L’OSSERVATORIO DI DALESSANDRO
Un edificio bianco in cima a una collina, un po’ severo e appartato, solo in parte visibile fra gli alberi e sormontato da cupole dalle quali si osservano le stelle. Presenza discreta, l’Osservatorio astronomico romano di Monte Mario segna uno dei cardini dell’universo spaziale de L’osservatorio, libro-chiave nell’opera di Francesco Dalessandro (1948); frutto, come tutto il suo lavoro poetico, di una lunga pazienza, di un soffermarsi sull’esperienza e sui modi del suo comporsi in “versi inesausti, dolenti e rapinosi”, come li definisce Gabriella Sica. Ai piedi e attorno all’Osservatorio immobile si estende la città, dilagando dalla vasta area di quartieri medio-borghesi del nord ovest che ha nella Pineta Sacchetti il suo centro di gravità e dalla quale la lunghissima via Trionfale scende sinuosa su Roma, osservatorio mobile per l’io poetico che la percorre e vedendola la immagina, la pensa, la racconta.
Uscito nel 1998 da Caramanica, ripubblicato da Moretti e Vitali nel 2011 e accompagnato da scritti di Attilio Bertolucci e Gianfranco Palmery, L’osservatorio è un libro di complessa architettura, diviso com’è in quattro parti – L’osservatorio, Stagioni del basso mondo, L’azzurro del cielo, Mare delle passioni – al cui interno ulteriori suddivisioni segnano il corso dell’anno e il ritmo delle stagioni. Una rete intertestuale formata dagli esergo disseminati nel libro – citazioni dal Purgatorio dantesco e dagli autori più diversi – e dei quali è evidente il ruolo nella formazione del senso, rende esplicita la natura del libro come un’avventura dello sguardo. “Raccontami quello che hai visto e che cosa potrebbe significare”, recita la più celebre battuta de La finestra sul cortile di Hitchcock; ed è questa a fare da cornice a tutte le altre citazioni che accompagnano la scansione in parti del libro.
“Romanzo in versi”, come lo ha definito Giancarlo Pontiggia, o direi piuttosto “poema”, come suggerisce l’invocazione alla Musa che apre il libro: “Torna, Musa, coi mattini brumosi e torbidi d’autunno…”. Un’invocazione volta a sollecitare non il sostegno nella celebrazione di un’epopea, ma un farsi guida del poeta sulla via della forma, alla ricerca di un verso adatto alla materia che vuol trattare; per la quale, dice, “ho bisogno di un verso / liquido che fluisca naturale / con forma e suono acconci”.
L’architettura del testo è sostenuta da un filo narrativo, una fabula che ha come funzione meno quella di narrare una storia che quella di fare da supporto oggettuale al prorompente lirismo che è l’autentica tonalità della poesia di Dalessandro, non consistendo in altro che nel tracciato di un ripetuto andare attraverso la città nello scorrere e ripetersi delle stagioni. È Roma lo spazio fisico del poema, “mia mortale / città, sull’acqua fosca dei tuoi fiumi / letali”, “losca e sporca città”, “città morente”; Roma, infine, “città smisurata”, dove l’aggettivo pare esprimere non soltanto un’immensità spaziale, ma anche un essere fuor di misura in senso morale davanti a uno sguardo che osserva e giudica.
Sulla superficie del Tevere fluisce il “verso liquido” del poeta dando vita a un sistema di metafore proliferanti attorno all’immagine dell’acqua in movimento: scorre la strada come scorre il fiume; il traffico è una “correntìa di luci”, “un fiume sordo – lento”, e scorre come “un fiume di luci cangianti dal bianco / al rosso defluente alle sette / serali d’una domenica d’ottobre”. Formano “un delta” i quartieri periferici, e la metropolitana è “un’altra corrente… una Via Lattea”.
Ogni cosa appare così in perenne movimento, laddove il titolo, L’osservatorio, richiamerebbe un’immagine di solida staticità. È il primo segno del dualismo che marca questo libro come il resto dell’opera poetica di Dalessandro: basti qui ricordare la costruzione “a specchio” dei sonetti tra loro dialoganti in Lezioni di respiro. Lo stesso io, del resto, oscilla “tra desiderio e abbandono”, in una dualità che si struttura in coppie oppositive i cui termini tendono a scambiarsi fra loro, ma anche e direi soprattutto, a convivere alla pari in un “inganno d’illusioni e di certezze”. Così, in primo luogo, all’immagine cupa della “torbida mortale / città” si oppone, o piuttosto si affianca, quella che “l’amor filiale riaccende di chi figlio / adottivo come sua matria vera l’ama- / odia”.
A sostegno di questa dualità – o meglio “tensione duale”, come la definisce Fabio Ciriachi – stanno sia potenti costruzioni ossimoriche, come in quella “profana / ascesa ai più infimi abissi del divino / amore”, sia tutta un’arcata di congiunzioni avversative, che intervengono con grande frequenza laddove compaia un’affermazione o definizione o espressione di stato d’animo o desiderio, a commutarla o rovesciarla nel suo contrario, o più spesso a porla sullo stesso piano in una insuperabile oscillazione del cuore e del pensiero; ed è qui il ruolo di quei ma, però, e nel senso di invece, e simili, segni di una tensione irrisolta fra due opposti, del desiderio inappagato che si fondano, “…giorni sciupati / inerti…./ però vivi e veri”.
Spiccano su tutte due parole che pur costituendo due diversi poli hanno lo stesso suono: derelizione, dilezione. Potrebbe dirsi che in questa polarità fra parole assonanti si collochi la poesia di Dalessandro, in una tensione fra due opposti stati dell’essere: quello di un doloroso senso di abbandono, di solitudine radicale, in quella derelizione che è parola largamente usata nella poesia di Alessandro Ricci, amico e sodale di Dalessandro il quale a lui dedica il poemetto-lettera che costituisce la terza parte, L’azzurro del cielo; e in dilezione, parola frequente nel linguaggio ascetico, il senso di un amore spirituale, che Dalessandro raccoglie appunto dagli scritti dei mistici – che ben conosce – per usarla in un senso in cui si fondono amore per la vita, desiderio, capacità di meravigliata contemplazione.
È sempre nel segno di un dualismo – di cui la stessa Musa è portatrice, “infine, Musa, vieni con l’affanno del nuovo / o la quiete serena che dà la tua franca / parola” –, che alla triste visione della “città morente” si oppone, o si affianca, quella di una celebrazione estatica, rapita, della natura che stagionalmente decade o trionfa sontuosa insinuandosi e intrecciandosi alla trama urbana.
Qui Dalessandro evoca dal profondo di una coltivatissima memoria letteraria i toni della poesia latina, dall’amato Orazio a Virgilio, forse a Lucrezio. E dispiega una possente immaginazione materiale alimentata da una sapienza naturalistica che gli permette – come sottolinea Palmery nel suo scritto – di indicare con i loro nomi esatti fiori, piante, uccelli – i tanti uccelli che solcano il cielo della città, rondini, storni, albanelle, “io tutto che scorre / amo tutto che vola: – scrive in un empito – candide nubi e bruni / uccelli nei cieli del Lazio migranti”; e la natura vegetale descritta in una ricca imagery, “l’opulenta magnolia”, le “delicate / precoci infiorescenze di mimosa”, i “rossi sanguinanti / tralci della vite americana”. Un’abbondanza di segni del paesaggio a compendio dei quali spicca nel suo pieno simbolismo di rigenerazione la tardiva rosa ottobrina, dalla quale si spera una promessa di nuova giovinezza, forse l’annuncio di nuovi amori.
Nell’Osservatorio domina dunque lo spazio, che pur nella riconoscibilità dei luoghi che lo compongono non si condensa in un ente unitario e stabile, ma viene visto e percepito come un insieme di continue variazioni, mentre attorno ad esso si raccolgono i pensieri e sentimenti che abitano l’universo del poema. Cardini di questo spazio di cui l’io poetico è quotidiano viandante sono appunto l’Osservatorio alto fra i cipressi, e poi la Pineta – “il Pineto assolato” del poeta –, meta abituale di lunghe passeggiate, luogo di contemplazione, nascosta sorgente di memoria. Spazio aperto cui si oppone, quasi un rifugio dall’andare, il giardino; il giardino del poeta che muore d’inverno e che si aiuta a rifiorire in primavera: il giardino, immagine e sintesi del mondo, espressione di un desiderio che vuol liberarsi dall’ansia.
Parallelo allo spazio fisico è possibile individuare un altro spazio tutto interno all’anima, suggerito piuttosto che tracciato dalle citazioni dal Purgatorio dantesco premesse in esergo a ciascuna parte del poema, e che sembrano proporsi come tappe di una sorta di percorso iniziatico che s’accompagna a quello materiale lungo un cammino in salita. Un percorso che conduce dal riconoscimento delle sofferenze dell’anima alla capacità di respingere le passioni negative, ad affrontare il fuoco e conoscerne così l’intima essenza, a sperimentare il vagare del pensiero nel suo trasformarsi in sogno. Si delinea qui a mio parere quel concetto di visione del quale fra poco diremo.
Nello spazio materiale del poema tutto scorre, e scorre anche il tempo. Il tempo del giorno che fluisce mutando forma dal mattino alla sera, e che l’indomani si ripete, in un circolo in cui si avvolgono il tempo e il fiume che ogni volta ricomincia a scorrere dalla sorgente dell’alba alla notte e da questa alla nuova alba, e ancora come in un unico giorno ripetuto. “Giorni uguali / a se stessi stagioni e ore ad altre / ore e stagioni uguali noi a noi”, scorrono insieme il fiume e il tempo, scorre la singola giornata come scorre la vita umana dalla sua alba al suo tramonto, dalla speranza sorgiva alla delusione della sera per quello che si è sperato ma non è avvenuto, nella ripetuta messa in scena di un “piccolo teatro quotidiano di dolore / e desiderio”.
“Ogni verità è ricurva – afferma Nietzsche, – il tempo stesso è un circolo”. È un tempo ciclico a determinare il cronotopo nel poema, delineato già nella stessa composizione in parti che riproducono il ciclo delle stagioni, e all’interno di queste il ciclo del giorno che nei singoli testi si riproduce. Una rimembranza del ciclo solare che dal mito greco approda, guidata da un’angoscia del tempo, al poema di Dalessandro, in cui indossa la veste di un mito personale. È uno schema ciclico perfettamente leggibile nella cadenza quadripartita delle giornate nelle sue corrispondenze con le stagioni: mattino, primavera; giorno pieno, estate; tramonto, autunno; notte, inverno. E ai quattro momenti del giorno si accompagnano l’attesa, l’amore, la caduta, la dissoluzione, momenti tematici intrecciati con la vicenda del poeta: nel tempo della sua età carica di ricordi e rimpianti, assediata da nostalgie di giovinezza e di amori.
Qui il ciclo solare ha perduto la potenza rigeneratrice collettiva delle origini mitiche; è per così dire sceso in terra, personalizzandosi nell’io poetico nel segno di una curva speranza-attesa-delusione. Ogni mattino si apre difatti su una speranza che si dilata con il crescere del giorno in una sempre rinnovata attesa, destinata a spegnersi ogni sera “all’ora / in cui greve il cuore in un cupo / silenzio si torna”. Perché ogni sera “l’inganno / mattutino si svela rivelandosi volgare / avanspettacolo giostra corteo funerario”.
“Ho bisogno di un verso / liquido che fluisca naturale / con forma e suono acconci che narri districando / il groviglio dei sensi, di un senso / semplicemente chiaro nemmeno verità / ma ipotesi del vero che sia / ricco senza effusione e scarno senza / povertà: questo m’è necessario.”
Un verso che narri un’ipotesi del vero: questo chiede il poeta. Un verso che non asserisca, dunque, ma interroghi, non pretendendo di enunciare il senso del mondo, ma solo di esplorarne possibili significazioni. In questo senso prende rilievo la frase di J. D. Salinger che appare in esergo al libro: “Tutto ciò che seguirà in queste pagine sarà basato sulla mia presunzione di essere quasi nel giusto.”
L’osservatorio è un poema dello sguardo. O meglio, della visione: “La poesia è un processo mentale esploso nella mente a partire dalla semplice visione”, così Dalessandro nella nota finale applica alla natura della poesia quanto Alfred Hitchcock afferma sulla funzione dello sguardo nel suo film La finestra sul cortile, posta ad esergo della prima sezione del libro. “Visione” è una parola polisemica che si riferisce, oltre al semplice atto della vista, ad altri significati che vanno dall’idea personale che si ha in merito a qualcosa alle immagini o scene viste in stati di estasi, di rêverie, oppure in sogno. Ma il suo significato più forte sta nella capacità di guardare ciò che è oltre, come in una interna illuminazione che metta la vista in relazione diretta con il lato nascosto delle cose.
“Ci sono immagini mobili, con suono e luce – dice Ingmar Bergman –, che non vengono mai tolte dal proiettore dell’anima, ma continuano a scorrere ininterrottamente per tutta la vita”. Il fatto che questa affermazione sia riportata da Dalessandro come esergo della quarta parte del libro, Mare delle passioni, indica come sia attraverso il filtro di una sua immagine interiore che l’io poetico osserva la città, tramutandosi così le immagini che vedono gli occhi in immagini della mente. È questo dunque che il poeta dichiara nel momento in cui definisce il proprio atto di scrittura come un raccontare “il senso delle cose che con gli occhi / della mente hai viste”. E in questa per così dire trasfigurazione della percezione visiva viene coinvolto lo stesso Osservatorio astronomico, che in apertura della sezione Stagioni del basso mondo, “si leva fermo / e fatidico emblema di sé”, annunciandosi come figurazione simbolica di se stesso nel fondersi del senso reale e di quello figurato.
Per tutto questo penso di poter dire che lo sguardo – o visione – dell’io poetico nel poema di Dalessandro sia il destinatario di una catena di epifanie in cui l’identità profonda, l’anima delle cose osservate, si rivela forando il velo dell’apparenza. E in questa visione di Dalessandro si rispecchia un’idea di poesia che Yves Bonnefoy espresse in una mirabile conferenza, richiamando un’esperienza comune a molti, propria in special modo dell’infanzia: “momenti in cui qualche cosa, o qualcuno, è lì, davanti a noi, e improvvisamente vi scorgiamo quella che io chiamerò ‘una presenza’, ovvero una densità del loro esserci, un’intensità della loro manifestazione, che trascendono con un’evidenza assoluta, irrefutabile, il nostro probabile desiderio di ridurre queste cose o queste persone a un pensiero di ciò che esse sono”.
Attraverso due testi in particolare – o meglio sequenze, come lo stesso autore li definisce –, Buon pensiero del mattino I e II, si può seguire l’itinerario giornaliero dell’io, al tempo stesso solitario e mischiato alla folla nella sua giornata appiattita sullo schema anonimo della giornata di una miriade di altri io senza volto. Gesti risaputi, alzarsi “vuoto e disfatto – al primo / suono della sveglia”, spiare nello specchio lo stato del proprio invecchiamento, bere un caffè, scendere nel ventre di una metropolitana affollata. Qui l’io è messo in scena per mezzo di un discorso in terza persona che passo passo ne segue l’itinerario attraverso singoli frammenti di eventi e sensazioni, in una catena discorsiva le cui maglie sono graficamente rappresentate da trattini che marcano ogni diverso, successivo istante.
Dal mattino alla sera, abbiamo visto, si disegna una linea speranza-attesa-delusione. E la delusione in questo testo è conseguenza della visione di una giovane sconosciuta in metropolitana durante il rientro serale, una ragazza bionda oggetto di una immediata fantasia amorosa da parte di lui, che con insistenza la guarda, assaporando l’attimo in cui finalmente ne cattura e trattiene lo sguardo e gli sembra che la ragazza sia lusingata dall’attenzione.
“Per gli occhi venne la battaglia in pria”, scrive l’amato Guido Cavalcanti: ma come è lontana –seppur così nota al passeggero Dalessandro o meglio al suo io poetico – quell’aura raffinata e aristocratica dall’atmosfera tesa e dagli scossoni della metropolitana. Tutto dura pochi attimi, la ragazza scende alla sua fermata. Adesso si può solo aspettare la fine del viaggio, infilarsi nell’auto parcheggiata al mattino, andare a casa.
Anche Baudelaire, vagabondo nella città, aveva scritto dell’improvvisa attrazione per una sconosciuta, in un sonetto dei Tableaux parisiens che ha finito per costituire un archetipo, Á une passante: un testo di un tempestoso quanto implicito erotismo e di un angustiato senso di perdita, nostalgia di qualcuno che non si è mai conosciuto, di qualcosa che non si è mai vissuta. Negli occhi della passante, una figura alta e snella vestita a lutto e con gambe statuarie, il poeta francese beve “la douceur qui fascine et le plaisir qui tue”.
Ma l’io che viene attratto dalla ragazza della metropolitana non assomiglia al flâneur, al dandy baudelairiano; essendo invece, come molto acutamente osserva Gianfranco Palmery, “l’everyman di una profana rappresentazione, pungolato dai suoi assilli – occhi, mani e nervi tesi – in quotidiana viandanza”. Un piccolo uomo qualsiasi, testimone di una piccola umanità. E se quei motivi poetici di desiderio, perdita e nostalgia sono pure evidenti nel testo di Dalessandro, essi sono immersi in un contesto ordinario, minimo, logorati da una smagata autoironia che l’io – non certo a caso qui in terza persona – affida al tono spiritoso del racconto e al gioco fonico di rime smaccate e di allitterazioni: allo scorgere l’“elegante / gazzella bionda”, egli “sente accendersi il fuoco di un preciso / desiderio carnale – improvviso ma è / normale – è il primordiale / istinto animale che si sveglia”; e dopo che l’ha vista scendere, “con ragionevoli obiezioni / reprime quel pensiero velleitario –/ non è da lui – uomo posato-uomo / sposato – onesto padre di famiglia”; e intristito e poco convinto dei suoi stessi argomenti si dirige verso casa.
Qui giunto “ritorna in sé – sa qual è il giusto verso / sa cosa fare”: la scrivania lo attende, il foglio bianco che nel riempirsi si fa testimone del “buon pensiero del mattino – “resti / vivo finché ami e scrivi”. L’everyman trova qui il proprio riscatto; “quel pensiero mattutino è il solo / specchio dove specchiarsi”.
Amare e scrivere è dunque il solo specchio nel quale si possa riconoscersi. Nell’ultima sezione del poema, Mare delle passioni, in una sequenza dal titolo L’ansia, Dalessandro cita il carme ottavo di Catullo, struggente canto di rassegnazione e rimpianto per un amore perduto, e salda fra loro amore e scrittura in un legame insidiato dall’ansia. Parola leit motiv nell’Osservatorio, declinata in tutta la sua ricchezza polisemica comprendente un ventaglio di sfumature diverse, di grandezze crescenti o decrescenti: da quella che suscita una positiva esaltazione dello sguardo e del sentimento da esso provocato, a quella che appunto nel testo ad essa intitolato “istilla il suo sottile / veleno”; ed è “quest’ansia invadente ogni vena cresciuta / d’ora in ora appena sveglio e dopo / anche dopo aver fatto l’amore”, un’ansia che si accompagna alla noia e fa dire al poeta “amore, un poeta innamorato / che ridicola cosa se non muore / o non ne scrive, ma anche scriverne / è un vizio”.
Accanto ad “ansia”, a volte insieme, “smania” costituisce un altro leit motiv, stato di profondo turbamento della mente che coinvolge il corpo, “l’ansia la tua / compagna smaniosa che mai solo / ti lascia un’ora”; ma anche impulso vitale, desiderio intenso e incontenibile, come quando “con la tenera rosa ottobrina / ritorna la smania di vivere l’amore / giovanile la grazia perduta”.
“Versi inesausti, dolenti e rapinosi”: cito di nuovo le parole di Gabriella Sica. Una definizione perfetta per indicare appunto la smania come una forma di avidità, di voracità verso l’istante. Nei versi “io tutto che scorre / amo tutto che vola” sembra che il poeta stia gridando la consapevolezza della transitorietà, dell’impermanenza di ogni stato, insieme al desiderio di far suo quel volo come antidoto al disfarsi delle cose. È appunto dal desiderio, congiunto alla memoria e al dolore, che nasce secondo Dalessandro la poesia; triade sempre presente nei toni diversi con i quali egli osserva, percepisce e narra; sempre presente laddove evoca l’amore, connotandosi così la sua fondamentale vocazione elegiaca: attesa, gioia e sensualità, rimpianto, nostalgia, cura e dolore. L’amore coniugale nella sua fluttuante e al tempo stesso salda identità – tema così centrale nell’opera del nostro e di cui è importante testimonianza il libro La salvezza –, è ricco di una sensualità al tempo stesso vissuta e ricordata, “una passione / postuma di se stessa che il miele / della tardiva fioritura addolcisce / e il rammarico stanca”; un amore che è anche ragione di pena e rancore e qualcosa che assomiglia al rimorso. Accanto ad esso si delinea l’ombra di un altro, o d’altri amori, o del desiderio di un altro amore, “vorace fame / d’amore quando amare è un furore / divergente dalla ragione e solo il puro / fuoco d’eros il fosco divampare dei maturi / sensi appaga la ridda vitale delle proprie / contraddizioni”. Amore come vagheggiamento di qualcosa che non si ha, di qualcosa che potrebbe o avrebbe potuto essere, di qualcosa che fu e che ha smesso di essere; nell’opposizione fra giovinezza e maturità, sulla quale ultima già stende la mano un presentimento di vecchiaia che rende questa attuale, a pesare già su questo tempo presente.
In mezzo a questa varietà di sentimenti si affaccia un amore che non sfiorisce, che non abbandona: “la poesia la mia più casta / amante canterina”. Ma sulla pazienza a questa necessaria incombe la presenza continua dell’ansia, compagna nemica. Condizione per fare poesia, per praticare “il paziente esercizio / dei versi il tuo vizio solitario e / necessario”, è dunque che “l’ansia la tua / compagna smaniosa”, conceda una tregua. La giornata del poeta everyman, il suo andare, osservare, percepire, sentire, sono destinati alle “cocenti concrezioni / della poesia (magro sogno di deriva / serale)”.
Con un lessico esteso a una varietà di registri che accanto al parlato quotidiano raccoglie parole come ramagli, acquivento, esperpento, barranco, L’osservatorio è dunque fitto di rinvii della poesia a se stessa, ad esigere un’attenzione costante sull’atto creativo nel suo farsi: ad affermare una consapevolezza del primato della forma, una coscienza che il carattere di un’opera non risiede nei significati di cui è portatrice bensì nella forma del significante.
“…un verso / liquido che fluisca naturale / con forma e suono acconci che narri districando / il groviglio dei sensi”, questo è quanto chiede il poeta alla sua Musa. Ed essa gli regala una “colata metrica”, come in una felicissima intuizione la definisce Gianfranco Palmery; una colata metrica in cui quel verso liquido invocato dalla Musa scorre impetuoso e instancabile, e per poter narrare “districando il groviglio dei sensi”, si attorce a sua volta su se stesso in superbe inversioni. In un medesimo movimento dunque Dalessandro organizza lo spazio del mondo e lo spazio del linguaggio; colui che va al lavoro un mattino simile ad altri scendendo la Trionfale “vede quelle / curve a spire serpentine come versi / con accorte inarcature”: ancora una volta è il Buon pensiero del mattino con la sua abbondanza di indizi a illuminare la lettura. Curve della strada come inarcature di versi: quelle inarcature – alterazioni fra l’unità di verso e l’unità sintattica – che strutturano la poesia di Dalessandro e della quale sono il più vistoso segno di identificazione. “…quei pini assiepati quei frementi / pini appena svegliati dal calore a un distretto / fortilizio rassomiglia nell’azzurra / castità del mattino che lo vede / allontanarsi sospinto da una smania / dolce da un’ansia divenuta impaziente”: rompendo la coincidenza fra sintassi e verso l’inarcatura ottiene l’effetto di tener desta l’attenzione – vorrei dire l’orecchio – di chi legge, come invitandolo a partecipare al farsi stesso del senso nel suo strutturarsi in sequenza musicale.
Il “verso liquido” di Dalessandro, tutto intessuto di rime interne, di assonanze, di frequentissime allitterazioni consonantiche e vocaliche – che a volte producono rispettivamente accelerazione e rallentamento del ritmo –, privilegia la misura dell’endecasillabo: ed è un verso che frequentemente si frange, e si chiude fra parentesi, si sospende fra trattini, scorre senza punteggiatura come in un unico respiro, si lascia avvolgere in un vorticare di ossimori (“buia luce”); di anafore (come quella nella parte finale della poesia Nel gelo, dove è un ripetuto potessi ad innervare un prorompente anelito di vitalità), in un’intensificazione del senso in direzione crescente che provoca un’accelerazione del ritmo, del respiro musicale del testo; di sinestesie (“precoce inverno / già pungente nel grigio sfilare d’automobili / assonnate”; “luce agghiacciata”; ); di similitudini (“il traffico / come un caronte ossesso traghetta / anime sorde da un girone all’altro”); di metafore (il traffico “correntìa di luci”; “una nuvola grigia pettoruta / chioccia schiudendo l’ala la sua cova di cirri”).
Infine, come accennavo, di una onnipresente, dominante forma di inversione, l’iperbato, che al pari dell’inarcatura caratterizza la poesia di Francesco Dalessandro: “e tu sul mondo solitaria / dal cielo ancora pace adduci ignara / serena imago mattutina, morte” ; e in relazione al quale penso con empatia allo psicologismo dello studioso secentesco Bernard Lamy, secondo il quale l’inversione dell’ordine delle parole corrisponde all’emozione che sovverte l’ordine delle cose.
Ho accennato a una angoscia del tempo che sottende il ciclo solare ne L’osservatorio: “… calco claudicante / le scene di un mondo di nuovo avviato / all’autunnale sperpero di vita al desiderio / di morte”. A questa si accompagna, cito ancora Palmery, un barocco orrore del vuoto, che l’esuberanza del verso tenta di riempire. Desiderio di morte, orrore del vuoto, linee serpentine. Si estende in effetti sulla poesia di Dalessandro l’ombra lunga del barocco, un austero barocco novecentesco scevro di preziosismi, “ricco senza effusione e scarno senza / povertà” nel verso liquido che il poeta invoca dalla Musa; e del quale mi limito qui a dare un esempio fra molti possibili in questa immagine in cui l’acqua si va fondendo con il mondo vegetale, mentre defluendo il fiume si ramifica similmente a un albero: “…un fiume sordo-lento defluisce / e pulsa vita nell’opposto verso / nel giro del ramo che si piega / e divarica dal tronco in minori / affluenti, in un delta di quartieri / periferici o stagna nel traffico”.
Nei Versi epici, n. 11 dell’ultima parte, il barocco orrore del vuoto incontra il grido desolato di un antico poeta bizantino, che Dalessandro fa suo adattandone i versi per introdurli nella propria composizione come una seconda voce. È un grido dalla profondità della storia che trova qui un’eco fraterna, il riconoscimento in se stesso del medesimo “male male maligno che mi tormenti e corrompi”, poiché “il vero morbo / è nella mia faticata realtà guasta e sentimentale”. Siamo qui prossimi al concludersi del poema, e qui tornano ansia e smania: “Mani maligni ai vostri piedi mani / e piedi legati mi hanno prostrato i miei / mali la smania e l’ansia mi hanno / legata la lingua”.
La luce che un tempo splendeva nel mito del ciclo solare è ormai, come si è detto, al suo ultimo bagliore: una condizione tragica, dunque, della vita umana e del mito nella fase finale del suo esaurimento. E del resto, secondo una ripetuta asserzione del poeta, nella poesia non c’è salvezza. Tuttavia la tragedia in Dalessandro – felice traduttore di Tibullo – trova il suo scioglimento nei toni malinconici dell’elegia; i più adatti del resto alla visione autunnale del poeta, visione in cui il “pensiero di morte” che viene dall’ “ora mattutina tra le sette / e le otto”, è, sì, “chiaro, ma così vago e trasognato / da somigliare alla foschia fluttuante / sui profili dei templi delle chiese”.
Nel continuo oscillare della coppia derelizione vs dilezione, sembra così affiorare contrapponendosi all’ansia, e come placandola, una serena stanchezza: e un senso di dilezione espandersi come nella superba costruzione anaforica cui sopra accennavo “potessi svenire / in quest’ora assetata di vita e di viva / speranza potessi svaporare / sui ponti vibranti di traffico sull’acqua / dove i gabbiani si tuffano affamati / dagli attici pensili al sole potessi svanire / al calore intermittente di un mattino”. L’immagine – forse anch’essa vaga e trasognata come il pensiero di morte – di un rinnovarsi dell’attesa anche se questa non potrà che avere lo stesso esito, chiude il poema in una sia pur temporanea vittoria della luce, “negli occhi stupefatti è pura / luce il fiume la città corpo segnato / per secoli paziente si dispone al nuovo / giorno”.
Poema della visione, L’osservatorio si conclude così su una stupefazione dello sguardo in cui si raccoglie il suo senso profondo. La stupefazione dalla quale sgorga, in un contrasto con le immagini della “città morente”, quella che pare a me la più intensa immagine della città in tutto il libro: “assorto / dono di meraviglia, è un vascello / fantasma la città un errante clipper / spettrale nel biancore della bruma / del sogno”.
La poesia non ha lasciato il “deserto cuore” che nei Versi epici ne lamenta l’abbandono. E se pure non sta in essa la salvezza, per mezzo della “testura infelice” del farsi poetico il tormento della visione si è disciolto, così come deve essere, in un’intensa felicità d’espressione.