A PROPOSITO DI PALAZZESCHI
Ogni tanto si presenta un’occasione per tornare a parlare di Palazzeschi, ma l’eco intorno non è più quella di una volta. L’eclissi della neoavanguardia, che ne aveva assunto il rilancio, ha coinvolto anche lui. Quando ci lasciò, quasi novantenne, nel ’74, era un patriarca. Oggi se ne va con quei morti che camminano in fretta. Calvino ha posto fine alla querelle se la letteratura del Novecento dovesse esser letta in chiave avanguardistica o secondo la stabilità aurea degli anni Trenta. “Ei si nomò…”, e la storia del secolo disparve in un soffio. La stessa distinzione tra il Palazzeschi iconoclasta e quello toscanamente riconciliato sembra non aver più ragion d’essere. Così, nei recenti volumi einaudiani dedicati alle Opere, che accolgono tante piccole monografie sui singoli libri che meglio rappresentano gli autori, non troviamo un saggio sul Codice di Perelà, del 1911, che tutti ormai si erano acconciati a considerare come il vero capolavoro, la più eversiva protesta di questo narratore, ma uno su Sorelle Materassi, del ’34, firmato da Giuseppe Nicoletti e in se’ eccellente, che peraltro impone ben diversi problemi. Una studiosa che da tempo insiste nello scavo del primo Palazzeschi è invece Adele Dei. Aveva pubblicato presso l’editrice Zara di Parma I cavalli bianchi e Lanterna, e ora è la volta di Poemi, del 1909, che recavano già l’annuncio del Codice di Perelà e motivarono l’invito di Marinetti al ventiquattrenne fiorentino a entrare nella famiglia futurista. Intanto Stefano Giovanardi ha prefato i suddetti libri poetici (Cavalli, Lanterna e Poemi) per le Edizioni Empiria (a cura di Giovanna De Angelis), insistendo sulla forte suggestione figurativa di questi testi, e Marco Marchi ha intitolato Palazzeschi e altri sondaggi (Le Lettere) un volume di scritti critici dove, da Perelà alle Materassi, al Doge, protagonista è la prosa, sia in chiave filologica sia nell’indagine dei significati: per arrivare a una lettura delle Materassi del tutto innovatrice che, sotto un’apparenza piana e rettificata, rivela un magma oscuro di desideri e di proibizioni, d’impudenti esibizioni e di travestimenti, sì da rimettere in discussione il giudizio di Vittorini che, sul Bargello, rimproverava all’autore di avere scritto “un romanzo quant’ altri mai romanzo”. Che non era un giudizio sbagliato, bensì privo di quella psicologia ora riportata in luce. Sono motivi che circolano anche nelle fittissime note della Dei. Che significa specchio, che significa finestra? E spesso è chiamato a rispondere Palazzeschi medesimo: “Avevo due anni. Due anni e un amore già: la finestra… Che cosa a quell’età potesse rappresentare la finestra non è facile a dirsi… L’aria, la luce, il mondo, la libertà, la vita?” (Il piacere della memoria). Una trama di simboli che scorre davanti ai nostri occhi come i dipinti di una galleria: così il poeta intitolò una sezione di Poemi; e basti un esempio a chiarire il concetto: “Un prato quadrato, / cento altissimi cipressi per lato. / Nel mezzo (nessuno sa / in quale anno sia nato) / c’è un grandissimo salice bianco”. Rispetto al livello di un Pascoli la semplificazione è paurosa. La valenza simbolica non nasce mai dalla parola ma dall’immagine: quasi preferiamo il Palazzeschi che si confessa (alla maniera di Arlecchino) nel Principe scomparso: “Era col suo cane bianco? / Era solo. / E dove lo vedeste? / In tutti quei luoghi / dov’esser si può, / impunemente infelici…”, oppure quello che s’inventa una serie di nomi buffi di donne buffe, nomi ritratto, come sarà nel Codice. Ma nel passo appena citato c’è una virgola dopo si può, che veramente è di troppo. In seguito sarà sostituita da tre puntini di sospensione, a rendere più ammiccante la parodia, ma intanto ci rivela la scarsa dimestichezza dello scrittore coi propri strumenti. Il Marchi ci ha fornito dovizia di esempi in un saggio sulle correzioni del Codice, dove emerge che l’autore pur cercando la normalità grammaticale, non la raggiunge mai; e forse sarebbe il caso di chiedersi se questa assenza di attrezzatura retorica non abbia contribuito alla flessione di fortuna cui si accennava in un tempo, qual è il nostro, di nuova sofisticazione. Come potrebbe Palazzeschi interloquire tra Gadda e Calvino? Che cosa avrebbe da offrire ai critici e ai lettori che in costoro hanno placato ogni sete di modernità? Eppure ci ostiniamo a credere che l’autore di Chi sono?, Rio Bo, Habel Nassab, La fontana malata (titoli tutti appartenenti a Poemi), che già offriva a Marinetti gli elementi per impiantare l’apoteosi del teatro di Varietà (La fontana malata si sarebbe prestata a perfezione per una lettura di Petrolini), ci abbia tramandato di sé un’immagine non sostituibile. La passeggiata, più tardi, tutta fatta di reperti di linguaggio pubblicitario, sarà la più bella poesia dell’avanguardia (come Il codice il più bel romanzo), mentre sui tempi lunghi durerà fino a un racconto degli anni estremi, Stefanino, il gioco a nascondino con la vita (dichiararsi e negarsi) condotto con una leggerezza pari alla pervicacia. Ma a ripensarci bene, con gli scrittori comici che sono oggi in circolazione, come potrebbe far ridere Palazzeschi?
CorriereDellaSera