattenuta la paura di Ruffilli che alla poesia ha dedicato la vita. E allora forse non si tratta di una “resa”. Il gesto di Ruffilli documenta che non crede che il male sia nelle cose, per riecheggiare un romanzo del Cucchi probabile estensore della partecipe quarta di copertina, dove si sottolinea giustamente la natura di “atlante anatomico” di una parte del libro. Che Atlante lo è di tutto. Quarta di copertina dove tra l’altro veniamo informati che questo lavoro è un risultato di un progetto quarantennale a cui Ruffili non ha mai cessato di lavorare mentre pure percorreva i tanti viaggi della sua poesia, sia viaggi stilistici e fisici in giro per il mondo. Come se a questo appuntamento nudo con le “cose” il poeta dovesse arrivare, aperto a tutta la deficienza e la magnifica ambiguità del dire, e con esse in lotta. Deficienza e magnifica ambiguità che proprio nel termine “cose” trova una sua speciale verifica. Infatti, ricordo che il mio traduttore americano sottolineava la difficoltà nel tradurre i miei testi proprio a riguardo dell’uso che facevo del termine “cosa”, che proviene all’italiano da una radice che sovrappone il latino causa (motivo, affare) con il significato di res (propriamente cosa oggetto) arricchendosi in un modo che, ad esempio, il semplice “thing” non  abbraccia del tutto. La cosa, in italiano, le cose, hanno insomma come un sovrappiù di senso rispetto a quanto esprimiamo con il termine oggetto o particolare. Una sorta di sostanza, di motivazione che appunto muove l’atlante di Ruffilli come fiore estremo di una “poesia delle cose” che qualifica l’intera poesia italiana stessa rispetto ad altre tradizioni, legate maggiormente alle facoltà immaginative, o alle tensioni filosofiche. Non che queste ultime non siano ben presenti nella nostra migliore poesia ma sempre innestate in una attenzione, in una adesione alle cose che accomuna anche autori divaricanti per stile e poetiche, un D’Annunzio e un Pascoli, per dire, o un Bertolucci e un Caproni. Una caratteristica che viene su da Francesco d’Assisi fino a Montale e presente come fibra della migliore nostra poesia. E se il correlativo oggettivo di eliotiana anglosassone memoria era certo nutrito dei prodigi allegorici di Dante, e dalle sue verticalità di viaggiatore tra mondi, ora la mente indagatrice di Ruffilli sembra percorrere una dimensione “orizzontale”, a seguire quel che dice la bandella. Ma accade di trovare, specie nella parte finale del libro, ove la poesia e il dire quasi superano se stesse e le cose come materia della riflessione, non a caso con certe lontane cadenze di versi luziani, se pur rallegrati da cadenze ironiche caproniane, un altro passo, non solo “orizzontale”. Qualcosa che somiglia al taglio di Fontana. Una indagine che è per così dire anticipata da vari testi lungo il libro, tra cui uno in una sezione centrale nella raccolta chiamata “Il nome della cosa”:

Eccolo, il nome della cosa:

l’oggetto della mente

che è rimasto preso e imprigionato

appeso nei suoi stessi uncini

disteso in sogno, più e più inseguito

perduto dopo averlo conquistato

e giù disceso sciolto e ricomposto

rianimato dalla sua corrosa forma

e riprecipitato nell’imbuto dell’immaginato.

ecco quella indagine, dicevo, sulla parola e sul dire da orizzontale diviene indagine sulla visione stessa, indagine sulla forza rivelativa delle cose, alla ricerca della “anima del mondo”. Indagine tesa a ricevere “l’annuncio” di qualcosa “oltrepista” come dice l’ultimo testo:

deflagrare

il flash inaspettato

l’annuncio

della rotta

che tira all’indimenticato,

dell’oltrepista

per quello stato eterno

dentro la vita

disperso e frantumato

dalla vista?

Qui si chiude il libro-atlante di Ruffilli, in una tesa interrogazione, tensione segnalata anche dal farsi in tale finale più franto e ritmico dei versi. Come se il viaggio, e il suo minuzioso inventivo e pure divertito resoconto, avessero offerto sempre più verità e drammatica sostanza alla domanda, ovvero alla disposizione bambina del cuore umano. Infatti l’autentica poesia -come Ruffilli qui mostra- è uno dei modi con cui l’animo umano, anche quello stesso del poeta carico degli anni suoi e dei secoli che le voci gli hanno fatto risuonare addosso e dentro, possa tornare sempre bambino. Non solo homo faber o homo aeconomicus, ma homo quaerens, et admirans. Riscoprendo anche al termine di un lungo cammino intatta e più viva la linfa della sua vera giovinezza.

Davide Rondoni

Clandestino

 

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