IL NOME E IL DOMANI: PAOLO RUFFILLI
Una ricognizione previa. Anche nel suo Le cose del mondo (Mondadori) per Paolo Ruffilli poesia non è rispecchiamento della realtà, semplice mimesi, magari schizomorfa immagine del mondo. È rifondazione e riorganizzazione del tempo in cui il vissuto si struttura e si dispiega. E ricostruzione dei processi semantici. In questi termini potrebbe apparire una riproposizione della poetica novissima, o forse di quella, oggettiva e oggettuale, della linea lombarda (il che, per altro, entrerebbe in conflitto con la settecentesca dolceamara cantabilità di Ruffilli). Siamo di fronte invece a un tertium datur, alla terza ipotesi esclusa dalla filosofia. Qualcosa può, insieme, essere e non essere, porsi al di là dello stesso principio di non contraddizione. Come nella ontologia quantistica o nella logique des ensembles flous, una logica sfumata, per cui tra vero e falso, reale e irreale, non c’è netta esclusione, bensí una gamma indefinita e potenzialmente illimitata di sfumature e gradazioni. Ricreare per verba, quindi. Una delle difficoltà a riguardo è lo scontro con le leggi della logica, ma non a vantaggio di una radicalità extralogica. Diciamo allora: ricreare per verba una omologia di opposti in assenza di connessione logica, a partire dalla contraddizione che riflette e traduce quell’elemento certo che è l’incoerenza delle cose, il solo orizzonte in cui le cose del mondo si rivelano. Anche la poesia è antilogica, ma spessissimo è alogica, cioè, inevitabilmente, analogica. La rappresentabilità del mondo passa per l’opposizione, che a sua volta si basa sulla complementarità con una implicita controparte e sui tratti contestuali delle cose. Oltre il dominio di questioni reciprocamente irriducibili, come nelle filosofie orientali, Ruffilli si muove nel campo di una unità dinamica, nella convergenza di fattori divergenti. Rimettendosi alla necessità dell’antitesi – tratto saliente del suo versificare, nella collocazione simmetrica degli elementi in contrasto –, o dell’antifrasi, come tempestivamente rilevava Roland Barthes (1). Contestualità delle cose, acquisizione di senso nella prossimità incongruente, intersettorialità: i vari gradi e le forme dell’essere (inanimate, animate, parti di noi, e noi, privati di ogni sublimità) non vanno inquadrati settorialmente. In linea con tale premessa, Le cose del mondo (nota di Maurizio Cucchi) si presenta come un composto, l’attuazione di un progetto unificante. Dopo l’eclissi del soggetto poetante in Natura morta (2012), con Le cose del mondo rientrano, senza mai declamarsi, il locutore e la sua dimensione personale, che tuttavia tornano a sgretolarsi già dalla terza sezione dell’opera («La notte bianca», da Jurij Živago: «la notte bianca che tante cose ha rivelato», traduzione dello stesso Ruffilli) per la qualità plurale degli assunti e l’incalzare di un destino unanime, cui meglio si attaglia un anonimato che enfatizzi l’aura contemplativa, la condizione riflessiva della poesia. Nel viaggio attraverso la propria scrittura Ruffilli configura un arduo amalgama di anni, temi, stilemi. Configura l’interna coesione dell’opera nella trasposizione del discordante in simultaneità. Come uno è il corpo qui diviso in sottosistemi che rinviano a una totalità complessa. È da notare un distanziamento dalle seduzioni della memoria, cosí come l’azzeramento di ogni residua descrizione di atmosfere in dissolvenza, salvo in alcuni punti della prima sezione. La destinazione del viaggio è arrivare a designare le cose del mondo, e farlo senza temere stridenze e disfemismi. «In poesia le sillabe fanno l’amore», fu detto. E in Affari di cuore (2011) l’amore è sí coinvolgimento, nodo che avvince, forse destino. Ma anche insidia, sviamento, sindrome amorosa, souffrance. Un sentimento di cui non vengono risparmiati gli aspetti piú scabri, come, appunto, nella poesia di Ruffilli in generale. Ma questo viaggio non disegna una deriva, non è senza nostos. Là dove esso termina, e cioè nel ritorno a casa, inizia il viaggio di scrittura. Tuttavia, dire scrittura riferito a Ruffilli può sembrare elusivo e riduttivo. Sono esclusi dal suo orizzonte proclami di autoterapia o di autobiografia: non si tratta qui di mettere in sillabe i nostri silenzi, né di constatare e contrastare la nostra finitezza affidandoci a lettori a venire. Anche alla domanda ultima, sulla morte, risponderebbe che è un incontro con la domanda sul recondito senso o sulla insensatezza della vita. Esclusa anche l’urgenza di uno schermo, scrivere per Ruffilli è qualcosa di piú esigente, selettivo, impegnativo. È misurarsi con la realtà – mai assunta come patria lontana – per intercettare quelle «parole sciolte via dal laccio / che le lega nel piú profondo strette, / assetate sempre di libertà e di arbitrio». Scrivere è nominare, cioè «riplasmare in lettere una essenza». E alla radice del nominare si situa l’immaginare metodico, che in accezione ruffilliana abolisce la distanza dalla vita e dalla realtà, dirada le forme di dogmatismo e punta al quintessenziale: nel suo esito precipuo, il fingere, il dare forma a verità altrimenti inintelligibili. L’immaginazione quale fonte di intelligibilità è il criterio di base, se disatteso le cose non oltrepasserebbero lo stadio intrasparente e stratiforme del quasi-essere, che in una gerarchia di gradi di essere costituisce qualcosa di impensabile tanto quanto il non-essere. Un gruppo di motivi tipicamente ruffilliani figura nella prima sezione, «Nell’atto di partire», combinati con il paradigma del viaggio. «L’imprevisto che è legato al moto»; il movimento che relativizza e inverte ogni prospettiva; la necessità di «perdersi / per potersi davvero ritrovare»; le sembianze intraviste, «ombre che fuggono di scena»; la fortuità-necessità, proustianamente, di un incontro: ma che poteva solo essere; il motivo già leopardiano e pascoliano «che piú si va e meno si trova / e non si arriva da nessuna parte»; la vita come «inseguimento di se stessi»; gli effetti della distanza; l’asintotico senso delle cose, «perduto prima / di averlo conquistato». E lo squallore delle stanze di albergo, l’odore stantio dei corridoi per accedervi, «nel cono di polvere / che sale con la luce nebulosa», la stessa stazione quale luogo di assenza di tensioni proprio nel suo essere l’acme delle tensioni rivestono quasi una funzione correlativa: la vita è un «moto inerte», a conti fatti è sradicamento, solitudine, estraneità. Benché «tutti quanti insieme in corsa», come in treno. Oppure, come Virgilio morente: «ciascuno è circondato da una foresta di voci, ciascuno vi cammina smarrito per tutta la vita, cammina e cammina e tuttavia è immobile nell’impenetrabilità della selva delle voci» (Hermann Broch, La morte di Virgilio, 1945, nella traduzione di Aurelio Ciacchi). Nel lungo lavoro di Ruffilli Le cose del mondo profilano una prospettiva lustrale. Disperse le scorie adulteranti e inarmoniche, i titoli intermedi non piú significanti, i passaggi non obbligati, l’opera – l’autore dice – vuole essere «unitaria, come costruzione poematica, ed è l’esito di una lunga elaborazione, di un lavoro piú che quarantennale». Dove rileviamo un progressivo illimpidimento del lessico e dei fatti di stile, insieme a una crescente complessità dei contenuti del pensiero fingente. Tra i lati costanti della sua ispirazione c’è l’assunzione delle cose del mondo – e l’umano con esse – nei loro differenti livelli di esistenza: dalla dimensione oggettuale costitutivamente irridente verso l’umano e il suo decadere, al materiale empirico, alla morale per la figlia, a un consuntivo sulla vita e al conto aperto con essa, alla nominazione della autorità del corpo – senza che alcun misticismo del corpo o allusioni al soma-sema interferiscano. L’ultima sezione, pur incrementandosi con interrogativi-asserzioni, e in ultima istanza con il senso stesso dell’interrogare, sigla la piú che consolidata visione dell’essere, della vita e dell’arte verbale di Ruffilli consegnataci con Natura morta. Non sfugge il paradigma del riuso di sé – riscrivere, riscriversi –, la riproposizione dislocata di brani poetici antecedenti. Qual è la ragione di quell’emblematico indice che è la replica? Che qui si definisce come ripresa, cioè un prendere di nuovo, un nuovo inizio, e quindi anche un nuovo sguardo, dopo una sosta. Ruffilli sembra anzitutto mobilitare il lettore all’altezza di correlare il già scritto a nuovi contesti. La ripetizione – la «compagna amata di cui non ci si stanca mai», come Kierkegaard la definiva – allontana lo spettro della staticità ed imita il dinamismo temporale dell’esistente, che nel suo divenire altro porta con sé tracce di anteriore. E il dinamismo è un elemento-chiave di una poetica difficile perché fondata sulla metamorfosi. Se la metamorfosi è la regola del mondo, in poesia dà luogo a nuovi nessi e a improvvise disgiunzioni: «È proprio andando che si capisce / qual è il rovesciamento di ogni prospettiva». Il che dà la misura della inesaustività della ricerca di Ruffilli. Con il nome ripetuto si tende a qualcosa, e questo qualcosa costituisce la base per una nuova ripetizione. Purché non ci si attenga letteralmente alla retorica, per cui la ripresa di un nome o di frasi mira al consolidamento di un concetto. Anche per la circostanza che quel concetto, distolto da quel tempo e installatosi in un altro assetto, ora non c’è piú. È chiaro che in Ruffilli il modello retorico non è vincolante. Ciò che ritestualizzando si intende intensificare è forse un particolare dato di esperienza, qualcosa che non è andato definitivamente smarrito per avere piú di altro inciso in una maniera di essere. Ma Ruffilli guarda sempre in avanti (non è un caso che l’opera inizi con l’immagine, letterale ed emblematica, del treno, guardando dal finestrino: «Scoprendo che la vita ci precede / nel mentre stesso che rimane indietro»). E sul senso della Gjentagelsen l’appena richiamato Kierkegaard diceva: «ripetizione è un termine risolutivo per ciò che fu ‛reminiscenza’ presso i Greci», per i quali conoscere è ricordare. Fu Leibniz, secondo Kierkegaard, a focalizzare il discrimine tra ricordo e un diverso rapporto con il tempo: l’intera esistenza è una ripetizione, un ricordare seguitando. Diversamente Montale: «Altro comfort fa per noi ora, altro / sconforto». Mentre in Ruffilli il ricordo si svincola da legami e contingenze temporali, si differisce e si rinnova, si rimette al corrente con il tempo. Søren Kierkegaard, La ripetizione. Un esperimento filosofico (1843): «Ripetizione e ricordo sono lo stesso movimento, tranne che in senso opposto: l’oggetto del ricordo infatti è stato, viene ripetuto all’indietro, laddove la ripetizione propriamente detta ricorda il suo oggetto in avanti. Per questo la ripetizione, qualora sia possibile, rende felici, mentre il ricordo rende infelici» (come traduce Dario Borso). E Ruffilli: «Nella felicità ci sfiora il tempo / senza lasciare tracce vere / e poi il ricordo, per quanto faccia, / non è capace di far rivivere il piacere». Può esserci allora una felicità meno labile, o diversamente labile, magari nella scrittura? Nel reperimento dell’adeguato nome? Cioè l’integrale sintesi di contenente e contenuto, di incorporante e incorporato? Negli Appunti per una ipotesi di poetica (che seguono Natura morta) affermava di non guardare nostalgicamente al tempo irreversibile, il che comporterebbe vivere un presente imbrigliato in ciò che è stato. Per lui, se da un lato non ha senso la nostalgia per ciò che con la metamorfosi costantemente si ricrea, non c’è cosa destinata all’estinzione (e questo è sempre stato uno dei suoi assunti piú alti), dall’altro lato mostra di concepire la nostalgia come un sentimento dispersivo, che talora si combina con la voluptas del tempus edax e della caducità. Quello dello spostamento in avanti è un tratto nodale della sua ricerca, e quando il nome riesce a circoscrivere l’informe sfuggente, a stringere la cosa, se non di felicità, si può almeno parlare di felicità linguistica per il conseguimento del suo obiettivo supremo: scongiurare la landa poetica, fin dai lontani anni Settanta. Insisto sul motivo dello spostamento in avanti anche perché spesso la ripetizione chiama e chiede una verifica. Inoltre, l’iterazione legata al dinamismo è il contrario del ricordo che sbarra le vie di fuga e inibisce la durevolezza delle cose del mondo e, di conseguenza, spegne ogni nostra speranza. Cosí Ruffilli: «L’enigma si disvela nel linguaggio: / le cose vive hanno radici lunghe / che pescano sempre nelle cose morte. / Ciò che rinasce puro si trasforma, prolungandosi, nella speranza del futuro». E il futuro è l’àmbito dell’agire, un passaggio quindi, non una meta. Le sezioni «Il nome della cosa» e «Atlante anatomico», oltre il loro posizionamento strategico prima dell’affondo finale, se condividono l’idea del catalogo, almeno per un verso ne divergono radicalmente: le cose non sensibili ci sopravvivranno. I nostri organi sono deperibili, mentre le cose hanno i requisiti per resistere al disfacimento. La loro dissoluzione ha tempi lunghissimi, e nessuno se ne avvede. Ma Ruffilli tende ad oltrepassare la mistificazione insita nell’evidenza, quindi suo obiettivo in entrambe le sezioni resta la tensione nominante: volta ad arrestare – senza la certezza di averlo sequestrato o nitidamente identificato, giacché il divenire è anche il fato del nome, come la modalità dell’iterare suggerisce – quell’istante, lo stabile nel fluttuante, quel rapporto essenziale affrancato dal qui ed ora, tra le diverse proprietà della cosa (abbiamo frequenti incipit in elencazione ellittica, in particolare nella sezione «La notte bianca»: sono prove di nominazione? Di ricostruzione di processi, come dicevo all’inizio?) ben sapendo che quel quid può per lo piú godere di una decisa pronuncia unicamente attimale, per poi impallidire, regredire al rango di accenno, di allusione, avvisaglia, tornare fuori campo ed essere ingoiato dall’indifferenziato fondo della realtà. Quanto al catalogo delle parti anatomiche, il nominare incontra la difficoltà di superare la dualità degli «stranieri opposti maschile e femminile». Anche le parti del corpo vogliono essere rianimate attraverso parole scritte che le ravvivino strappandole al vuoto, cioè all’ancora senza contenuto. Le parole, se profondamente incise, se fondanti una sinergia tra tempo e spazio, costituiscono un frammento di mondo, un àmbito contratto, evocano una densità spaziale che dilata i nostri sensi e lambisce le questioni ultime. Nel nominare «È la ragione che si fa linguaggio / volto a spiegare perfino il sentimento». Ma il nome rende fedelmente l’originale che designa? O non può non adulterarlo? Il solito dualismo: un conto è viaggiare, un altro è scrivere il viaggio. Qualora non si attinga alla «visionaria immaginosa verità» di una parola che abbia incorporato le differenze di cui si compongono le cose. Che abbia sorpreso il loro rapporto omologico. Questo climax sulla nominabilità come plasmabilità di una essenza culmina nell’ultima sezione dell’opera, «Lingua di fuoco»: qui la parola scritta «emerge su dal fondo», «di colpo cessa di essere in procinto», «esonda», dà «corpo all’ombra», «forma al fantasma». La parola scritta coglie qualcosa di sopradialettico, e restituisce «forma contorni e consistenza» al retroscena del visibile. Da qualsiasi lato lo si prenda, il metodo di Ruffilli comporta uno scatto in avanti: rimette continuamente in gioco i termini della sua ricerca, riprende nodi in forma di parole che si sciolgono nel corso del tempo e in corso d’opera, sicché ogni clausola non sarà mai, letteralmente, conclusiva. Come, per rubare una metafora alla musica (territorio ruffilliano di elezione), in una perpetua cadenza d’inganno, oppure in una wagneriana melodia infinita, in cui l’udito e l’anima, delusi dalla mancata quiete dell’obbligato ritorno alla tonica, della costante convergenza verso il centro di gravità dello spazio sonoro, sono ogni volta ridestati dalle nuove evoluzioni, dai sempre risorgenti arabeschi della melodia e dell’armonia.
(1) Blanchot nuos a appris que l’espace de l’écriture est un espace de mort. Et Ruffilli peut être considéré comme le cas unique et singulier de la façon qu’a lettre poétique d’être toujours la lettre qui transperce, après avoir, été, le temps d’un instant plus ou moins prolongé, la lettre qui éclaire. Dans le rapport que sa poésie crée avec les photos, qui en sont le point de départ, mais aussi, de quelque manière, le point d’arrivée. Dans une intemporalité perplexe et hallucinée qui est celle de la Photographie, dont l’évidence n’est pas là pour perpétuer la nostalgie-plaisir, mais pour sceller l’amour-most qui s’y est imprimé. De la série d’épigraphes de cet “album de famille” s’égrène un propos qui, sans être évasif, veut raconter une historie en en récupérant les fragments réduits en cendres, pour les fixer d’un regard lucide et d’une mémorie d’autant plus sereine que possible. Ayant recours à un “alphabet morse” de quantités minimes origianl aussi qu’incomparable, d’où jaillit une musique contractée, rude, verticalement aiguë jusqu’à la limite même de l’audibilité. Opération critique, non pas rite d’exorciste. Ruffilli la réalise grâce à sa générosité certaine et à l’admirable souplesse de son style, à la fois “chroniqueur” posthume et témoin involontaire, affectueux et amer, qui se sert de la littérature, de la poésie, pour ne dire que le nécessaire. Il est rare de remarquer des effets si inquiétants dans un contexte apparemment décontracté à l’air aussi léger. Cette poésie a la force de ce qui sait angoisser le lecteur, tout en le charmant. Et le poète montre bien, indirectement, par de petites écailles jaunies, l'”intérieur” bourgeois: les manies, les vides, les cruautés, une certaine folie flottant par-delà toute dignité et toute discrétion. Cela en vertu de la loi de l’antiphrase, qui rend le style d’autant plus affable qu’il est le plus impitoyable. Et on ne saurait pas du tout contredire l’auteur sur la nature tragique (pourtant indicible et prononçable rien que de brèvres formules volatiles) de l’existence. (“Cahier de poésie”)
“Le cose del mondo”, l’ultima raccolta di Paolo Ruffilli, ha il respiro della lunga meditazione, il passo della riflessione sublimata in un percorso lungo anni in cui la mente e i cinque sensi, immersi – quasi stritolati- nella morsa asfittica e abrasiva delle vicende e delle cose, tentano per reazione di aprirsi un varco, cercano una via d’uscita in quel groviglio inestricabile (quasi labirintico) in cui l’individuo da sempre faticosamente si muove con il suo fardello di dubbi e di domande. È come se l’essere, intrappolato nel mondo della realtà storica e oggettuale, resistendo alle forti sollecitazioni della vita, si mettesse continuamente in gioco e si facesse viaggiatore razionale e senziente nel più caotico divenire, accettandone consapevolmente i rischi. Non è casuale dunque che la raccolta si apra con la sezione “Nell’atto di partire” il cui tema centrale è proprio quello del viaggio, dall’atto che dà inizio al movimento fino all’idea vera e propria del transito: un viaggio moderno che si sviluppa inizialmente attraverso la velocità del treno, la cui peculiarità è quella di percorrere costantemente un tragitto già segnato, preordinato perché l’approccio razionale al quotidiano è quello che costantemente sceglie la via più sicura (All’imprevisto che è legato al moto,/la ragione ha imposto antidoto/di linee rette: orari, termini, binari./Contro i rischi dell’ignoto, p.13). Eppure il viaggio in treno, pur accompagnato da binari, è un cammino non semplice, mai scontato e soggetto a successi precari e a improvvisi deragliamenti. Ed è anche un confronto serrato fra desiderio di sicurezza (Ma poi, alla fine, mi rimetto in moto/nonostante ogni volta sia tentato/dalla voglia che mi prende di restare/nelle zone più vicine e risapute/in vista e nel contatto del mio noto, p.16) e consapevolezza dell’inevitabile scontro con l’ignoto (È il movimento a darci in dote la speranza/mettendo in relazione noi stessi con le cose/e fa presenti a un tratto le ignote e le distanti,/rendendo le vicine subito vacanti, p.14) nell’oscillazione costante fra certezze e dubbi, fughe e ritorni, realtà presente e memoria. La posta in gioco è qualcosa come la conoscenza ovverosia lo strumento che ci permette di smarcarci dalla prigionia della società contemporanea, dall’assuefazione alla mediocrità che omologa e ci priva inesorabilmente della nostre identità (Li trovi qui tutti accasciati/in sala d’aspetto o sopra le panchine/dentro e fuori la stazione/quelli che hanno già mollato/con gli ormeggi ogni decisione:/gli scoraggiati, i vinti, i rassegnati…, p.34). E la conoscenza implica sempre per il soggetto il raggiungimento della consapevolezza a tutto tondo di sé (intellettuale ma anche fisica, corporea) e un’inevitabile e conseguente apertura al concetto di alterità. Il percorso prosegue, quindi, ininterrotto nella seconda sezione “Morale della favola” ma qui assume un aspetto nuovo, divenendo vita vissuta e sfociando nell’autobiografico, con particolare riferimento all’esperienza di vita genitoriale e al rapporto padre-figlia che scandaglia una parte delicata della vita familiare (Come eroe, lo sai mi sono/defilato: non ho la faccia/per sostenere il ruolo, timido e/impacciato, incerto d’ogni verità, p.59 e Meglio incitarti, allora, nell’impresa/anche se ci sbatti contro di continuo/e, a rompersi, è la tua di testa/nel bel mezzo della corsa e della festa, p.61). Nella terza sezione “La notte bianca”, vi è l’ineludibile passaggio all’interiorizzazione del viaggio che sembra quasi sospendersi e concedersi una pausa di riflessione e di rielaborazione, alla ricerca del punto di contatto fra il microcosmo personale e una dimensione più universale, ponendosi vis à vis con il mistero intricato e profondo dell’esistenza. Così leggiamo Ha la natura umana una tendenza:/l’irresistibile bisogno di levarsi/puntando in alto e distaccandosi/dal suolo per riprendere possesso/di qualcosa che le sia stato tolto (p.82) e anche Nati dal corpo di natura,/distaccati e alzati in volo,/ma ricaduti in ansia e per paura (p.87) e infine L’infinito esplodere continuo/l’espansione e il giro palpitante, (p.92). É il momento in cui il movimento che percorre il libro vira con decisione nella sua sezione centrale, quella che dà il titolo all’intera raccolta “Le cose del mondo” dove l’esplorazione della realtà diventa principalmente minuzioso esame della materia e degli oggetti, capaci di opporre una resistenza maggiore all’erosione del tempo e a sopravvivere all’individuo (Le persone muoiono e restano le cose/solide e impassibili nelle loro pose, p.105). Muta dunque l’approccio conoscitivo che diviene più diretto e più fisico, percorrendo la strada dell’esperienza sensoriale dove il soggetto senziente tenta di ripopolare il vuoto ricostruendo una realtà apparentemente più oggettiva attraverso la razionalizzazione delle impressioni sensoriali (vista e tatto in particolar modo) pur riconoscendo come elevato il rischio di fallire il suo obbiettivo. L’intento di razionalizzazione e di catalogazione è evidente nella disposizione degli oggetti nominati secondo l’ordine alfabetico (la poesia Anello, p.110, la poesia Armadio, p.111, la poesia Astuccio, p.112 e così via fino alla poesia Vocabolario, p.136). E analogo atteggiamento emerge nella successiva sezione “Atlante anatomico” dove, seguendo il medesimo criterio ordinatore, si ripercorre la conformazione anatomica del corpo umano attraverso le sue parti (la poesia Ascelle, p.142, la poesia Bocca p.143, la poesia Capelli, p.144). Anche qui, come avveniva per la precedente sequenza dedicata agli oggetti, emerge uno dei tratti cari alla poetica di Ruffilli, quello dell’inversamente proporzionale dove la frazione ci parla dell’intero, dove la “piccolezza” richiama la “grandezza”, dove la finitudine rivela l’infinito.
La ragione del resto procede con metodo: distingue e riduce in categorie, concettualizza e nomina.
E proprio al linguaggio, alla parola è dedicata l’ultima parte Lingua di fuoco che si apre in esergo con la massima che recita L’universo, a diversi gradi di verbalizzazione, è costruzione simbolica del nome.
La conoscenza, alla fine, è un atto rivoluzionario che porta al potenziamento del senso critico e alla formazione di una nuova coscienza – individuale e collettiva- più consapevole di quello che rappresenta e di ciò che le accade intorno. Il viaggio di cui si parla, dunque, è esperienza interiorizzata che tuttavia non esaurisce se stessa in un mero atto contemplativo o autocelebrativo. Al contrario è uno sporcarsi le mani, è la faticosa discesa di un corpo (anatomicamente ben individuato, con i suoi molti limiti e le sue risorse) nella ruvidezza e nella spigolosità dell’esperienza di vita, dei rapporti interpersonali, dei sentimenti e degli oggetti, interrogati affinché possano tradire -attraverso un gioco di corrispondenze- il segreto di cui sono depositari.
Il libro è dunque la testimonianza concreta di questo percorso in cui la parola, dispiegata nella particolare musicalità del verso, si propone come strumento privilegiato di ricerca del senso delle cose. Perché se è vero che attraverso la parola il soggetto razionale nomina, individua e rappresenta, è altrettanto vero che la parola poetica, più irrazionalmente, è evocativa e, con la sua peculiare sonorità e i suoi continui richiami al sostrato dell’invisibile e dell’ineffabile, ha la capacità di vibrare sulla medesima frequenza delle particelle di cui è composta la materia.
Alessio Vailati