PASSIONE E IRONIA IN ANTONIA MASO
Come diceva Andrea Zanzotto, servendosi più volte dell’espressione che nei Vangeli e nell’Apocalisse designa il messia: logos erchomenos, “parola che viene”, il dialetto viene “di là dove non è scrittura né grammatica”, parola che rimane per questo “quasi infante nel suo dirsi”. Il dialetto non è insomma per Zanzotto “una lingua accanto alle altre, ma l’esperienza della stessa sorgività della parola”, qualcosa come la struttura stessa del linguaggio nel suo nascere, nel punto in cui chi parla “tocca con la lingua (nelle sue due accezioni di organo fisico e sistema di parole) il nostro non sapere di dove la lingua venga, nel momento in cui viene e monta come il latte”. A maggior ragione voglio qui ricordare le parole di Zanzotto, per segnalare un libro di poesie scritte in un dialetto veneto, e più precisamente il bassanese (sia pure innervato di parole che suonano all’oggi), Còntame nona di Maria Antonia Maso (Biblioteca dei Leoni). La Maso, degna erede di Zanzotto, usa una lingua immaginosa e felicemente “particolare”, ricostruita dal presente e dal suo modo di reincarnare i neologismi dentro il corpo del dialetto reinterpretato con una pronuncia personale: “una lingua che è in grado di raccontare e di rappresentare coinvolgendo immediatamente il lettore” non c’è dubbio, e capace di farlo aderire in pieno alla passionalità, all’intelligenza e all’ironia dell’autrice.