GOZZANO E NONNA SPERANZA

GOZZANO E NONNA SPERANZA

Apro Pape Satàn Aleppe di Umberto Eco. Naturalmente mi convinco di aver aperto a caso, sempre che aprire un libro – quel libro e non un altro, a una determinata altezza e non a un’altra – sia un caso. Sono a pagina 24 e trovo una Bustina dal titolo gozzaniano: Rinasco, rinasco, nel milnovecentoquaranta. Così Eco: «La vita altro non è che una lenta rimemorazione dell’infanzia. D’accordo. Ma quello che rende dolce questo rimembrare è che, nella lontananza della nostalgia, ci appaiono belli anche i momenti che allora ci sembravano dolorosi», come «le notti passate nel rifugio antiaereo». Lo davo per scontato, ma resto comunque perplessa sul nel che sostituisce il del che figura nellAmica di nonna Speranza di Guido Gozzano. «Rinasco nel» implica una madeleine: ed è esattamente ciò che Eco ha espresso (mentre io ricordavo solo male, e neppure mettevo in conto la madeleine). Infatti scrive, pensando alla reintroduzione del grembiule nero nelle scuole: «avverto in bocca un sapore di madeleine imbevuta di tiglio, e come Gozzano mi viene da dire ‘rinasco, rinasco, nel milnovecentoquaranta’». Ma Gozzano ha scritto «rinasco, rinasco del mille ottocento cinquanta», a conclusione, nella chambre à souvenirs, del catalogo delle «buone cose di pessimo gusto» date in accumulazione per asindeto, penultima delle quali, in posizione strategica, «il cúcu dell’ore», un richiamo letterale alla dimensione del tempo, e il solo elemento, qui, a sottrarsi alla condizione di fissità. E l’«ora antica» è l’«ora vera», dirà in Torino, città consolatrice, ma consolatrice solo in absentia, alla maniera dei suoi amori, dei suoi desideri (ad Amalia Guglielminetti: «io non sono innamorato che di me stesso; voglio dire: di ciò che succede in me stesso»). E in Torino d’altri tempi: «E ancora una volta chiederò al sogno, al sogno soltanto, la cosa impossibile a tutti (anche impossibile a Dio): di resuscitare il passato». Perché? Perché il passato non è alterabile, e come orizzonte dell’ormai cristallizzato surroga ogni empito ottativo, realizza una autoesclusione, l’esenzione sia dalla vita che dalle sue maschere. Il passato può essere ratificato da una fotografia, da un vintage, da un libro, da un gobelin, da una vecchia stampa, da una oleografia, da una storia, da una grafia arcaica: l’essenziale è che si tratti di una immagine che non muta. Nell’Amica di nonna Speranza la rima canta : cinquanta davvero traduce l’illusione del tempo ritrovato? Gozzano sembra dire «rinasco del» come se appartenessi all’anno 1850, data impressa nel «dagherottipo» dell’album di famiglia: è il fascino delle date, affine a quello dei toponimi in Proust. In Gozzano al cronologizzare corrisponde la censura del proprio tempo. «Adoro le date. Le date, incanto che non so dire»: l’ennesimo artificio per schermarsi nell’inalterabile, vetrificato-accertabile, e quindi il solo grado di esistenza padroneggiabile, nell’esondante stilema della distanza da cui va guardata la vita, tanto per «non prendervi parte»? Oppure nella distanza come via del rifugio, o un espediente «per rivivere in altrui», o qualcosa di funzionale al suo «libro di passato», in quanto fattore regressivo? Artificia che l’artifex compone per una fuga dalla contemporaneità che lo salvaguardi dal calarsi nella vita, ma non questo soltanto. Dire del è come dire che la memoria o l’immaginazione, il vagheggiamento o lo schermo o la fuga, oppure qualcosa di non attingibile e di illambibile come Carlotta ci rapiscono da noi stessi, ci fanno diventare altri da noi, ci indicano altre origini e altre appartenenze. E questo è una specificazione della onnipervadente insistenza gozzaniana a collocarsi fuori del tempo, e inoltre della paradossalità, della qualità statutariamente irrealizzabile dei suoi amori, della sua conclamata propensione per le non condizionanti situazioni in potenza, benché Carlotta fosse diversa dal quadrifoglio: il quadrifoglio non raccolto è il presente desiderabile rifiutato, l’evento d’eccezione cui non prendere parte. Carlotta è il sogno del potenziale e dell’inverosimigliante. E cos’altro è il sogno dell’inverosimile se non desiderio di stare con sé solo, di «appartenersi», attraverso tutte le possibili strategie dell’assenza volontaria? Narrativizzare l’assenza, nella convergenza assurda e inaudita di vissuto e di accadibile. Pubblicammo, Matteo Veronesi e io, una antologia gozzaniana per l’anniversario dei Colloqui. Il contributo di Veronesi aveva come titolo: «Con altra voce». Gozzano fra umanesimo, simbolismo e mistica. Il mio: I Am Waiting: «yacht : cocottes», alterità e discronia nei versi di Guido Gozzano. Traggo da Veronesi, circa il nesso tra distanza dalla vita e umanesimo: il quale si origina «nella temperie sommessa, monologante-dialogante, di un raccolto e sentito discorso interiore. In ciò sta il profondo ‘umanesimo’, l’opaca, ma in fondo autentica sin nelle sue maschere, nei suoi artificiosi pigmenti, nei suoi «sottili schermi», humanitas di Gozzano: il quale, con il romitaggio, l’«esilio», l’«appartenersi» e il «meditare» dei suoi alter ego, delle sue proiezioni, delle sue maschere, pare rievocare la solitudine cogitante, l’introspezione, lo scavo interiore, e insieme l’«immergersi spiritualmente», il «transferirsi», in altre epoche attraverso la lettura e la meditazione, che rappresentano, da Petrarca a Machiavelli fino, appunto, alla religio litterarum carducciana e vociana, uno dei tratti essenziali dell’umanesimo». Torniamo alla preposizione del da cui sono partita: in Gozzano non è il passato ad appartenerci, siamo noi ad appartenere al passato, anzi a essere noi stessi figli, prodotti («rinasco») del passato che ricreiamo, che facciamo rinascere mentre in esso a nostra volta rinasciamo, dentro di noi. La memoria, che dovrebbe concorrere alla costruzione del sé, può invece destrutturare, ed esserne una deformazione. Così, la memoria e la rievocazione dell’infanzia, del tempo originario, della primavera stagionale che è anche rinascita della vita e, dantescamente, primavera dell’universo, altrove si fanno letteralmente straniamento da sé e dal mondo. «Socchiudo gli occhi, estranio / ai casi della vita. / Sento fra le mie dita / la forma del mio cranio… // Ma dunque esisto! O strano! / vive tra il Tutto e il Niente / questa cosa vivente / detta guidogozzano!» (La via del rifugio). «Risorge chiara dal passato fosco / la patria perduta / che non conobbi mai, che riconosco…» (Paolo e Virginia). Qualcosa di analogo è, in fondo, nella coscienza storiografica. Viene in mente, per pura ardimentosa analogia, Tito Livio (XLIII 13): «Mihi vetustas res scribenti, nescio quo pacto, antiquus fit animus; et quædam religio tenet», «nel narrare cose antichissime, non so come, l’animo diventa antico, e una sorta di sacro terrore mi possiede». Anche il gozzaniano «cúcu dell’ore che canta» è la musica del tempo: anzi il tempo spazializzato e misurabile dell’orologio, che si diluisce, attraverso il ricordo, nel divenire del ritmo interiore espresso dai versi. Quel «cúcu dell’ore» ha misurato il passato cosí come sta misurando l’ora presente. È il passato che perdura nel tempo determinato del presente per il manifestarsi del ricordo. È la misura del passato che dirada e relativizza se stessa. Forse una riduzione ironica, e forse pure inconsapevole, dell’«orologio da rote» di Ciro di Pers: «Mobile ordigno di dentate rote / lacera il giorno e lo divide in ore, / ed ha scritto di fuor con fosche note / a chi legger le sa: sempre si more». Antiquus  fit animus: è esattamente ciò che accade a Gozzano, anche se per lo storico antico l’esito è la celebrazione, per Gozzano il senso della perdita: su tutto grava una «decrepitudine varia», «le scatole» sono «senza confetti», «le buone cose» sono sorpassate dal tempo. Una circostanza minima come una preposizione potrebbe suggerire un discorso estensibile a tutta la coscienza storica di Gozzano, ad esempio alla sua visione del Risorgimento, quel malinconico mito, quella costruzione eroica, per così dire, liquefatta nella fonction fabulatrice e immersa, quasi dissolta in una atmosfera nostalgicamente evocativa. Oppure alla sua percezione delle antiche radici indoeuropee che egli a tratti sfiorò, la «cuna del mondo», come ormai straniate e remotissime e proprio per questo affabulanti nelle sue letture da Aśvaghoṣa, il Dante del Buddhismo. Una lontananza spaziotemporale in cui «l’amico delle crisalidi» poneva la speranza folle e vana, e forse neppure davvero nutrita, in quanto sopravanzata dalla libido moriendi, dello scampo alla «Signora vestita di nulla». È tipico dei grandi poeti: hanno una loro interna coerenza, che è sotterranea, altrimenti non sarebbe coerenza, ma banalità; e basta un minimo dettaglio perché, nell’interpretazione, quel quasi impercettibile lampo corra en vague, e si trasmetta e si rifletta lungo l’arco vastissimo del loro discorso, mutandone l’aspetto o la parvenza. Ma il rischio della sovrainterpretazione è sempre dietro l’angolo. In questo rischio non è mai incorso Umberto Eco. E se dobbiamo stare, com’è sacrosanto che sia, ai «limiti dell’interpretazione», sarà più difficile mettere i giusti limiti alla nostra commozione, ora che Eco non c’è più, mentre noi lo leggiamo.

Elisabetta Brizio

Lotta di Classico

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