ACCOSTANDO “LE COSE DEL MONDO“ DI PAOLO RUFFILLI

ACCOSTANDO “LE COSE DEL MONDO“ DI PAOLO RUFFILLI

Nel ringraziare Paolo Ruffilli per Le cose del mondo (Mondadori), non sto a dire tutto quanto, sul piano formale, mi ha dato la lettura. Ricorderò solo rime folgoranti, allitterazioni incisive, metafore coerenti con il senso, ambiguità sintattiche – che si risolvono in amplificazioni semantiche, musicalità del verso, dosate asperità stilistiche, ampiezza di contenuti cognitivi, persuasivi appelli alla sfera emotiva, sensibilità nei riguardi di aspetti problematici della scienza contemporanea, acuta coscienza del ruolo dell’educatore paterno nel rapporto con la prole e molto altro ancora.

Riflettendo (non sono un critico letterario) sull’ultima opera di Paolo Ruffilli, “Le cose del mondo[1], sono partito (me ne scuso) da  lontano. Dal  Luperini de La fine del postmoderno[2]: a uno smarrimento di funzione sociale e personale “non poco ha giovato la nuova cultura affermatasi nel quindicennio 1975-1990. Essa infatti, ispirandosi a filosofie ontologiche e nichiliste che rifiutano il principio di contraddizione [e quello, metodologico, del contraddittorio, N.d.R.], per meglio ripudiare l’onnipotenza del Logos e le egemonie del cosiddetto esistenzialismo marxista, strutturalista o freudiano, ha condannato l’impegno etico-politico come chiacchiera inutile, rifiutando il rigore argomentativo, propagandato il pensiero debole [mio il grassetto, N.d.R.] e il nichilismo morbido, e infine vagheggiato estetiche ora misticheggianti e mitico-sapienziali, ora ispirate al populismo consumistico del postmoderno […]. Negli ultimi trent’anni sembrano venuti meno l’autorità del testo, l’incidenza della critica e la presenza attiva di una comunità di lettori. Partendo da quest’ultimo elemento, si può osservare che la scomparsa di riviste culturali redatte da scrittori e capaci di influenzare almeno in parte l’opinione pubblica (l’ultima è stata ‘Alfabeta’) rifletta l’analoga scomparsa di un pubblico compartecipe, coinvolto nel gusto e nella cultura della produzione artistica contemporanea. La spettacolarizzazione della poesia che si verifica in occasione di recenti letture pubbliche in teatri o in televisione è un fenomeno che non deve ingannare; è un pubblico che consuma, che non canonizza, che partecipa magari con commozione a un evento, ma non ne è protagonista attivo. L’eclissi dell’autorità del testo è tutt’uno con la caduta di prestigio sociale della letteratura in una società in cui contano solo le risorse tecnologiche [anche quelle al servizio dell’editoria, dei “media” e dell’accademia – si potrebbe pensare, oggi, a una facile scoperta di autori come Tomasi di Lampedusa, Sciascia o Bufalino? Inoltre a questo fenomeno ha fatto da “pendant” l’estrema difficoltà di comunicazione che non siano i cosiddetti  “social media”: nessuno ti dà più un numero di telefono di alcuno, la più parte delle transazioni culturali devono avvenire o per mezzo posta raccomandata o via Internet, ad indirizzi che non si conoscono, N.d.R.] e il consumo di massa. Da vent’anni [e molto più] non esistono né manifesti né conflitti di poetiche, né aggregazioni per gruppi e tendenze, né riviste autorevoli di scrittori. Proliferano invece rivistine di autopromozione e iniziative di autopropaganda, cartacee o on line”. Aggiungasi l’incomprensibilità di testi che, sottoposti ad indagine psicanalitica – senza indicazione, cioè degli autori che li hanno prodotti (e qui mi viene in mente il presupposto del ‘veil of ignorance’ di John Rawls), la quale potrebbe influenzare il giudizio critico -, getterebbero luce più su problematiche di ordine clinico che letterario (senza far nomi, peraltro a tutti noti, si scorra l’elenco di poeti psicotici che si sono suicidati – i critici vanno spesso ai loro funerali [al modo icasticamente rappresentato  dalla Szymborska di “Funerale[3]], ma poi si precipitano, per smaltire l’intollerabile dolore, al caffè – ciò che, peraltro, è assai naturale).

Una volta di poesia (si pensi alla lettura di testi nella Russia di ogni tempo) si poteva anche, magari assai modestamente, campare; oggi un “poeta laureato” non vende più di, forse, duecento copie. Per contro proliferano gli accessi, gratuiti o a pagamento, sulla rete, di legioni di Argas – vedasi, ad esempio, il caso clamoroso della Rupy Kaur, seguita, su Internet, da 2.5 milioni di “follower”. Costei, della quale riporto in nota (la mia disgrafia e il mio inconscio mi avevano indotto a scrivere “in mota”) un componimento[4] postato “online”, è stata, per un anno, registrata come “bestseller” dal New York Times.  Lanciata da un “blogger” nella selvaggia arena dell’ignoranza ed avendo avuto i riscontri di cui ho detto, è subito passata, prese furbescamente all’amo ottuse carpe, alla carta stampata; con notevole successo editoriale (cinque milioni di copie andate via) e finanziario (traduzione, finora, in trentotto lingue – da noi  per i tipi di Feltrinelli!). Di cosa meravigliarsi, quindi, se il calo del Quoziente Intellettivo dei giovani (norvegesi – degl’italiani, ”more solito”, nulla è dato sapere) sia sceso, alla fine degli anni’80, sotto quel 100 che era considerato il limite inferiore della normalità statistica nella seconda metà degli ’70[5].

Tenuto conto delle riflessioni del Luperini sulla deprecabile carenza di apporti e supporti argomentativi che si registra, non raramente, in Italia quando si fa critica letteraria, sono ricorso, nell’accostarmi al lavoro del Ruffilli, allo strutturalismo, appunto, argomentativo, tenendomi ben lontano da quel pensiero debole che, sotto varie spoglie, tanti danni ha fatto alla cultura italiana (e non solo). Altro criterio ermeneutico (se tale si può definire qualcosa di così eminentemente soggettivo) cui mi sono attenuto è stato quello della cosiddetta “estetica della ricezione”, formulato dalla “scuola di Costanza” nell’ambito della quale hanno operato, fra gli anni, fra gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, Hans Robert Jauß[6] e Wolfgang Iser[7]. Ne ho fatto ricorso tenendo conto, ad ogni modo, del contesto storico, sociale e, direi, antropologico in cui l’opera del Ruffilli è nata.

In quanto lettore, dunque, mi sono accinto a visitare quella che si potrebbe definire la “summa”, il “trésor” di un pluriennale, severo e coerente, impegno creativo, felicemente perseguito attraverso l’adozione di una poetica aliena da astrusi sperimentalismi. Il lavoro, informatissimo (la trattazione del materiale tematico occupa – oltre  agli usuali territori della creazione poetica [contenuti, lingua, stile, etc] – ambiti assai più vasti), mi ha sorpreso per i molteplici, cenni a discipline a me familiari, quali la fisica, la chimica e le scienze biomediche, – queste ultime trattate nella loro molteplici declinazioni (anatomia, fisiologia, biologia molecolare, patologia).

Ritengo che uno degli elementi che contribuiscono a connotare un grande poeta sia la sua traducibilità in un’altra lingua (resisterebbe alla prova l’“Invetticoglia” di Giuliani tradotta in cinese?). Un altro, non meno importante, è la capacità di stimolare, in chi legge, associazioni – sincroniche e diacroniche, sintopiche e diatopiche – d’idee e potenti emozioni. Infatti, se si accetta quanto sta emergendo dagli studi di neuroestetica – che almeno tre fra gli elementi costitutivi di una creazione letteraria universalmente recepibile debbono necessariamente risultare compresenti: (1) uno basato su quella che Cesare Brandi chiamava “sostanza conoscitiva”, (2) uno rilevante sul piano dei moti affettivi e (3) uno di carattere mnemonico (tralascio gli aspetti caratterizzanti lo stile, il linguaggio, la musicalità del verso etc. in quanto più difficilmente trasferibili da un idioma a un altro) – un’opera è chiaro ed evidente che “tiene” quando la si volge in altra lingua; ciò che è stato, nel caso di Ruffilli, largamente riconosciuto dai numerosi premi internazionali ad essa tributati.

La circostanza di non essere un critico letterario di professione (anche se potrei sostenere, per analogia, quel che soleva dire di sé  Ernst Gombrich [“sono qualcosa in meno e qualcosa in più di uno storico dell’arte”]), mi ha dunque permesso una libertà di giudizio che, se non mi pone certo al riparo da motivate obiezioni, mi lascia comunque sperare in una quota maggiore di benevolenza e minore di responsabilità, quantunque, a ragione, uno potrebbe sempre osservare: “Si tacuisses, philosophus mansisses” o, più classicamente: “Orator solum loquendo probari potest, philosophus autem non minus tacendo quam loquendo philosophari potest”).

Ciò premesso, è bene entrare, orazianamente, ”in medias res[8].

Già: “le cose”. E quali, per un poeta? Necessariamente quelle dell’”Epistula ad Pisones”, ma anche quelle di Protagora[9], delle quali l’uomo è misura e “che sono per ciò che sono e […] che non sono perché non sono” (e qui azzardo una mia interpretazione circa il detto del sofista: essere le cose che sono quelle della scienza, del diritto e, comunque, dell’oggettività ed essere quelle che non sono la poesia, l’arte e la musica, quelle, insomma, della soggettività, delle quali si può anche dire che non sono fino a che, aristotelicamente, non si rivestono di forma, pervenendo ad esistenza – come acutissimamente, argomentò Poe ne “La filosofia della composizione[10] – con tutto il rispetto per il nostro Croce e, ancora una volta, in accordo con le più attuali acquisizioni della neuroestetica[11]).

La prima sezione del libro, intitolata “NELL’ATTO DI PARTIRE”, esordisce con un chiaro riferimento alla “teoria del caos” la quale ammette che, in controtendenza con l’entropia, verso la quale evolvono tutti i sistemi chiusi, nuclei di ordine possano darsi nello stesso caos, per modo che dall’”ignoto” emerga il “noto”, modificando “la curva sghemba della deiezione” (e qui pare avvertirsi l’eco neghentropica del Saba in “Poesia”: “che ogni estremo di mali un bene annunci[12]). Questo perché il “principio di realtà”, ossia la “res” (qui non “amissa”, come in Caproni, bensì “admissa” a pieno titolo nell’”in der Welt sein”), con tutto il suo greve peso specifico, è elemento ineludibile del reale, come l’opera, convintamente e convincentemente, attesta.

Il tema del viaggio è il tema degli estremi di una “tranche”, di un segmento di vita compreso tra un’“ormè” e un “όrmisis”, partenza e approdo, metafore di nascita e di morte (“partire è un po’ morire”, secondo un certo proverbio popolare).

Certo che, con l’età, prevale sempre di più il “desiderio di restare a casa”, a “seguitare a dormire in fondo al letto”. Ma, poi, ci si rimette in viaggio, con quell’inquietudine che, a Cicerone, imponeva bensì, ogni volta, di tentennare fra il domicilio romano e la villa di Formia, ma che lo lasciava sempre insoddisfatto e con il sentimento che mai una qualsiasi scelta, in un senso o nell’altro, lo avrebbe appagato, adducendogli, inevitabilmente, se non ansia e turbamento. Anche se a un incerto perdersi corrisponde, sovente, un più tranquillo ritrovarsi: è il “leit-motiv” di Rutilio Namaziano nel “De reditu suo”.

Il treno: un fischio, l’agogica, sempre più in accelerando, delle ruote sulle luci di posa dei binari, lo sporgersi del viaggiatore dal finestrino, una curva, la testa e la coda del convoglio, un mondo, la vita: siamo al Ferlinghetti di “The long street”.

Alle volte la carrozza ferroviaria è una bolgia olente, emblema triste di uno “stato inerte, sordo e delirante” (e siamo al Narrenschiff di Sebastian Brant).

Poi una ricognizione sommaria di cose irriguardosamente esposte allo sguardo dei viaggiatori, lungo una linea percorsa, rallentando, nella strettoia di un tratto urbano: pudori violati, forse naufragi umani nell’irredimita canicola estiva. Il treno riparte veloce e larve transeunti escono di scena: uno dei momenti più alti dell’opera del poeta.

Occasionali incontri su un treno che va divengono ricordi, rimpianti, rose amate e non colte. Tornare in casa, quasi sempre, conforta, rassicura, quando si è girata la chiave nella toppa.

Il tunnel è archetipo (dalla cervice uterina alla condotta de “Le quattro visioni dell’Aldilà” di Hieronymus Bosch) di costrizione e, insieme, di “dýnamis[13].

Esempio tipico di ossessione è quella del viaggiatore che punta la sveglia a una cert’ora per prendere il treno e che non fa che svegliarsi, sognando di sognare, come il protagonista de “La scrittura del dio[14] o de “Le rovine circolari[15] di Borges; e all’ossessione si accompagna la paura di non farcela (altro tema che s’inabissa e riaffiora, più volte, nell’opera).

A consuntivo si può anche pensare che il viaggio rappresenti una “condanna” in quanto “non si avanza di una spanna […] e non si arriva da nessuna parte” (Roberto Carlos [il cantante degli anni ’60, non l’omonimo terzino della nazionale brasiliana], voce di flauto dolce su una melodia di velluto: “Por isso corro demais” (aveva perso una gamba proprio in un incidente ferroviario).

Odori di stazione (non sempre aulenti, olenti spesso), un’aria di provvisorio, sapori di ferro e di “luce / condannata al buio”: transito e fuga…

Le “saccades” (un andare veloce e un tornare lento); automatismi distratti di un viaggiare “sfiorati appena”, torpidi e smarriti, da memorie di eoni. Anche questo è viaggiare in treno: “spreco di sé”, “hevel hevelím”. Andare per binari: tutum-tutum, lieve, periodico sobbalzare, scambiarsi effusioni temendo l’arrivo del controllore (in psicanalisi: paura di castrazione).

Rientrare a casa è, talora, penoso: odor di vecchio, rimorsi, querele del Sé.

Cigolii, suggestivi di amplessi appena soffocati, possono, anche in treno, indurre a una certa qual indulgente nostalgia.

Si può anche partire dentro un sogno fatto in casa, mentre scroscia una pioggia impietosa: dentro e fuori del “cupo conto dei morti”.

Inventario di cose da riordinare o portar via lasciando una camera d’albergo: sommario di un’umanità deleta.

Si trascinano di notte, nelle stazioni, poveri diavoli “lasciati alla deriva”; dormono sulle panchine (quelle che l’ex sindaco di Verona, Flavio Tosi, aveva sadicamente corredato di una barra trasversale affinché non potessero servire come giaciglio notturno ai senza tetto) o in desolate sale d’aspetto. Sono gli stessi che l’oggi ha tagliato fuori dal domani (Luigi Tenco cantava, in “Un giorno dopo l’altro”: “E gli occhi intorno cercano / quell’avvenire che avevano sognato / ma i sogni sono ancora sogni / e l’avvenire è ormai quasi passato” e Paolo Conte, in “Gelato al limon” li vede “sprofondati in fondo a una città”, padroni, forse. solo della “sensualità delle vite disperate”) e che la “pietas” si rifiuta di destinare al suicidio.

Si può anche viaggiare, talvolta, nella memoria, senza riuscire, peraltro, a “far rivivere il piacere”. “Tutti quanti insieme in corsa, proiettili lanciati nella notte”, negl’illusori spazi di libertà concessi al sasso di Spinoza.

Può, dunque, avere un senso il frenetico “puro movimento […] comunque sia”? Certo che “una realtà senza spirito, un fenomeno senza sostanza”, come quella in cui viviamo, altro non è se non “un cadavere, in cui c’è molto movimento, ma è un movimento di vermi[16].

Partire senza mete, solo per partire / di fronte all’infinito […] andare […] andando, […] pensare, […] pensando. Gerundi impegnativi, con altrettanto impegnativi infiniti: “sedendo […] mirando […] comparando [per un dolce] naufragare” in un movimento che rifiuta di accettare la “deiezione” heideggeriana.

E siamo alla penultima lirica della sezione: intensissima e tutta da leggere con intensa partecipazione (ne riporto alcune parole-chiave: “ennesimo tramonto dietro la curva”, “orizzonte”, “mondo”, “ombra” “ipotesi più bella”).

L’ultima riassume il percorso di una vita, fra eterno ritorno  (“di nuovo”) e “never more”, con un finale degno dell’“Es muß sein” (in risposta all’angoscioso “Muß es sein?“) del quartetto op. 135 di Ludwig van Beethoven: quello che si conclude con una serena, liberatoria, trionfante dichiarazione di libertà.

La seconda sezione dell’opera s’intitola MORALE DELLA FAVOLA.

In esergo una frase di Lao Tzu – “far crescere  senza dominare” – , nella quale è contenuto un principio filosofico e pedagogico che ha, nella nostra cultura occidentale, quel “sustine et abstine” di Epitteto che precorre, in certo modo, anche l’atteggiamento di uno Spinoza, virilmente quanto serenamente atteggiato di fronte alle sfide che la vita obbliga a sopportare. Qui si esce dalla letteratura e si entra, appunto, nella vita: dalla favola alla morale, come in Tolstoj: altrettanto grande pedagogista che scrittore. Il fatto è attestato da un evidente cambio di registro linguistico e stilistico che il Ruffilli impone alla sua scrittura, il quale autorizza, da parte mia, un sommesso intervento di tipo – la parola, qui, non può non pesare – professionale; anche perché ciò che viene evocato ed esposto è stato ed è ancora ugualmente e dolorosamente vissuto da me stesso. D’altronde, se si vuole, la critica letteraria psicoanalitica esiste (Debenedetti) e non fuggirò di fronte al non ricorrervi per non errare.

Preludio. Molto di quanto, in negativo, accade nel mondo suole manifestarsi con un tale scollamento di tempi e con modalità talmente sorprendenti che ce ne stupiamo ogni volta: non avrebbe dovuto succedere ora e così, ma gli agguati del caso non risparmiano nessuno (“Oh Fortune, thy wresting wavering state / hath fraught with cares my troubled wit” querelava Elisabetta II, prigioniera nella Torre[17]).

Al principio. “Educere” (con forza, certo, ma sempre “con juicio” e rispettando scrupolosamente i principi dell’attaccamento psicologico dell’infante). Ritengo infatti, parafrasando Seneca, che la vita sia “res severa” e che la transizione dell’”homo faber” in “homo ludens[18], divenuta uno dei paradigmi della post-modernità, sia stata quanto di più deleterio sia accaduto negli ultimi decenni – anche in sede pedagogica. In quanto tutto si gioca in termini di attaccamento (normale o patologico), come dimostrato, a suo tempo, da John Bowlby[19] [20].

Paura. Se il genitore si concentra sulle sue paure, anche il minore, allora…

Rivolta. La pretensiosa “logica parziale”, tipica del Disturbo Oppositivo Provocatorio[21], non lascia spazio neanche a un interlocutore disposto al dialogo.

Bugie. La costellazione sintomatologica del Disturbo comprende, com’è noto, anche il ricorso a una manipolazione della realtà e dei sentimenti in funzione del trasferimento della colpa dal Sé all’oggetto del presunto amore deluso.

Il buio. Gl’incubi notturni fanno parte, anch’essi, della condizione.

Intenzione. Il soliloquio viene considerato da alcuni, in sede clinica, come uno strumento per minimizzare l’ansia[22] e, aggiungo io, per coinvolgere i potenziali ascoltatori in una dimensione relazionale cui essi erano, fino a quel momento, estranei. Ma Paolo Ruffilli, pur avvertendo, con notevole sagacia, quanto può celarsi dietro tale comportamento, confessa di non disporre di strumenti per interpretarne appieno il contenuto, sicché cade da un “ponte incerto” ed è costretto a cavarsela, annaspando, con le sue sole forze.

Gli amici. In questo componimento il poeta tratta del “bisogno [dei giovani d’oggi] di stare in mezzo ai propri eguali” – elemento essenziale e non eludibile di socializzazione. Tuttavia, allorché egli esorta sua figlia a non preoccuparsi se si diverte “più con gli amici che con noi [i genitori]”, erra clamorosamente, riconoscendo ai giovani, appunto, il diritto di non esercitarsi nell’arduo apprendimento di quella “pietas” virgiliana che indusse Enea a caricarsi sulle spalle il vecchio padre Anchise il quale, in altra età, financo da Venere era stato amato: elemento, fra molti, di quella distanza fra generazioni che è riconosciuto fattore di disaggregazione sociale. D’altra parte, non gioverebbe a questi sacrosanti giovani, considerare che, oltretutto, sono i gli anziani a reggere il mondo (principio di realtà)? In proposito: consolidate osservazioni scientifiche dimostrano che cuccioli di scimmia orfani sostituiscono le figure di attaccamento naturali (quelle genitoriali) con i coetanei, sviluppando forti legami con questi[23]. Non disponendo però, i secondi, dell’esperienza e delle qualità affettive e cognitive tipiche delle figure parentali – prerogative irrinunciabili ai fini della strutturazione di una personalità dotata di autonomia (= accettare e darsi regole in modo consapevole) – i cuccioli orfani stabiliscono, con i loro simili, rapporti ipotecati da stati ansiosi di più o meno elevata gravità. Infatti la strutturazione di una base caratteriale che permetta un’adeguata esplorazione dell’ambiente e un sufficiente controllo delle emozioni, in situazioni inattese, frustranti o stressanti, dipende dall’esposizione della prole alla qualità delle relazioni di attaccamento al “primary caregiver”, all’accuditore primario che, di solito, è la madre, nei primissimi anni di vita. Ne deriva che, mentre i primati (quelli della specie umana compresi) che sono cresciuti all’interno di relazioni affettive materno-filiali emotivamente appaganti manifestano comportamenti coerenti con un equilibrato sviluppo psicomotorio e con il complesso delle regole che presiedono alle relazioni di gruppo, i cuccioli affetti da una patologia equivalente al “Disturbo Reattivo dell’Attaccamento” (acronimo RAD nella letteratura psichiatrica anglosassone) degli umani appaiono fortemente insicuri a fronte di ogni novità e ad ogni nuova sfida e tendono ad essere sospettosi, spaventati, anormalmente reattivi e poco resilienti (il altri termini, tutt’altro che “autonomi”).

La scuola – autentico “punctum dolens!”: se “ti ferisce chi non ti capisce” ecco “il mistero fitto dell’educazione”.

Seduzione – se “il mondo intorno diventa / un campo di gioco” e la fanciulla appare ”contenta di girarci in tondo [girotondo – sic!] / dietro al lampo di  pura seduzione”, occorre far sapere ai giovani che la seduzione tende sempre a limitare, ricorrendo a comportamenti finalizzati a stabilire relazioni asimmetriche, quindi di potere, la libertà dell’altro (non sarebbe meglio addestrarsi a intrattenere, col nostro prossimo, relazioni improntate al precetto kantiano che impone di contribuire a realizzare quel regno dei fini che Nietzsche riprese dalla primitiva formulazione pindarica “divieni quello che [in termini di potenzialità personali, N.d.R.] sei[24] [ovvero destinato ad essere, N.d.R.]”?  Ciò che è il fondamento antropologico di una libertà di ciascuno, che diviene libertà di tutti). Per inciso: nel testo ebraico del Libro della Genesi il serpente, che non è, nella teologia giudaica, il diavolo, ma una mal definita e tuttavia spregevole entità condannata a strisciare in terra, fa dire ad Eva non quello che le traduzioni cristiane rendono come “il serpente mi ha ingannata”, ma “il serpente mi sedusse[25], laddove il verbo ha un chiaro senso sessuale.

Conferme. “Ma tu, papà, mi ami?” è lo straziante interrogativo di ogni figlio. Amore: uno dei più ambigui e controversi lemmi che l’umano vocabolario abbia incluso – pari, forse, soltanto al termine filosofico “Essere”. Saper amare bene e parlare di amore bene dovrebbe tendere, senza ambiguità, all’imperativo categorico di Kant – purtroppo, a conti fatti, si tratta di ente indecidibile (alla Gödel) nell’ambito dell’umana coscienza e dell’umana capacità di giudizio: la specie umana è l’unica capace di amare male. Infatti, se il concetto di amore resta oscuro e indistinto agli umani, come stupirsi che da esso si generino equivoci e decezioni quando persino un dio ad essi è tenuto a sottostare? Nel finale del Vangelo di Giovanni, al termine di una fecondissima, reciproca frequentazione durata tre anni, Gesù pone a Pietro la questione fondamentale: “Símon Ioànnou, agapàs me?”. Pietro replica “Philò se” (”Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu [di quell’amore fatto di sentimento, sapienza e consapevolezza valoriale]?”. E Pietro: “Ti voglio bene”). La stessa domanda Gesù la pone una seconda volta negli stessi termini, ricevendo la medesima risposta. Pietro non ha, con tutta evidenza, compreso la portata della questione. A questo punto Gesù, che non vuole umiliare l’apostolo, si pone al suo stesso livello e, la terza volta, cambia verbo e passa anche lui (con uno che, a Roma, verrebbe definito “de coccio”) al “philéo”, al che quel coglione di Pietro, tutto felice che il Maestro abbia smessdo di porgli questioni astruse, risponde come prima. E, cosi, tristemente, tutto finisce, ma resta irrisolto. Ecco il problema: l’irrisolto. E se la figlia, come Pietro, non è in grado di comprendere la portata delle sue parole, ecco che, amorevolmente, il genitore tutto intuisce e le rende comunque manifesto il sentimento che connota, longitudinalmente, la relazione: accanto a te avrai sempre “la certezza di un volto sorridente […] raggiante solidarietà, motore di riserva / sia pure a strappi ma trainante, / presente nel contatto alle necessità”. In controtendenza rispetto a un celebre luogo montaliano (“Non chiederci la parola che squadri da ogni lato […] Non domandarci la formula che mondi possa aprirti […] codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”), si dovrebbe dire: ”hoc possumus hoc volumus hoc facimus”. Perché proprio di questo hanno bisogno i nostri figli, proprio in questo ci vogliono eroi e questo basta loro per intero.

Fantasia. La tentazione di “ritornar più volte volto” da parte di un padre a fronte di una prole che, indebitamente sospettando, gli addebita un illogico timore nei confronti di quella ”fantasia” di cui i giovani amerebbero possedere soltanto loro i segreti, non può esimerlo dalla sua funzione educatrice. Il ritrarsi di un genitore lo qualifica sempre, agli occhi dei figli, come imperfetto o vile (quanto son vecchio io!).

Spirito di contraddizione: sintomo inequivocabile, come già detto, del Disturbo Oppositivo Provocatorio, a sua volta generato da un RAD. Attraverso un’accuratissima anamnesi clinica, Ruffilli elenca gli “hallmark” della condizione: “resistenza a oltranza […] partito preso […]  litigio […], ma riconosce a sua figlia una “legittima prerogativa / di indipendenza e autonomia”. Sennonché proprio queste due caratteristiche personologiche mancano a chi è affetto, appunto, da RAD.

Defilato. L’accorata, assoluta sincerità che l’autore mostra a questo punto esige un incondizionato, riconoscente rispetto non solo da parte di sua figlia, ma anche di ciascuno; rispetto che pretende un di più anche da tutti noi, che stiamo dall’altra parte del libro e che si compendia, nel contesto presente, nella parola amore.

Anatomia. Atteggiamenti di tipo narcisistico sono normali in età adolescenziale “’l’interesse / spiccato più per il corpo che per la persona”, anche perché recenti studi hanno dimostrato come il bello agisca a livello inconscio quale elemento decisivo di vantaggio in ordine alla selezione sessuale, oltre che dell’autostima (l’aveva già detto Jung). Però, moralisticamente e ipocritamente, “gli usi stabiliti lo stimano / vietato” (“conta la persona, non il suo aspetto”, si sente dire – altrettanto vero, ma poiché la natura tende ad essere la costante e la cultura la variabile del comportamento umano – ciò che è, in effetti, evolutivamente vantaggioso per la specie – la prima, a conti fatti, prevale il più delle volte, a meno che la cultura venga somministrata a dosi da cavallo: sedici ore di scuola al giorno per i bambini delle Napoli o delle Palermo disastrate, tanto per capirci, ma con questi chiari di luna…).

Resistenza. La responsabilità personale (la libertà è il male assoluto, se non viene da quella temperata) ottempera al principio di realtà: non si danno “ordini al mondo che, invece / non ci sente e fa a suo modo: / mente”, ma ci si batte di continuo contro gli spettri della sopraffazione e dell’indifferenza, senza tuttavia gettarsi, con incosciente generosità, in una lotta che richiede sì purezza e rigore d’intenti, ma anche, contestualmente, doti di tattica duttilità, per non farsi mangiare vivi dalle canaglie del male. Dice Gesù: “Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe[26], laddove per “semplici” non si devono intendere quei sempliciotti che piacciono tanto ai clericali furbastri e insipienti, ma coloro che non sono “doppi” in senso morale, che sono interiormente “candidi” (altro termine che compare in diverse traduzioni del testo evangelico). Responsabilità nella libertà, dunque – meglio: libertà della responsabilità. Alla parabola biblica del figliol prodigo si associa sempre l’idea di un padre aperto, senza riserve e prono a qualsiasi elargizione di perdono (il meraviglioso dipinto dell’Ermitage “Il figliol prodigo” di Rembrandt, nel quale un padre, con slancio tutto materno, attira al seno il figlio pentito, ne è l’imperitura sintesi). Niente di più fallace: a questo figlio, che contraddice a tutte le regole che volevano (e vogliono – ma allora era tutta un’altra faccenda il soddisfacimento delle pretese giovanili) che l’eredità sia disponibile soltanto alla morte del testante, un giorno se ne va, bel bello, dal padre e, perentorio: “sgancia i diné”. Il genitore non fa una grinza (ricorro a questo linguaggio per non commuovermi ogni volta che rifletto su questo racconto – si sa: i vecchi hanno la lacrima facile) e “sgancia”. Il gaglioffo parte mentre il padre, che crede in una “Bildung” il cui corso non è influenzabile da improduttivi ammonimenti e rampogne, si astiene dal farlo seguire da un servo fedele che ne spii le mosse e prevenga pericoli e scellerataggini cui lo scapestrato certamente si esporrà. Potrebbe farlo: è facoltoso (vedremo quanto spenderà alla festa del figlio ritrovato), ama il figlio di un amore fiduciosamente disperato, ma non fa nulla per avere sue notizie. Ne rispetta il libero arbitrio. Finché… Lo scialacquatore di sostanze altrui ora è a secco e, per mangiare, è costretto a disputare carrube ai porci (si è messo sotto un padrone “goy”, evidentemente un gentile, che alleva maiali, bestie ripugnanti agli’Israeliti), “ma nessuno gliene dava”. La dura lezione lo spinge a tornare alla casa del padre, il quale sta sempre alla finestra per vederlo, un giorno o l’altro, spuntare all’orizzonte e, scorto che l’ha di lontano, il cuore gli batte forte nel petto e gli corre incontro (a questo punto può andar pure al diavolo ogni atteggiamento di neghittoso starsene sulle sue), il passo incerto e, abbracciatolo, lo bacia teneramente. Il senso della parabola è proprio quello che Ruffilli, in modo assai più teso e concentrato di quanto fatto da me, così sintetizza: “Meglio incitarti, allora, nell’impresa / anche se ci sbatti contro di continuo / e, a rompersi, è la tua di  testa / nel bel mezzo della corsa e della festa”. Il ”nόstos” avverrà, dunque, e l’accoglienza obbedirà, infine, non solo alle regole dell’amore riconciliante e riconciliato, ma anche a quelle dello “ius” (non della “lex”, per l’amor di Dio!).

Distrazione. Esilio dal principio di realtà. A questa età ancora emendabile.

Anticamere. I padri dovrebbero far più spesso partecipi i figli piccoli (ai quali la mia amica Françoise Dolto, una della più grandi psicanaliste infantili della seconda metà del ‘900, allieva di Jacques Lacan, che ebbi la fortuna di conoscere, a Parigi, nel corso di un viaggio di studio presso l’Hôpital Sainte-Anne, riconosce doti di comprensione e di perdono che gli adolescenti e i giovani si sognano…) delle loro vicissitudini (non, certo, delle loro ansie o delle loro frustrazioni!!!) patite da parte di una società ingiusta, cinica e sopraffattrice. Ne deriverebbe un incommensurabile credito di fiducia e di stima.

Conoscenza. Franca è la confessione di un padre che, a giusto titolo, non vuole apparire come  l’eroe dei fumetti: il sentimento che lo muove e commuove è quello di un padre-figlio che, senza timore, dichiara, “apertis verbis” le sue paure. Mi viene in mente il Gerard Manley Hopkins di “Nondum”, che tradussi anni e anni orsono: “Oh! Till Thou givest that sense beyond, / to show Thee that Thou art, and near, /  let patience with her chastening wand / dispel the doubt and dry the tear; and lead me child-like by the hand / if still in darkness not in fear”  (“Finché ci doni il senso più lontano / e vicino a mostrarci che Tu esisti, / fa’ che, con la sua  verga, la pazienza / disperda il dubbio e allevi ogni cordoglio ; / conducimi per mano, come figlio, / ancor nel buio ma non nel timore”).

 Successo. Ho una figlia, Adele, anche lei problematica (era ricorsa, alcuni anni fa, allontanatasi da me a seguito di una “Parental Alienation Syndrome” che mi era stato impedito di contrastare da una magistratura italiana incompetente e più volte censurata, nel merito, dalla Corte Europea dei Diritti degli Uomini, a un gesto che nessuno augurerebbe ad alcuno – massime a un figlio), che sta ora tentando le vie di un successo non effimero (compone, canta e suona canzoni “pop” e, con il nipote di Giovanni Giudici, riscuote un grande consenso internazionale); ma pur sempre di successo instabile si tratta (ne è prova l’interruzione, a causa della Covid-19, delle sue già programmate “tournée”). Per dedicarsi alla sua passione, peraltro coltivata con assoluta indipendenza rispetto allo “star system”, ha interrotto i suoi studi di filosofia a Milano. Così va la vita. E, intanto, impara.

Orrore. E’ la mia continua tentazione: farla finita (da medico so come si deve procedere, con sobria dignità e senza ”grand guignol”), dopo aver lottato tutta una vita, da Sisifo (peggio, da Don Chisciotte), contro l’imperante sfacelo dei valori. Ma non è viltà la mia – di quella che fa dire a Ruffilli: “Chi si toglie la vita da vigliacco […] non per salvarla agli altri / ma per farli coinvolti nella fede / della sua stessa tragica rovina [non credo che lui si riferisca ai jihadisti, sibbene a coloro che vogliono punire con il loro gesto, secondo l’etica samurai, chi ingiustamente li trattò in vita] / è il segno puro e intero dell’orrore”. Ciò che mi pervade è ”tedium vitae”, senso  di spaesata inutilità. Non è resa, dunque, ma pura rivolta: non subirò, in eterno, il tormento del masso che, trascinato in cima alla rupe, un dio, sadico e idiota, fa ricadere ogni volta in basso, né quello dell’aquila che, nel Tartaro, affonda il becco nel mio fegato. E che nessuno voglia, ve ne imploro, imitarmi! Dici bene il poeta e concordo: “ciò che procede dall’amore / non è mai carneficina”, ma io che ho amato tanto, troppo, forse, o male, forse, sono come il Paul Klee dell’”Unregelmäßig”: ”Tutti, tutti ho amato e ora sono una stella fredda”.

L’abbondanza. La “grascia” fa “avari e ingordi senza fame e sete” ma solo quanti (per manco di conoscenza e non certo per cattiveria geneticamente determinata)  erano predisposti ad esser tali (era mica Croce – o mi sbaglio – che asseriva che “chi si perde era già perduto”, con questo avallando – o forse no, non si sa – certe tendenze razzistiche, pseudoscientifiche, alla Nicola Pende[27] ?) ed “è un fatto che niente mai / al pari dell’avidità rende corrotti”.

Istigazione. Quanto vorrei prendere in parola l’autore (egli è, di certo, un “honorable man” – e, certo, non come Bruto) e “vincere l’umore mortuario / e a rispecchiare un palpito di festa”. In nome della nostra recente amicizia, gli prometto che lo farò.

L’esperienza. “Futilità del termine ‘esperienza’. L’esperienza non è sperimentale. Non la si provoca: la si subisce. Meglio la pazienza che l’esperienza. Pazientiamo… o meglio soffriamo. Al termine di ogni esperienza, non si diventa saggi, si diventa esperti. Ma in che cosa?[28]. Motivato, quindi, dubbio del poeta: “che cosa può insegnarti l’esperienza? […] Va a finire / che poi diventi proprio per davvero / quello che volevi diventare in sogno. / Ma te ne penti, di trovarti prigioniera / dei soldi e del successo della tua carriera. / E’ tutto peso che distrae e affoga”. Si finisce per “pestare intanto il vuoto”.

Pretesa. Superfluo ogni commento, per palese verità degli asserti.

Fiume. Come metafora dell’insania amorosa. Platone afferma: “La divina mania […], la sublime, sottosta all’influsso di Afrodite e di Eros” (mia la traduzione)[29] e Ruffilli scrive: “prima o poi arriva anche per te il furore / e come il fiume in piena / invade tutto e ti trascina nell’amore”.

Salvezza. Vedasi la voce ‘L’esperienza’: la pazienza, come sosteneva Camus, è meglio.

Allora. Meglio è anche non rinunciare a far sì che, kantianamente, la massima delle nostre azioni tenda a porsi come norma universale. “Etsi Deus daretur”, ma solo come “dàimōn” interiore, fomite al retto agire.

Scoperta. La metamorfosi è compiuta: da figlio-adulto il poeta perviene a quella dimensione di padre adulto che, con il conseguimento di una superiore coscienza genitoriale, dissolve in lui la paura di non farcela. Ci siamo passati in molti.

LA NOTTE BIANCA è la terza sezione dell’opera. L’insonnia, impietosa, prelude al quesito cruciale:

Mai più. Sullo stipite della porta del nostro cuore il corvo di Poe continua a pronunciare il suo terribile verdetto “per ciò che forse un giorno / si poteva e che non fu”, per le colpe di cui avevamo coscienza e di quelle di cui non avvertimmo la gravità.

Natura umana è un derivato platonico dell’esperienza mnestica come reminiscenza, ahimé perduta, di un sommo bene che occorre riconquistare: “quando [l’anima], concentrata in se stessa, si volge, con atteggiamento di ricerca, a ciò che è puro, immortale, eterno e senza mutamento, allora avverte la sua affinità e la sua prossimità con codeste realtà[30].

Memoria immemore e negligente: “non le importa niente” (ma è proprio così se l’inconscio ha a che fare proprio – e, forse, solo – con essa?). Servi del mondo, dei suoi “idola tribus” e/o “theatri[31], in un “tempo usato e perso” per servire, in fondo, noi stessi, il nostro Ego.

Ogni minima creatura è, olisticamente, inserita in una “res” che la integra e la trascende (la scienza parla, alla von Bertalanffy, di “sistemi complessi”): “tutto così piccolo e tutto così vasto: / lo sguardo abbagliato del bianco sotto il nero”. È “l’insondabile mistero” (nell’icona taoista dello Yin e e dello Yang, bianco e nero non solo denotano il principio d’individuazione, ma includono, al loro interno, adogmaticamente, l’eccezione: un cerchietto nero in campo bianco e viceversa).

In uso di  litote. Non ci s’illuda d’indorare la pillola amara: “quel che è distrutto patisce la ferita” e sperare un una pietosa omeostasi è, a volte, illusione pura. Son chiuse la porte del paradiso in terra: “homo homini barbarus” verrebbe da dire.

Chiusi nel sogno (ovvero da esso illusi o con esso collusi), incliniamo all’abisso (Platone), come i ciechi del Bruegel di Capodimonte.

L’oggetto del pensiero creativo (sia scientifico sia artistico in senso lato) si costruisce, sequenzialmente, attraverso due distinti momenti: quello della crociana intuizione pura e quello dell’aristotelica formalizzazione, come sperimentalmente dimostrato in sede neuroestetica – con il pervenire, conclusivo, a quel “senso del piacere” cui la “reward circuitry” cerebrale è geneticamente preposta e predisposta[32].

Necessità dell’inganno: confessione sincera, al limite (non superato, peraltro) di un anti-kantiano cinismo, scettica ma, in fondo, innocente (teodicea, teodicea!). Tradimenti, infingimenti, camuffamenti: nostri, assolutamente nostri, come quelli che si addebita l’autore.

Nell’attesa dell’evento, dove l’evento è la genesi del designato, “lόgos” e nome: “Nomina nuda tenemus” scriveva Bernardo di Cluny[33] e, nell’attesa di dipanare l’intricata matassa, ci si consenta una sberleffo, di matrice quasi beolchiana (doo tutto siamo in Veneto): “Aspettando Godot” è divenuto, nel rustico, dissacrante idioma regionale: ”aspettando, go do’ bałe…”.

Il tempoè un fiume” (omaggio all’Arnaldo Ederle di “Stravagante è il tempoWork in progress, sottosezione Canale e fiume)” che mostra la sua duplicità inquietante: propizio e destruente.

Universo e gravità. Questione fondamentale per la fisica contemporanea, che il Ruffilli mostra, palesemente, di conoscere: esplosioni di supernove, causate dalla più misteriosa (e debole) forza del “modello standard”, con la disseminazione, nel cosmo, dei precursori (inorganici e, in ultima analisi, organici – vedasi la “panspermia” di Hoyle e Wickramasinghe[34]) della vita, e collassi gravitazionali in buchi neri, con tanto di “orizzonte degli eventi” e catastrofiche emissioni di lampi gamma. Crogiuolo e matrice d’immani sconvolgimenti – tutt’altro che l’“armonia prestabilita” della ditta Leibniz-Newton…

La gioia e il lutto è il risvolto biologico delle interazioni mitiche fra Cloto, Lachesi e Atropo. Se la vita, fenomeno, se si vuole, improbabile, effettualmente c’è, non è necessità, tuttavia, che in eterno si dia e se “quello che è stato / amato o non amato” debba o no precipitare, metaforicamente, in un buco nero dipende dalla scala temporale cui si fa riferimento, essendo, nei tempi lunghi, prevedibile un tale degrado termodinamico del cosmo da non lasciare speranze – peraltro, la trasformazione del Sole in una gigante rossa provvederà molto, molto prima a toglierci qualsiasi “hýbris” d’immortalità di specie. Ci (meglio, al cosmo) resta una speranza: l’”entanglement” collegato con la superconduzione, generante elettroni dalle proprietà diverse da quelle degli omologhi “normali”[35]: germineranno rose diverse (ma sempre rose) da elettroni di massa diversa nel futuro, ineluttabile, gelidissimo  buio che Hubble svelò, sconvolgendolo, ad Einstein?

L’intanto ci consegna, per il momento, una (relativa [un lampo gamma può sempre incenerirci da un momento all’altro]) speranza: la vita può continuare: il vitale “spilling over” di un provvidenziale “geyser” continuerà ancora a generare vita.

Felicità è, quindi, sapere che è necessità spinoziana la conciliazione, in “dissolvenza”, di Parmenide con Eraclito.

La Violenza, che contraddice la felicità, è quella che, indovata nell’amigdala umana, come istinto aggressivo (Lorenz[36]) generato da uno stato sovraeccitato di allarme, può condurre allo “scempio […] della carne”, come già, in modo folgorante, aveva detto Wisława Szymborska in “Torture[37].

Sveglio significa, per l’italiano medio, tanto desto quanto furbo (si ricordi il Chico Buarque de Hollanda in “Cara cara”. Spiegava “di che lagrime grondi e di che sangue” il cinismo ammantato di realismo).

Sogno di non contraddizione. La contraddizione, in quanto antinomia espressa, in sede di logica formale, dall’identità X=¬X (dove  X è identico a non-X), non è tutto: si danno, infatti, anche logiche “fuzzy”, nelle quali i gradi di verità (ossia che non tutto è solo bianco o solo nero), non corrispondono all’alternativa secca 0 vs. 1 (e qui l’intuito di Ruffilli trova una sua inconfutabile legittimazione).

Traccia. Come da un minimo impercettibile, come una fluttuazione quantica che operi in un sistema a minima energia e a dimensioni vicine alla scala di Planck può nascere un universo, così, dall’inconscia, primaria scaturigine del movimento creativo, può  fluire la poesia (“poca favilla gran fiamma seconda” – Par. I, 34) .

Lo sguardo umano, che i fisici, alla scala macroscopica, definiscono come “sfocato”, a un livello di estrema complessità, vede (o immagina) “il trascendente”. Quest’ultimo, pur costituendosi come alterità rispetto agli enti, con essi intimamente si connette, generando “un di più” che è valore – anche materiale (nel senso di Max Scheler[38]).

Verso il cielo. La dimensione della metafisicità non è, se non metaforicamente, quella del cielo. In realtà essa non si colloca in alto, in basso, a destra o a sinistra, ma in un altrove psichico o logico[39]; potrebbe situarsi anche in una coscienza che, quantisticamente, s’incarna nella realtà del “bìos” neuronale, a livello dei microtubuli  (questo secondo il modello “Orch-Or” di Penrose e Hameroff[40]). Non saremo quindi mai, prosaicamente, come vuole l’autore, “coi piedi a terra”.

Tardi. Il congedo del poeta da questa parte della silloge è un bilancio comunque neghentropico, a dispetto dell’idea che l’ultima parola suggerisce: “morte”. Al termine di un resoconto nel quale  riconosce errori ed omissioni, una parola alternativa al tragico, irredimibile risucchio nell’Ade viene nobilmente evocata: “amore”.

Quarta sezione (che dà il titolo all’intera opera) è: LE COSE DELMONDO. Vi si prosegue, su un registro prossimo al’etica dei valori materiali di Scheler, l’”itinerarium mentis” che conduce alla “res”, alle “res” e, da queste, ai territori dell’immaterialità. Per meglio analizzare e commentare, dunque, ciò che,  in questa “tranche” dell’opera, più risalta, a mio giudizio, in termini strutturali, mi gioverò del cosiddetto “schema di Propp”[41], che identifica, all’interno di un testo, alcune tappe costituenti l’argomento di esso: datità, evoluzione e risoluzione.

Le cose. Esse ci sopravvivono, “ingombro stabile [che] il tempo […] consuma senza strazio”, con lentezza metodica. 

Il tatto delle cose. “L’istinto più profano / famelico, oscuro materiale [ed] imperioso”, quello della prensione (che è, poi, quello cui fanno riferimento Arpagon e “Uncle Scrooge”), ci rassicura sull’effettualità del possesso.

Il nome della cosa (interludio) è il procedimento stesso del comporre, fatto di un vuoto primordiale e di fasi successive, attinenti all’elaborazione del progetto, alla sua attuazione e al conferimento ad esso di significato e di senso; con la confluenza del tutto “nell’imbuto dell’immaginario”.

Anello. Ad elementi descrittivi (“backbones” della datità e dell’esposizione evolutiva) fa seguito una sintesi finale sull’oggetto: “suggello [e] forza di catena”.

Armadio: custode “goloso di bugie” alla moda, alterna il “caos” a un ordine tanto “presuntuoso” quanto effimero. Il suo destino? “Da… / sogno dello scrigno a regno delle tarme”.

Astuccio: “vanity case”, “lucido tesoro [con] cerniera” assicura il rassicurante perdurare, ancora una volta, del sentimento del possesso.

Bambola. Inquietante oggetto di (frustrate) investigazioni anatomiche infantili alla ricerca “di cavità e anfratti occulti” – prodromo a indagini più adulte -, fomenta ricognizioni virtuali sul “fuoco della carne”.

Barca. Filar via, in sedicesimo, in “poco mare oceano”, su un “piccolo natante transatlantico[42] dall’”universo contingente della vita”.

Bicchiere. Transizione poetica dalla pura oggettualità al senso (metafisico) che, aristotelicamente, la trascende: “forma incontenibile di un contenuto” (il realismo: eccome se non esiste!).

Calze (femminili, “ça va sans dire”): induzione al peccato, con sfumatura di feticismo, al limite di un metaforico’”orlo del burrone, strappo e radice della sua ferita, / manifesta cicatrice dell’avvenuta squartatura[43].

Cappello. Dapprima copricapo, diviene “vessillo, fatua spia” (“The hat makes the man [C’est le chapeau qui fait l’homme] – Max Ernst) di un’idolatrica finzione.

Cartella. Da mero contenitore di carte, come dice il nome, può assurgere al rango di “musa della vigilanza”.

Diario. Quel che è e quel che esso rappresenta (alla Schopenhauer), ovvero una “riserva di ordine e destino organizzato / nel gorgo, giù, segreto dell’imbuto”.

Enciclopedia. L’ambizioso, satanico progetto (alla Borges) di un’impossibile “biblioteca de Babel”.

Finestra. “Aditus/exitus”, collegamento tra “orizzonte [e] centro”.

Gomma (per cancellare). Simbolo di complice tolleranza, “coperchio per gli errori[44].

Lavagna. Con la complicità del gessetto, che “incide, gratta, striscia, stride”, stabilisce confini tra il “buio fermo” e la “cosa” fatta segno.

Letto. Attraverso rimbalzanti quinari e senari doppi, viene celebrato come “porto sicuro e perno del giorno / che svolta”, pronubo di qualsiasi “narcisetto, adoncino d’amor” in via di apprendistato o di conferme: “arreso e ribelle, / disceso e salito all’averno, alle stelle”.

Libro. “Memoria e magazzino […] laccio e uncino [quest’ultima parola, significativamente, è stata già adoprata nel preludio, N.d.R….] puro distillato, senza più / la scoria, disossato”.

Matita. “Il primo segno inciso sul chiarore”, a far chiaro il rovello di un autore.

Occhiali. Se ne tratta come del “vecchio vetro rotondo, / specchio incisivo  e profondo / delle cose della vita e del mondo” (e perdonatemi se, inclinando al campanilismo, mi permetto di ricordare “L’occhiale” dell’antimarinista Stigliani).

Palo. “lungo stelo […] asse del mondo, albero e pilastro”: come l’”Yggdrasill”.

Pettine. “Dirime nodi [e] rende più splendenti [con la complicità della vecchia brillantina o del più moderno gel, N.d.R.] i sogni della vanità”.

Porta. “Il doppio gioco: entrata uscita, / paura e confidenza, la pausa e il moto. / La verità che si apre e si richiude sull’ignoto”.

Radio. “E’ la bocca del mondo […] porto raccolto [reminiscenza ungarettiana, N.d.r.] dentro il mare aperto, / energia e conforto, ristoro e compagnia”.

Scarpa. Tacco e punta, destra e sinistra: “in coppia: / cementa l’unità mentre si sdoppia”.

Sedia. “La pausa dal cammino, / arresto al moto per un maggiore slancio: / pedana, catapulta, trampolino”.

Vocabolario. “Governo […] di parole in schiera, […] la porta aperta verso l’inferno il paradiso e l’eldorado […] serbatoio / del bene e del male [in ebraico il Libro del Deuteronomio è conosciuto, da una delle parole iniziali del testo, come “devarím”, le parole, laddove  il singolare “dèvar” significa anche “cosa”, oltre che, con una lieve, diversa inflessione di pronuncia, “peste”, “mortalità”[45] – come dire: ”ne uccide più la lingua della spada”, N.d.R.] schedario di tutto l’universo”.

Postludio: “ma cosa fanno le cose quando / sfuggono di vista al controllo / che su di loro esercitiamo? […] Aspettano giorni inchiodate nel silenzio / che torni ad animarle un po’ la nostra presa?”. Come non pensare al Proust de “Mi sembra molto ragionevole la credenza celtica secondo cui le anime di quelli che abbiamo perduto sono prigioniere entro qualche essere inferiore, una bestia, un vegetale, una cosa inanimata, perdute di fatto per noi fino al giorno, che per molti non giunge mai, che ci troviamo a passare accanto all’albero, che veniamo in possesso dell’oggetto che le tiene prigioniere. Esse trasaliscono allora, ci chiamano e non appena le abbiamo riconosciute, l’incanto è rotto. Liberate da noi, hanno vinto la morte e ritornano a vivere con noi[46].

ATLANTE ANATOMICO è la quinta sezione del libro. Qui, ancora più di prima, è evidente la strutturazione delle singole voci secondo lo “schema di Propp”: la prima parte di quasi ogni singola voce si caratterizza per un catalogo dei significati letterali dei termini o per l’inclusione di questi nei vari modi di dire, luoghi comuni compresi, mentre la seconda, quella finale, conferisce loro un suggestivo contenuto simbolico o metaforico – ed è su questo che si appunta in particolare, secondo ci si attende, la lettura. Faccio notare che una simile (e più ridotta rispetto alla presente) ricognizione anatomo-funzionale del “soma”, fu condotta dall’amico poeta Arnaldo Ederle nella sezione “Poesie del corpo”, ne “Le magnifiche donne di Glencourt[47]

Preludio: vi si tratta, poeticamente, di sostanza, forma, DNA, stile e genere sessuale. In fisica il concetto di “singolarità” comporta il fatto che piccole variazioni di una grandezza che rende caratteristico un fenomeno sono in grado di determinare, in certi contesti, variazioni enormi, ovvero anche autentiche discontinuità, in altri ambiti di grandezze caratteristiche. In prossimità del cosiddetto “punto singolare” il sistema perde le sue tipicità e non può più essere descritto mediante equazioni lineari oppure, per una tendenza allo zero del denominatore delle soluzioni delle equazioni linearizzate, una delle grandezze considerate può tendere all’infinito. Ne risulta quello che, in filosofia, si dice “salto qualitativo” e, nella filosofia della mente, è noto con il plurale “qualia” – ciò che, appunto, qualifica la semantica della poesia. La transizione operata dal Ruffilli dalla cruda morfologia al senso è, propriamente e costitutivamente, ciò. E di ciò qui si tratterà.

Ascelle. “Principio di ogni voglia: / ampolla, nido, covo, grotta e plafoniera”.

Bocca. Terminale-imbuto “al lavoro […] per fare a pezzi e ingurgitare, insieme o sole, / tutte le cose e le persone anche a parole”.

Capelli. Noti, a tutti i mortali, “la natura morbosa e appassionata… / il capriccio, l’ebbrezza dei capelli”.

Caviglia. “Il fuoco e il ghiaccio avvolti nella sciarpa, un cielo che aspetta lo si tocchi. / Il corpo che esplode dalla scarpa”.

Cervello. Uno e due, testa e ventre (il gran numero di neuroni presente nell’apparato digerente ha fatto sì che il “gut” venisse definito come “secondo cervello”[48]) – di questo appare certamente avveduto l’autore. “E’ l’intestino in testa, è la matassa / grigia e stagna, la cesta del budello / la vera camera di combustione [che] fa / materia dell’idea creando l’opinione”.

Collo. “Una collana a stringere / per il piacere di averlo tra le mani” (qui si allude a quelle pericolosissime pratiche erotiche – ed anche autoerotiche – che, per esaltare il piacere sessuale, ricorrono a un non sempre controllato e controllabile strangolamento[49]).

Cosce. “le parti più gustose / la festa culinaria della gamba”, ben al di là dei riferimenti culinari al pollame e al capretto.

Cuore. “luogo di pene e di felicità: / il cavo propulsore di sentimenti e volontà / l’impulso che ridà esca alla carne” oppure una, sia pur complessa, pompa? Invero studi recenti[50] hanno identificato il cuore come organo in grado di produrre ormoni, quindi d’influenzare, sia pure indirettamente, altre funzioni, perfino cerebrali.

Denti. Strumenti dell’”atavico istinto a divorare”.

Ginocchia. Il potere e la fede se ne servono in termini di “obbligo, preghiera o devozione [espressi come] deferenza piena di gioia o lutto”.

Gomito. Sistema di leve atte a flettere, estendere, pronare e supinare, di estrema efficacia in termini evolutivi.

Labbra. “ingorde sentinelle”, inclini a “farsi penetrare”.

Lingua. “Biscia in bocca [può mimare] con le parole viscide sonore / la schiuma aerea delle onde”: effimera, disutile.

Mani. Sono “sigillo, conferma del contatto / che impone la forza e che l’accetta / mentre dispone sé dentro la presa, / assicura per via della sua stretta”.

Naso. Con ”palmarès” letterario d’indiscussa autorevolezza (Gogol), viene qui soggetto a retrocessione funzionale: “puro simbolo dell’aria / diventato [fine ironia!, N.d.R.] appoggio dimesso per gli occhiali”.

Occhi. “Per cui si arriva penetrando /  al fondo dell’animo e del cuore”, come vuole anche un noto detto popolare.

Ombelico. Antipasto di ancor più allettanti pietanze, si appalesa come memoria cicatriziale di eventi biogenetici, occorsi in termini tanto ontogenetici quanto embriogenetici[51].

Orecchi. L’irrispettosa sopraffazione acustica cui la modernità, sebbene dissenzienti, ci espone, implica che “invasa dal di fuori con l’udito / l’interiorità raggiunta [non può che venir, N.d.R.] scossa”, se non, addirittura, travolta.

Pelle. Impeccabile registrazione delle sue funzioni.

Pène (mia la sottolineatura). Il componimento non può non rinviare al corrispettivo belliano (“Er cazzo se po’ ddì rradica, uscello“ con quanto segue, in termini di variazione morfologico-semantica, con la moglie del farmacista che, delusa dalla virilità maritale, non ne ricava che “péne”)[52].

Piedi. “Le fondamenta della stazione eretta […] contatto vivo , viscerale con la terra / per lo scambio di influenze e di energia” (mito di Ercole e Anteo).

Schiena. “Metterci in groppa con gioia e per diletto / un figlio o un nipotino da portare in giro / o l’amante da gettare sopra al letto”.

Sedere. “Totem e tabù[53] conchiusi, alla Tinto Brass, in un “culo-imbuto [potenziale] risucchiante gorgo“.

Seno. “Fonte universale  […] con piena identità / che eccita e che allatta l’intera umanità”, oggetto di attenzioni letterarie di varia natura: laiche (Gόmez de la Serna[54]: “los senos de miel”) e, addirittura, mistico-religiose (Juan de la Cruz[55]: “En mi pecho florido, / que entero para él solo se guardaba, / allí quedό dormido”), ad attestare l’importanza, anche simbolica, del tema.

Spalle. “Grosse e large ad ogni assalto / a sopportare disagi e strazi, le fatiche… / assunto il peso della re-spon-sa-bilità / aspettando calmi quello che verrà”. Anche Aristocle, detto più tardi Platone (“dalle spalle larghe”, se è vero che fosse dotato di forte complessione e avesse praticato il pancrazio[56]), teneva in gran conto la “dýnamis” dell’anima irascibile, radice delle virtù guerriere, “nervo dell’anima” e, perfino, “eros” (paradosso: “fate l’amore con la guerra”), rifacendosi al leone-“thymόs” omerico dei guerrieri dai “forti omeri[57].

Testicoli. “Graditi negli usi più scurrili / per romperli in tutte le occasioni / o farli girare a qualcun altro / però sempre e soltanto da ‘coglioni’”. Corollario popolar-culto “d’antan”, altrettanto scurrile: testimone, dal latino “testis”, gonade maschile – ma vuol dire anche testimone, da cui i versi plautini “Salvis testibus / ut ted hodie hinc admittamus, Venerium neputulum[58] (Perchè permetto che tu vada coi testi…moni in salvo, nipotino di Venere!); e testimone in quanto assiste all’atto sessuale senza prendervi parte, da cui l’italiano “coglione”. Appunto. Nel serioso, antico Israele per giurare li si toccava[59].

Ventre. Eccessivo se, “colmo / e incontenibile”, si replica in discendenti balze.

Vulva.  “prugna solida […] scrigno, / polpa tenera […] pendici del ventre […] forra aperta […]  fica” – eh, Valduga? Ma se anche Shakespeare… Hamlet: Lady, shall I lie in your lap? Ophelia: No, my lord. H: I mean, my head upon your lap? O: Ay, my lord. H: Do you think I meant country matters?. O: I think nothing, my lord. H: That’s fair thought to lie between maid’s leg. O: What is, my lord? H: No thing.

Postludio. “Ogni parte del corpo chiede di essere / stanata […] sottratta al vuoto, ripresa e rianimata”, onde anch’io mi sono sentito autorizzato a riprendere, appunto, i temi proposti – quanto, poi, a non averli sminuiti…

LINGUA DI FUOCO, sesta e ultima parte dell’opera, si presenta come un ampio “excursus” sulla parola e sulla lingua – e anche, se si vuole, sull’antica, controversa questione: “nomina sunt consequentia rerum” (da Giustiniano a Dante) o meri “flatus vocis” (Roscellino di Compiègne)?

L’esergo preposto alla sezione, accenna alla disputa antica sugli universali.

Preludio. L’autore sostiene che “la parola, lingua di fuoco” può assurgere, realisticamente, alla formulazione di un “nome / come contenuto del suo contenitore”.

Si stacca la parola e Il clic. “Ecco che di colpo riesco a dare / corpo all’ombra” e si crea un ente in grado di potenziare (estendere) e assottigliare (specificare) un ambito semantico a tutta prima indifferenziato. La parola: strumento per dare un senso all’indistinto. Proprio come accade con l’amore: “E tecchete, na vota, come ll’erva / ca trovese ‘ncastrète nda nu mure, / nascivite ‘a paròua, / po n’ata, po cchiù assèi” (Ed ecco che, una volta, come l’erba / che si trova incastrata dentro a un muro / nacque la parola / e poi un’altra ancora e poi mill’altre), come cantò “nei vividi colori del pensiero” l’amico Albino Pierro da me tradotto[60].

La parola. “Ha filamenti lunghi [desinenze] la parola, / radiche [radici] chiare e barbe nere [i segni vergati sugli “alba pratalia” da “boves” d’inchiostro, come in un famoso codice detenuto dalla Biblioteca Capitolare della bella Verona in cui vivo, N.d.R.] / che pescano nell’utero del tempo”.

Accenni. Un risucchio nel “grande vuoto [nel] grande buio” dell’oblio “che grava fondo / in pieno giorno sui palpiti del mondo”.

Semplici parole. Una folgorante sintesi espressiva è in grado “di ingrandire e amplificare il senso […] fino a indurre / la più inedita ardua comprensione”.

Il vento della vita. “L’enigma si disvela nel linguaggio [quale] colpo di vento della vita / [che] soffia infilandosi da vagabondo / in giro dappertutto per il mondo”.

Fatale. La parola “ […] vita [o] ferita e morte”: “matando muerte en vida lo has trocado” (uccidendo la morte l’hai mutata / in vita) cantò Juan della Cruz[61].

Genere. Una persona non può essere ridotta a mero dato biologico.

Parole sciolte. A “libertà […] senso di ogni cosa […] verità” tendono “le parole sciolte via dal laccio / che le lega nel più profondo”.

Mente. Liberare la mente dal transeunte conduce alla “più assoluta […] contemplazione” ritrovando “ore su cui non hai / contato affatto “.

Il Paradosso. Ricondurre a ragione l’irrazionale. Scriveva Camus: “Dice Gide: […] ‘Le sole cose belle sono quelle che detta la follia e scrive la ragione’[62].

Categorie universali. Esigenza e prerogativa del cervello umano.

L’ultima stanza. Ad essa, come “séptima morada” (settima e ultima stanza – meglio: dimora) ci conduce Teresa d’Avila[63]: nel “vuoto del silenzio, del tutto / che è conficcato dentro al niente” (“todo y nada[64] congiunti, secondo Juan de la Cruz e la mistica di ogni tempo), nell’”incontro trascendente” / con la totale alterità, la vera vita”.

La voce del silenzio.  “The sound of silence” di Simon e Garfunkel: la “chiamata […] nel chiasso inascoltata: la voce / che grida non parlando nel deserto / e dando nome a ciò che è assente”. Quello dell’autore, in tutta evidenza – come scrisse il poeta, mio corregionale, Pancrazio Luisi (a suo tempo introdotto dal grande Tullio Regge) – “non è silenzio del pensiero / ma pensiero del silenzio[65].

La sete. “Solo tra le braccia della vita che rinasce / si spegne la sete di risposta al buio del mistero”.

Interrogativi 1. L’urlo del silenzio. Se “la vita come il sogno [Calderon de la Barca] / in guerra e pace [Sigismondo in guerra e in pace, alla fine dell’opera, contro il determinismo cieco del destino]”, trattiene l’eco della liberazione dei fotoni dal densissimo plasma (“brodo”) di particelle che formavano l’universo primordiale e continuamente mutavano le une nelle altre (“e la luce fu[66]”) – questo accadde quando l’universo passò, in meno di 1 sec, dalle dimensioni di un atomo a quelle di più di 10 anni luce (la cosiddetta “fase inflattiva”); se “l’eco lo stampo” del fenomeno ancor oggi rimbalza da un estremo all’altro dell’attuale universo come “radiazione cosmica di fondo” a microonde (possiamo ascoltarla dai vecchi televisori come una nebbia indistinta, crepitante con un suono neutro); se, in quel silenzio che pure è parte del cosmo, si nasconde un colore, “la tinta carsica” dei “quarkup” e dei “quarkdown”; se, infine, particelle continuano a interagire o a distaccarsi tra loro, differenziandosi (“per unione  nel distacco”) così nei raggi cosmici come negli acceleratori, in questo consiste l’“urlo” immane dello spazio, l’”energia oscura” che lo espande. 2. L’anima del mondo. L’autore si serve di quell’”archetipo  matrice / anima” che fa del mondo un tutto vivente (dai neoplatonici a Jung – indimostrato ilozoismo) per porsi la domanda su cosa si celi “nel cono d’ombra / nel retroscena” dell’universo materiale. Domande, non risposte (Bob Dylan, con “The answer is blowin’ in the wind[67] e ancora Hopkins, nella mia traduzione – qui per intero):

Verily Thou art a God that hidest Thyself(Veramente Tu sei un Dio che ti nascondi)  (il “Deus absconditus” di Is. 45, 15, ripreso da Pascal[68], o di Caproni, per vero suicidatosi [69]).

God though to Thee our psalm we raise / no answering voice comes from the skies; / to Thee the trembling sinner prays / but no forgiving voice replies; / but prayer seems lost in desert ways, / our hymn in the vast silence dies.

O Iddio, sebbene noi a Te leviamo /  il nostro salmo non giungono voci / dai cieli. A Te, tremante, il peccatore / si volge, ma non ci sono risposte. / Nessun perdono e la nostra preghiera / sembra perduta in sentieri deserti / e l’inno muore nel vasto silenzio. 

We see the glories of the earth / but not the hand that wrought them all: / night to a myriad worlds gives birth / yet like a lighted empty hall / where stands no host at door or hearth / vacant creation’s lamps appal.

Noi scorgiamo le glorie della terra / ma non la mano che le fece tutte: / la notte fa nascere mille mondi / ma, come sala vuota illuminata / che escluda il forestiero dall’ingresso / e dalla face calda del camino, / le luci della vuota creazione / ci colmano di senso sbigottito.

We guess, we clothe Thee, unseen King, / with attributes we deem are meet / each in his own imagining / sets up a shadow in Thy seat; / yet known not how our gifts to bring, / where seek Thee with unsandalled feet. 

Proviamo a immaginarTi, ti vestiamo, / ognuno con la propria fantasia, / o Re che non vediamo, di attributi / che riteniamo siano a Te più degni / gettando un’ombra scura sul tuo trono; / ma non sappiamo darTi i nostri doni, /dove cercarTi a piedi, senza sandali.

And still th’unbroken silence broods / while ages and while aeons run, / as erst upon chaotic floods / the Spirit hovered ere the sun / had called the seasons’ changeful moods / and life’s first germs from death had won.

Cova ancora il silenzio ininterrotto, / mentre scorron le epoche e gli eoni, / come all’inizio, quando il Santo Spirito / si librava su tempestosi flutti, / prima che il sole avesse radunato / i mutevoli umori di stagioni / ed avesse i primordi della vita / alla morte potuto portar via.

And still th’abysses infinite / surround the peak from which we gaze. / Deep calls to  deep and blackest night / giddies the soul with blinding daze / that dares to cast its searching sight / on being’s dread and vacant maze.

Abissi sconfinati ancora stanno / intorno al monte da cui noi guardiamo. / Oscuro chiama oscuro e un’atra notte  / stupisce e acceca un’anima incantata / ch’osi gettare il suo indagante sguardo / sui terribili nodi dell’assenza.

And Thou art silent, whilst Thy world / contends about its many creeds / and hosts confront with flags unfurled / and zeal is flushed and pity bleeds / and truth is heard, with tears impearled, / a moaning voice among the reeds.

E Tu sei muto, mentre la Tua terra / confligge per le sue svariate fedi, / e armate opposte con spiegate insegne / si affrontano, mentre lo zelo avvampa / di disonore e la pietà dissangua; / e ciò che è verità viene vissuto, /  fra collane di perle lacrimose, / come gemito perso fra le canne.

My hand upon my lips I lay; / the breast’s desponding sob I quell; / I move along life’s tomb-decked way / and listen to the passing bell / summoning men from speecheless day / to death’s more silent, darker spell.

Io chiudo le mie labbra con le mani; / spengo il singhiozzo amaro del mio petto; / mi muovo nella strada d’una vita / costeggiata di tristi cimiteri; / ascolto la campana vagabonda / che ci chiama, dal giorno senza voce, / al muto e scuro appello della morte.

Oh! Till Thou givest that sense beyond, / to show Thee that Thou art, and near, / let patience with her chastening wand / dispel the doubt and dry the tear; / and lead me child-like by the hand / if still in darkness not in fear.

Finché ci doni il senso più lontano / e vicino a mostrarci che Tu esisti,  / fa’ che, con la sua verga, la pazienza  / disperda il dubbio e allevî ogni cordoglio; / conducimi per mano, come un figlio, / ancor nel buio ma non nel timore.

Speak! Whisper to my watching heart / one word – as when a mother speaks / soft, when she sees her infant start, / till dimpled joy steals o’er its cheecks. / Then, to behold Thee as Thou art, / I’ll wait till morn eternal breaks.

Parla! Sussurra al mio cuore destato  / una parola come fossi madre:  / piano, se vede il figlio trasalire,  / finché la gioia non gli accarezzi il viso. / Allora, per guardarTi quale sei  / aspetterò finché la luce erompa / entro l’eternità del Tuo Mattino.[70

3.L’oltrepista. Anche qui, partendo dall’“inflazione cosmica” (“il flash inaspettato”), si pone il problema – irrisolto – riguardante “l’annuncio della rotta” che nessuno dovrebbe lasciare indietro “indimenticato”. 4. La sagoma del mondo. Al di là del nostro sguardo sfocato di umani, che preclude l’accesso, se non per il tramite di un’ermeneutica matematica, fino alla “scala di Planck”, come “ricomporre il taglio“ fra le cosiddette “due culture” (ci riuscì Pascal, ma fu per poco)? 5. La luce. La vista è il senso ontogeneticamente più evoluto, essendo una propaggine molto specializzata, del sistema nervoso centrale: nemmeno da lontano paragonarla alla “lingua [che] s’intoppa gonfia / e resta muta”. Ma quale certezza essa può darci, restituendoci una realtà – nonché, appunto, sfocata – cangiante? 6. Il vecchio nuovo. Interpreto, metaforicamente, questo “vecchio nuovo” ispirandoni alla pandemia da Coronavirus. Da sempre forme di “vita vivente / mobile e vagante” nel cosmo (secondo l’ipotesi della “panspermia” di Hoyle e Wickramasinghe, di cui alla nota n. 30), accrescono l’ambito del mistero. 7. La traccia. L’ipotesi del “disegno intelligente” contrasta con quello del “principio antropico” Vecchia questione: “entelechia aristotelica” contro “evoluzionismo darwiniano”. 8. Il presente. Non siamo fotoni liberati, dopo 380.000 anni di vita dell’universo, da un “brodo” densissimo e caldissimo di plasma tenuto insieme da una mostruosa gravità, siamo “sogno e desiderio e speranza” e fantasia, la cui genesi è tutta nel presente. 9. La nostalgia del mare, simbolo primigenio e realtà effettuale della biogenesi. Vi si collocavano, in antico, “mostri e fantasmi” quali Aphros e Bythos, Akheilos, Carcinus, Cariddi, Gorgoni, Sirene, per restare alla mitologia greca, espressioni proiettive degli incubi che nascono nel cervello degli umani. Secondo una lettera apocrifa di Agostino a Cirillo[71], al contrario, il mare, incubatore amniotico di vita, è simbolo dell’infinitudine di Dio. Ed è per questo che forse, misticamente, Leopardi dichiara essere “dolce” il naufragarvi.

Nel ringraziare il Ruffilli per la sua fatica, non sto a dire tutto quanto, sul piano formale, mi ha dato la lettura. Ricorderò solo rime folgoranti, allitterazioni incisive, metafore coerenti con il senso, ambiguità sintattiche – che si risolvono in amplificazioni semantiche[72] [73], musicalità del verso, dosate asperità stilistiche, ampiezza di contenuti cognitivi, persuasivi appelli alla sfera emotiva, sensibilità nei riguardi di aspetti problematici della scienza contemporanea, acuta coscienza del ruolo dell’educatore paterno nel rapporto con la prole e molto altro ancora.

Michele Arcangelo Nigro

[1] P. Ruffilli. Le cose del mondo. Mondadori. Milano. 2020.

[2] R. Luperini. La fine del postmoderno. Guida Editori. Napoli. 2005, pagg. 70-71.

[3] W. Szymborska. Gente sul ponte. Libri Scheiwiller 1996. Milano, pag. 73.

[4] R. Kaur. “I didin’t leave because / I  stopped / loving you, / Ii left cause the / longer I stayed the less / I loved myself “. Internet: uffingtonpost.co.uk/2015/07/23/rupi-kaur-instagran-censorship-artist-period-milk-and honey_n_7836108.html.

[5] B. Bratsberg, O.Rogeberg. Flynn effect and its reversal are both environmentally caused. Proc. Natl Acad  Sci Usa 2018; 115: 6674-8.

[6] H. R. Jauss. Storia della letteratura come provocazione. Bollati Boringhieri.. Torino. 1999.

[7] W. Iser. L’atto della lettura: una teoria della risposta estetica. Il Mulino. Bologna. 1987.

[8] Q. Orazio Flacco. Epistula ad Pisones (Ars poetica), 148.

[9] Protagora, fr.1. In: Platone. Teeteto, 152a.

[10] E. a. Poe. La filosofia della composizione. Guerini e Associati. Milano. 1995.

[11] Ex plurimis: E. B. Petcu et al. Artistic skills recovery and compensation in visual artiste after stroke. Front Neurol. 2916; 7: 76.

[12] U. Saba. Il canzoniere. Parole (1933-1934). Poesia. Einaudi. Torino, 1945, pag. 398 (mcozzapoesie.altervista.org).

[13]La dolcezza improvvisa della sera. Il fiume scorre pieno, lentamente, / percorso appena dal rabbrividire / del sole nella sera della valle. // Un treno, di lontano, sulla riva / serpeggia, disparendo nella roccia / di quanto in quanto e presto riapparendo, / festoso e sibilante, laggiù in fondo. // Potessimo anche noi risuscitare / di quando in quando, liberare il cuore / dall’umano esperanto del dolore! (mio inedito).

[14] J. L. Borges. Sogno nel sogno. L’Aleph. In: Borges. Tutte le opere. Arnoldo Mondadori Editore. Milano. 1984. Vol. I., pagg. 857-862.

[15] J. L.Borges. Finzioni. Einaudi Editore. Torino. 1974, pagg. 47-53.

[16] G. F. Hegel. Lezioni di filosofia della storia. La Nuova Italia. Firenze, 1989, pag. 230.

[17] Elizabeth the Great. Oh Fortune, thy wresting wavering state. In M. A. Nigro. Prose ritmate. Oltre la selva: Un itinerario storico-poetico, nell’immateriale, dall’Antico Egitto ai nostri giorni (inedito).

[18] J. Huizinga. Homo ludens. Einaudi. Torino. 2002.

[19] J.Bowlby. Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento .Cortina Raffaello. Milano. 1996.

[20] J.Bowlby. Cure materne e salute mentale del bambino. Giunti. Firenze. 1951.

[21] DSM V. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali.

[22] K. Zimmermann, P. Brugger. Signed soliloquy: visible private speech. Journal of Deaf Studies and Deaf Education. 2013; 18: 261-70.

[23] Harlow H.F. Age-mate or peer affectional system. In: Lehrman D.S., Hinde R.A. e Shawe E., eds. Advances in the study of behavior. Vol. 2. New York Academic Pres. New York. 1969; pagg. 333-83.

[24] F. Nietzsche. Divieni ciò che sei. Christian Marinotti. Milano. 2006.

[25] S. D. Luzzatto. Parashah Bereshit. 1872. In Internet: archivio-torah.it

[26] CEI-UELCI. La Sacra Bibbia. Edizioni Messaggero Padova. 2008.  Mt 10, 16.

[27] A mio nonno, che gli era amico, Giustino Fortunato confidò che, trovandosi, un giorno, a Napoli, insieme a Benedetto Croce, che spesso lo teneva a pranzo a Palazzo Filomarino (Fortunato, liberale non liberista, aveva sottoscritto il Manifesto Antifascista) ed egli avendo rappresentato al filosofo, con particolare calore, la misera condizione dei contadini meridionali, caldeggiando un intervento dello Stato, fu sconsigliato dal suo illustre interlocutore dal dedicare  molte energie al progetto di contrasto alla malaria che lo vedeva assai impegnato, con le agghiaccianti parole “Giusti’, non ci perdere l’anima, in fondo sono cafoni…”. Va da sé che il rionerese continuò a operare (alla fine anche con successo e con l’aiuto di Umberto Zanotti Bianco, a portare avanti il suo progetto).

[28] A. Camus.Taccuini (1935-1942). Bompiani. Milano. 2004. pag. 9.

[29] Platone. Fedro. Einaudi. Torino. 2011.

[30] Platone. Fedone, XXVII (testo tradotti dall’autore).

[31] F. Bacon. Novum Organum. Jazzybee Verlag. Altenmünster. 2016. Aphorisms – Book I, 39.

[32] E. T.Rolls. Neurobiologic foundation of art and aesthetics. In: J. P. Houston, M. Nadal, F. Mora, L. F. Agnati, C. J. Cela-Conde. Art, aesthetics and the brain. Oxford University Press. Oxford. 2015, pagg. 453-478.

29 Bernardus cluniacensis.  De contemptu mundi. Liber I, 952. In Internet: la.wikisource.org.

[34] F. Hoyle, C. Wickramasinghe. Sunspot and influenza.. Nature 1990; 343: 304.

[35] P. Aynajan et al. Visualizing heavy fermions emerging in a quantum critical Kondo lattice. Nature 2012,  486: 201-206

[36] K. Lorenz. Il cosiddetto male. Garzanti. Milano. 1974.

[37] W. Szymborska. Op.cit., pagg. 60-63.

[38] M. Scheler. Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori. Bompiani. Milano. 2013.

[39] SOLARIS (Lem-Tarkovskij). L’idea era quella dei positivisti / logici che pensavano al ciarpame / quando i problemi della metafisica / bussavano alla soglia del pensiero. // Venne alla fine Popper a mostrarci / che la speculazione metafisica / è la forma più seria di astrazione / che possa un giorno aprire uno spiraglio / su ciò ch’è detto scienza positiva. // In fondo ogni modello deduttivo / non può che derivare congetture / solo da postulati di esistenza / di un mondo immateriale di concetti. // Ne deriva che, lo si voglia o meno, /  ogni cosa, scavata un po’ più a fondo, / risulta in un problema metafisico. // Isolati poi siamo, in un gran mare / di presunzioni e di confutazioni, / di domande irrisolte e di questioni / che, generando inediti universi, / rimandano all’idea, alla speranza / che l’assoluto possa scaturire / da vortici avvolgenti e fluttüanti, / dal caos di Prigogine e dai quanti /di un Dio che gioca amabilmente a dadi (M.A. Nigro. Prose ritmate. Estetica della Fisica (inedito).

[40] R. Penrose. La mente nuova dell’imperatore. Rizzoli. Milano. 1992.

[41] W. J. Propp. Morfologia della fiaba. Einaudi. Torino. 2000.

[42] RICORDI (anni ’40 -’50). Mi sarebbe piaciuto possedere / una rossa automobile a pedali / o balocchi (di quelli di Savinio) / in legno colorato, somiglianti / a bigoli di zucchero, striati / di menta, di limone e di lampone / oppure un aeroplano “Messerschmitt” , / di quelli “veri”, modellati ad arte, / che volavano, fermi, agli scrittoi / di aviatori in pensione, in legno e acciaio. // Dovevamo attenerci alle barchette  / di carta di giornale o (fortunati!) / oleata, di quella del droghiere, / per navigare, lieti, in un mastello. M. A. Nigro. Prose ritmate. Intersezioni lucane (inedito).

[43] CAMINITO. Voglio stare, affilato come un tango, / con la mia tempia accanto a quella tua, / aspirando il sapore del tuo viso. // Bruna di seta e molle di caucciù, / porti una rosa aulente al décolleté, / ma il profumo del tango è di garofano: / penetrante, indecente e dissoluto. // Ti ho condotta in un vicolo, alla Boca, / per assediarti, fiera, contro un muro, / per fissarti famelico, insolente, / nella tua prepotente nudità / y buscar, como un pillo compadrito, / “las profundas cavernas del sentido”. M. A. Nigro. Prose ritmate. (inedito).

[44] PROVE DI FRUSTRAZIONE. M’incantavi tu, intenta a cancellare, / quello sgorbio, quel tratto di matita / che irrideva al tuo studioso impegno, / a tutta la fatica del disegno, / su, nell’angolo destro della pagina, / con i capelli fini a carezzare / il tuo scrittoio. Mentre mi turbava / quell’interrogazione nei tuoi occhi: / che non fuggisse via dai tuoi pensieri / quel che tu vagheggiavi e che bramavi / raffigurare tutto in un istante. // Ma l’alternato moto della gomma / spiegazzava quel foglio dispettoso / (incaponita a che nel suo biancore / nessuna traccia errata permanesse, / la tua tenera hýbris postulava / che cancellare fosse impresa facile) / e allora, contrariata, ti accingevi, / con reiterato gesto della mano / paffuta e laboriosa, a ripianarlo. // La carta assottigliando, all’improvviso, / altre volte la gomma (la peggiore / di tutte quante era quella da inchiostro, / sabbiosa ed insidiosa) spalancava / baratri irrimediabili sul foglio / e beffarda, al contempo, corrugava / persino i rudi fogli da disegno. // E mentre ti  schermivi, un po’ confusa / (“Scusa, papà, ho fatto un bel pasticcio…”), / traguardavo, all’albore di tua vita, / quelle piccole/grandi delusioni / mentre gravava sulle mie carotidi / un’ansimare trepido ed oscuro / per quanto già accorava il tuo sentire. ”. M. A. Nigro. Prose ritmate. (inedito).

[45] P. Marzolo. Monumenti storici rivelati dall’analisi della parola opera di Paolo Marzolo. Tip. Del Seminario. Padova. 1847, pag. 285.

[46] M. Proust. Alla ricerca del tempo perduto (Dalla parte di Swann). Arnoldo Mondadori Editore. Milano. 1983. In Internet mabastainsoma.blogspot.com.

[47] A. Ederle  Lre magnifiche donne di Glencourt. CFR. 2014.

[48] M. M. Kaelberer, et al. A gut-brain neural circuit for nutrient sensory transduction. Science 2018; 361: eaat5236.

[49] Y. Baber, E. Bott. Natural death in the setting f  autoerotic practice. Forensic Sci Med Pathol  2016; 12: 174-7.

[50] Z. Bakova et al. Thyrotropin-releasing hormone in rat heart: effect of swelling , angiotensin II and renin gene. Acta physiol. 2006; 187: 313-9.

[51] E. Boncinelli. G. Tonelli. Dal moscerino all’uomo: una stretta parentela (a cura di E. Casadei). Sperling e Kupfer. Milano. 2007.

[52] G. G. Belli. Er padre de li santi. Tutti i sonetti romaneschi. Newton. Roma, 1998.

[53] S. Freud. Totem e tabù. Rizzoli. Milano. 2012.

[54] R. Gόmez de la Serna. Senos. Editorial Biblioteca Nueva. Madrid 2014 (ediciόn digital

[55] J. de la Cruz. La noche oscura (Canciones del alma). Giunti al Punto. Firenze. 2018.

[56] Diogene Laerzio. Vite e dottrine dei filosofi illustri. Tipografia Molina. Milano. 1842. Vol. III, 4.

[57] Omero. Odissea. Traduzione di Paolo Maspero. Firenze. Successori Le Monnier. 1871.Libro XIV, v. 661.

[58] T. M. Plauto. Miles gloriosus. Mondadori. Milano. 2017. Atto V, vv. 1422-23.

[59] CEI-UELCI. La Sacra Bibbia. Edizioni Messaggero Padova. 2008. Gn 24, 2.

[60] A. Pierro. I ‘nnammurète. In: Tutte le poesie. Edizione critica. Salerno editrice. Roma. 2012.

[61] J. de la Cruz. Llama de amor viva. Cancion II. Colecciόn de los mejores autores españoles. Tomo XLIII. Tesoro de escritores místicos españoles. Baudry. Parigi. 1847,pag. 534.

[62] A. Camus.Taccuini (1942-1951). Bompiani. Milano. 2004. pag. 9..

[63] T. Sánchez de Cepeda Dávila y Ahumada. Las moradas del castillo interior. Internet: dfists.ua.es.

[64] Jesús Mancho Duque. El símbolo de la noche en San Juan de la Cruz. Estudio Léxico-semántico Ediciones Universidad de Salamanca.  Salamanca. 1982, pag. 42.

[65] P. Luisi. Il punto di Lagrange. A G.N. MPE – Menconi Peyrano Editori. Milano. 1995.

[66] CEI-UELCI. La Sacra Bibbia. Edizioni Messaggero Padova. 2008. Gn 1, 3.

[67] B. Dylan. Blowin’ in the wind.

[68] B. Pascal. Lettres provinciales. Vers le 29 octobre 1656, III. In: Oeuvres complètes. Gallimard. Paris. 2000.

[69] J. S.D. Blakesley. G. Caproni. Modern Italian poetsTranslators of the impossible. University of Toronto Press. Toronto, Buffalo, London. 2014, pag. 94.

[70] G. M. Hopkins. Op.cit.

[71] L. Pillon. La légende de s. Jérome d’après quelques peintures italiennes du XVe siècle au Musée du Louvre. .Gazette des Beaux Arts. 3e sér., XXXIX. 1908, pagg. 306-16.

[72] G. R. Kuperberg. Neural mechanisms of language comprehension : challenge to syntax. Brain Res. 2007; 1146: 23-49.

[73] M. Martin-Loeches et al. Semantic prevalence over syntax during sentence processing: a brain potential study of noun-adjective agreement in Spanish. Brain Res. 2006; 1093: 178-89.

1 commento su “ACCOSTANDO “LE COSE DEL MONDO“ DI PAOLO RUFFILLI”

  1. franco casati

    Intelligente, originale e ricco commento di uno scienziato-umanista come Miche Nigro, poeta a sua volta. Felice incontro fra una cultura scientifica e quella umanistica, dove tuttavia non si nascondono le proprie convinzioni teoriche, preferenze e perfino convinzioni morali. Un botta e risposta, un dialogo umano sollecitato dalla poesia di Ruffilli che apre a vasti scenari.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Torna in alto