L’OPERA DI ALESSANDRO RICCI

L’OPERA DI ALESSANDRO RICCI

Inutile nasconderlo: non è facile leggere la poesia di Alessandro Ricci (Tutte le poesie, Europa Edizioni, a cura di Francesco Dalessandro). Per­ché è complessa, ragionativa, razionale ma capace di muoversi per lampi intuitivi, che richiedono attenzione e rigore: Ricci non insegue aneliti emotivi su su fino agli ultimi cieli, ma nean­che maschera la superficialità con la scusa dell’incomunicabili­tà. Non è poesia che, urlando le sue parodiche condanne, o de­strutturando il linguaggio con cut-up e ghigni asemantici, faccia sentire dalla parte giusta e acuta del mondo. Ma non è nemme­no una poesia accartocciata su sé stessa, su lirismi di cartapesta e sussurranti verità (in)sensibili al poeta. Come spesso accade, una buona definizione si trova nelle parole messe in bocca ad altri dall’autore: Ricci vorrebbe, e quasi sempre ottiene, «uno stile antichissimo che risale / dalla memoria macinata e sparsa, / senza fatica» (Lettera di un padre al figlio). Dove il senza fatica va ovviamente inteso secondo il Calvino delle Lezioni americane: la spontaneità dello stile è illusoria, è un effetto finale consape­volmente inseguito, perché ci si arriva attraverso un lunghissi­mo lavorio, di cui nel nostro caso è testimonianza evidente la produttività poetica lungamente dosata negli anni (cfr. quanto dice Francesco Dalessandro nella sua Nota). Dietro la memo­ria macinata e sparsa, invece, intuiamo certi temi dominanti, che sono quelli di sempre (la morte e la consunzione del tempo, la fatica nel cercare un ordine nell’esistenza individuale e colletti­va…), ma declinati secondo una sensibilità storica e una visio­ne del passato peculiari, da cui nascono certe tipiche posture stilistiche che diventeranno facilmente riconoscibili al lettore. Ricci non segue, nell’articolazione dei significati, linee pro­grammatiche: nella diacronia dei suoi testi non troviamo temi che, in modo univoco, guadagnino spazio sugli altri; e nemme­no ci sono evidenti cambiamenti nell’atteggiamento dell’au­tore verso il mondo. È come se, piuttosto, in ogni testo con­fluissero tutte le possibili spinte evolutive, passate presenti e future, senza possibilità di sintesi: non ci sono verità, tanto che le incarnazioni del male e del bene possono susseguirsi nello stesso verso senza soluzione di continuità, e soprattutto entrambe senza maiuscola: «maledetti da satana e cristo» (Il lago di Costanza), «forse dio / è troppo assassino / per non esistere» (Ad agosto mio padre camminava…). La continuità è garantita solo dalla forma: ovvero dalla costanza del rigore e di una certa, evidente sprezzatura. Se, tuttavia, volessimo cercare una qualche chiave di lettura che ci permetta d’introdurci in un mondo artistico così vasto, allora penserei all’idea del confine. Ricci, infatti, è nato proprio a ridosso di un confine (Garessio, tra Piemonte e Liguria). Inol­tre l’ambientazione antica prediletta nelle sue poesie, cioè quel­la greco-latina, oltre a chiamare in causa – soprattutto nelle Segnalazioni mediante i fuochi – l’Asia Minore (dunque al confine tra Oriente e Occidente), è spesso diacronicamente spostata verso la tarda antichità (dunque al confine tra le epoche: si pensi ai personaggi storici cui Ricci dà voce o a cui si rivolge in apostrofe, come Ammiano Marcellino o Giuliano l’Apostata). Il confine, sul piano esistenziale, è vissuto più come separa­zione che come ponte od occasione d’incontro: Ricci fa da vedetta, come un Drogo buzzatiano della poesia, difendendosi con l’estetica dei versi da un’estraneità che lo sostanzia e lo perseguita assieme. Ed è un confine, per quanto indefinibile, anche quello fra passato e presente attraverso cui si muove la quasi totalità di questi versi: infatti Agostino, pur non essendo mai citato, è una presenza silente dietro tutta l’opera di Ricci, non solo per il tema del tempo e della memoria, ma anche per il pathos della riflessione. Non stupisce allora se, nella generale cadenza ragionativa di questa poesia, le aperture esponenziali all’intuizione filosofica siano proprio quelle che riguardano la riflessione sul tempo: «ed è già ieri, dilaga / l’appena stato» (L’agitante diversa sera). Tuttavia, se andassimo a cercare trasversalmente, nell’intero percorso poetico ricciano, momenti di epifania, attimi in cui il tempo si comprime e – come fa l’attrazione gravitazionale con gli atomi che formano il nucleo delle stelle – genera luce, faticheremmo a trovarli: il tempo di Ricci è un aevum senza kairòs. Una circolarità a volte tesa e corrucciata, e altrettan­te volte quasi rilassata, serenamente rassegnata e accogliente: mai, però, illuminata o trasfigurata da qualche sorta di veri­tà sopravanzante la legge materiale che regola l’eterno ciclo di nascita, trasformazione e morte delle forme. Alla poesia di Ricci manca, come già accennavamo, l’incontro. E l’autore ne sembra ben consapevole. Stando a quanto lui stesso scrive, i suoi versi nascono proprio come cristallizzazione, stilisticamente coerente, di un incontro mancato: «Le persone / mancate – solo oggi è chiaro – / sono sbagliate per sempre, sono / simbolo, e un simbolo, se / stilisticamente coerente, va / conservato così / com’è» (La confessione). Sarebbe fin troppo facile, cedendo alla tentazione di certe attempate critiche psicanalitiche, pen­sare subito al fantasma del padre, lampeggiante in tanti testi; si tratterebbe comunque e soltanto della superficie biografi­ca del problema. Si lega alla riflessione sul tempo, ovviamente, anche la per­vasività dei riferimenti alla morte: una morte che tuttavia quasi mai colpisce con violenza, che non spezza di netto, ma cor­rode da dentro, come uno di quegli abbracci tanto affettuo­si quanto asfissianti. È una morte vista sub specie historiae, non aeternitatis: vista, cioè, come una forza annichilente continua, infinitamente coerente con sé stessa, e in fondo proprio per questo familiare all’uomo; non una sora nostra morte, perché in Ricci non è riscattata da pacifiche visioni religiose, ma nem­meno una forza disumanizzante e maligna. Leggiamo, infatti, nei Cavalli del nemico, e cioè in una raccolta cui Ricci lavorava sapendo già di star parlando anche della propria, di morte: «È forse / allora la morte naturale, l’estremo / giro che al nostro sangue permettiamo / di compiere, e non quello vano che / vorremmo confluisse in altri per / sempre o nelle parole che restano / a chi non furono dedicate, l’amore / intollerabile, insensato, / perenne» (1974, 1984). Una morte, dunque, affrontata nel bel mezzo della piena, senza innescare mistiche del vuoto, come invece avviene nell’ultimo Caproni con la teologia negativa. Citazioni di letterati e amici, individualismo drammatico, importanza della forma, gusto per il riferimento dotto: date queste caratteristiche, non ci stupisce che nei testi tornino più volte le figure di Catullo e dei neoteroi. Quasi in ironica ridon­danza col nome di battesimo del poeta, la categoria che mi pare possa meglio attagliarsi alla poesia di Ricci è proprio quel­la dell’alessandrinismo, per altro già più volte proposta dai suoi critici. Il lettore si trova di fronte, infatti, a testi non di rado diffusi fino alla dimensione del poemetto; colti, anzi coltissimi, densi di riferimenti al passato e, dal punto di vista di questo scenario anticheggiante, realistici: nell’onomastica e nella to­pografia. Allo stesso tempo, però, il realismo evapora quando l’asse temporale si flette verso l’oggi: in una sorta di presbiopia speculare a quella dei dannati di Dante, capaci di predire il futuro ma non di vedere le azioni dei loro cari ancora in vita, Ricci vede e dipinge i dettagli del mondo soltanto quando lo proietta nel passato, «innestando su dati storicamente inecce­pibili la sua riflessione esistenziale» (Pontiggia). Non mancano le raccolte o le sezioni in cui la scenografia lirica sia più salda­mente ancorata all’oggi, ad esempio ai paesaggi urbani (si veda tutta la prima parte di Indagini sul crollo, legatissima alla topo­grafia capitolina); e allo stesso modo non mancano testi in cui l’io si esponga senza mediazioni storiche, aprendosi alla narra­zione di episodi quotidiani e autobiografici, come gli incontri d’amore sul treno (Le comunicazioni nell’orbita), vari episodi dell’infanzia (Lo zoo; La confessione) o le passeggiate per il centro di Roma (Ad agosto mio padre camminava…; Il padre, la città e i cani). Tuttavia l’impressione è che – mi si perdoni la dittologia – alla presenza del presente corrisponda sempre un contrappunto, a volte muto a volte sonoro, di un passato ubi­quo e universale, ovvero svincolato da una dimensione esclu­sivamente memorialistica (esemplari sono, fin dal titolo, gli in­serti latini nell’Evangelo delle talpe). Anche gli episodi a noi contemporanei, cioè, sembrano sempre calati in un orizzonte vasto e con le spalle rivolte all’indietro, come fossero l’ennesi­mo riflesso di un grande gioco di specchi in cui anche ciò che accade oggi è solo la proiezione di qualcosa già accaduto mol­to tempo fa. Poiché, per dirla con le parole di Ricci, «il tempo davanti fu / dietro» (La conversazione). Perfino nei testi in cui troviamo referenti attuali, tecnici, industriali (jet militari, plastica, e così via) dalla loro nominazione non scaturisce una descri­zione o un’azione reale: rimangono enti sospesi, quasi vignette. Proprio la postura stilistica dominante in Ricci, spesso nar­rativa e dialogica, oltre alle ambientazioni classiche di tanti te­sti, spesso lo fanno scivolare – come abbiamo già accennato – con naturalezza nella dimensione del poemetto e dei carmina docta, com’è evidente fin dalla raccolta che apre questo libro, Le segnalazioni mediante i fuochi: Furio Seniore, oltre a dare il titolo al primo testo e ad animarlo con la sua prosopopea (rivolta, non a caso, a Catullo), è una figura che si ripresenta in testi successivi (Epigrafe per un suicida pompeiano e Baia, un suicidio per acqua). Alla scelta di non puntare su evidenti logos strutturali (i testi delle tre raccolte edite furono disposti dall’autore, nella maggior parte dei casi, secondo l’ordine cro­nologico di stesura) si aggiunge, dunque, una fluidità narrativa che rende ancor di più l’effetto di una poesia fluviale: un personaggio, un evento storico, o una suggestione di sapore classico si possono diramare in più testi, come periodici canali laterali; ma poi la diramazione si rigetta nel largo corso del fiume, senza costi­tuire simmetrie, deviazioni studiate, filoni tematici strutturati. Rivolgiamo ora più da vicino uno sguardo alla gestione prosodica di Ricci, partendo da una sequenza emblematica: «E noi siamo qui. I passi / gocciolano nel silenzio dei marmi, le voci / anfano, e ci fermiamo / nella colonna di pulviscolo / che piuma l’occhio di bronzo, / l’alta tana / del mezzogiorno dorato. » (Furio Seniore, II).  Lo strumento principale attraverso cui Ricci realizza la sua prosodia, l’abbiamo già detto, è evidentissimo all’occhio e all’orecchio: l’uso fitto dell’enjambement produce il ritmo così tipico della sua poesia, fluido e non incasellabile nelle partiture tradizionali, ma comunque controllato e regolare; non a caso, le pur onnipresenti inarcature non travalicano mai i confini di strofa. Questa impressione ritmica può ricordare, in un pa­rallelo musicale, la scuola dei minimalisti contemporanei: Ny­man, Einaudi, Glass. Nel testo citato, vediamo (ascoltiamo) in atto una metrica in cui si staglia il tempo dispari (ma comun­que non domina: gli ultimi due versi citati sono un quaternario e un ottonario), ma in continue composizioni e scomposizioni: il primo periodo, fino al punto, è un quinario; settenario è tut­to il primo verso; abbiamo undici sillabe nella pericope I passi gocciolano nel silenzio, così come compongono un endecasilla­bo le parole del secondo verso fino alla virgola; è un settena­rio il terzo verso, ed è un quinario anche la pericope spezzata dall’enjambement (le voci / anfano). A questa capacità di comporre ritmicamente i testi seguen­do schemi orchestrali più che letterari, suddividendoli in movi­menti più che in partizioni metriche tradizionali, corrisponde anche l’estrema cura posta da Ricci nello studio delle clausolae. Non di rado gli ultimi versi delle poesie rappresentano una contrazione dei precedenti. Spesso incontriamo dei quinari, con un effetto d’improvviso («finché riapparve il lago, / im­menso nella tempesta, / e fu da solo», Il lago di Costanza; «accenni, di rena finissima, bianca / e asciutta, questo / porcile ormai», L’enfasi dell’ostaggio; «come / le piume di un’oca grassa un morente / gatto felice», Non è un aliante): data la matrice culturale di Ricci, si potrebbe perfino ipotizzare un ascendente classico dietro l’uso di queste unità metriche, ov­vero l’adonio, il verso che chiudeva la strofe saffica e che già Carducci e Pascoli tentarono di adattare alla nostra poesia. Al­tre volte, l’autore enfatizza la chiusa con un rallentamento («di una nave lentissima / al largo e del fuoco, / disperatamente.» Il fuoco) che può anche avere una chiara postura gnomica («Si è abili a morire e a vivere», L’agitante diversa sera). Chiudendo un discorso che vuole introdurre il lettore a un nuovo mondo poetico da esplorare, riesce sempre fin troppo facile il trucco di affidarsi ad una citazione in grado di espri­mere, in quella parte-per-il-tutto che tanto piace alla tradizione occidentale, la densità specifica dell’intera opera. E se pensate che, avendo scritto questa frase, mi asterrò dal giochetto, vi sbagliate. In una poesia così prosopopeica e mascherata sotto cento identità come quella di Ricci, la tentazione di far parlare un suo personaggio è troppo forte. Allora ci affidiamo a Te­odoréto il Vecchissimo, e alle parole che rivolge allo scultore Suìda nella Provincia marina di Bisanzio: «Dimentica la favola cristiana che bella / è l’anima sola. Ogni bellezza ha / un’anima, come l’hanno massi e parole / levigati o animali lisci per gioventù / e vigore.» (Furio Seniore, III). Non ci si stupisca se una poesia così ancorata ai giganti che l’hanno preceduta si pone come primo obiettivo il più antico di tutti, dai classici ai romantici, da Orazio a Keats: celebrare la bellezza in tutte le sue forme, e particolarmente in quelle meno istituzionalizzate (non nell’anima sola), perché ogni bellezza ha una sua anima da conoscere e a cui dare attenzione. Anche se la bellezza tradisce, per caducità o per rapido scorrere altrove. Nell’accettare fino in fondo il peso di questa sfida, Ricci ha lo spirito di chi «non evitò / i silenzi del giardino e la sua grande ­/ amarezza, e ci disse di un uomo nuovo»: un uomo nuovo di cui però non sa fornire esempi se non il proprio stesso, inesauribile tentativo.­ Ma, per chiudere davvero, concedetemi un altro topos: uno di quelli un po’ confortanti e un po’ perturbanti. Quello secondo cui la verità di una vita è già contenuta in nuce dall’inizio. Dales­sandro, nel suo Temperare la punta alla morte, ricorda la frase con­tenuta in un tema che Ricci scrisse da bambino, alle elementari, sulla felicità: «Felicità consiste nell’avere una cosa alla volta cui pensare». Per chi come me, mentre sta scrivendo queste ri­ghe, ha aperte dieci finestre parallele nel browser, la frase suona come un preveggente monito sui pericoli del multitasking. Ma la realtà è che da sempre, ben prima del codice binario, le ani­me senza guscio che ogni tanto decidono di esprimersi con la poesia sentono, insieme alla vertigine positiva, anche l’affanno del seguire troppe idee e troppi pensieri, del calarsi in troppi sguardi e in troppe identità, in una sete di vita che in certi momenti di peso sembra sete e basta. Viene il crampo, e la stanchezza, di essere in troppi posti contemporaneamente, in troppe epoche, in troppe persone. E la felicità davvero, allora, può apparire come la leggera e santa capacità di stare solo qui, nel presente, centrati e senza ulteriori seti, con una cosa alla volta cui pensare.

Michele Ortore

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