I RIFERIMENTI ARCHETIPICI DI VALERIA SEROFILLI

I RIFERIMENTI ARCHETIPICI DI VALERIA SEROFILLI

In questo intervento intendo soffermarmi su due recentissimi lavori di Valeria Serofilli, l’e-book Ulisse (La Recherche, 2014), una raccolta di brevi racconti, e la silloge poetica Vestali (Ibiskos Ulivieri); si tratta di opere differenti, pensate e realizzate autonomamente eppur non prive di molteplici rapporti ideali e formali, tali da rendere criticamente proficuo un attento esame comparativo. Occorre comunque muovere da una premessa: la ricerca della scrittrice, ormai piuttosto ricca di testi, appare caratterizzata dall’interazione di intensa esperienza personale e di raffinata elaborazione culturale-letteraria la quale canalizza e sublima i dati emozionali e sentimentali attraverso una strategia di allusioni prestigiose, di riferimenti archetipici di rilievo pregnante e dall’effetto universalizzante. Nelle prose che compongono Ulisse – spesso di “impronta lirica”, come bene ha visto il prefatore Ivano Mugnaini – i richiami formano grappoli associativi: Il mio uragano personale con te, che mi prendi e mi lasci come l’onda che sbatte sullo scafo. Ulisse sirena, naufragio d’anime. O Adamo e la sua donna, dai tempi  (racconto Ulisse  (il mio Ulisse); Ora e da ora, con te, sarà un nuovo viaggio. Riprende il volo d’Icaro, ma con ali che non siano di cera, che non si sciolgano al fuoco di nuove passioni: basi più solide per nuove fondamenta. Così ti dico – Buon viaggio, mio Ulisse – ( ivi, corsivo nel testo ). E’ indubbia d’altronde la centralità dell’antico eroe greco, stando altresì all’indicazione dell’autrice presente nell’explicit del racconto eponimo, racconto d’apertura che fin dal titolo – Ulisse (il mio Ulisse) – rivela quell’interazione compositiva a cui si è in precedenza fatto cenno: Con l’augurio, più che altro a me stessa, che tu sia un Ulisse omerico, che torna a casa dopo il varco delle colonne d’Ercole, e non dantesco, a perdersi nell’illimitato. Il rinvio alle grandi auctoritates poetiche, a due delle massime della letteratura europea, è di certo stimolante e giustifica una serie di considerazioni introduttive di carattere storico. Per quanto riguarda Omero, è da tener presente specialmente l’Odissea, giacché, se nell’Iliade l’argomento principale consegue da una puntualizzazione tematica sul filo del discorso narrativo ( l’ira di Achille e i suoi   effetti rovinosi per l’esercito degli Achei), nel secondo poema fin dall’inizio s’intende prevalentemente “cantare un uomo”( Àndra moi ènnepe, Musa…”), ovvero delineare e proporre un modello antropologico-culturale, suggerire le  peculiarità tipologiche di una figura esemplare e nondimeno assai complessa, di grande interesse proprio in forza delle tante sfumature che la contraddistinguono. Definire Ulisse “eroe del viaggio” può risultare banale; lo è meno porre in evidenza l’àmbito di costrizione, di sofferenza e di privazione in cui il paradigma “viatorio” si realizza ( la persecuzione del dio del mare Poseidone) e che induce nel navigatore il desiderio struggente del nostos, del ritorno. Gli episodî della guerra di Troia che rivivono nel canto dell’aedo Demodoco alla reggia di Alcinoo, re dei Feaci, provocano in lui un pianto accorato: egli è l’uomo che “molto sopporta” (polýtlas). Numerosi altri epiteti il poeta attribuisce al suo personaggio, con chiara volontà di qualificazione etica e psicologica; Ulisse è infatti ora polýmetis ( uomo dai molti pensieri, simbolo stesso della libido sciendi, come quando, nella caverna di Polifemo, si trattiene nell’antro perché vivamente interessato a conoscerne gli abitatori, o in occasione dell’incontro con le Sirene, allorché vuole ascoltarne il pericoloso canto ammaliatore), ora polýtropos  (dall’ingegno multiforme, dall’intelligenza duttile e, tra l’altro, capace di controllo razionale degli impulsi istintivi, come nell’atto di punire il Ciclope omicida o nel compiere la vendetta sui Proci), ma è pure polymèchanos (dalle tante astuzie, dai mille disegni ingannevoli, sostenuto in questo dall’avvincente, efficacissima, inarrivabile eloquenza). La tradizione post-omerica e segnatamente virgiliana operò con riduttivo schematismo sulla varietà e densità di quel modello, privilegiando le doti intellettive, ma sovente connotandole in senso negativo, poiché stimate coefficienti decisivi di obliquità fraudolenta, quando non di aperta malvagità: Ulisse è infatti designato quale dirus, saevus,  durus, pellax  e  fandi fictor, scelerum inventor… In Dante la sottolineatura valorizzante l’esigenza assoluta della conoscenza, la narrazione dell’avventura estrema dell’intelligenza esplorativa giungono a una tensione acuta al punto di configurare il “folle” ardimento e, secondo taluni interpreti, la dismisura di un comportamento passibile della condanna divina. Non è possibile in questa sede diffondersi ulteriormente sulla fortuna poetica di Ulisse, anche soltanto nella letteratura italiana, da Tasso a Foscolo; la sua figura così variamente e intensamente emblematica ha nel tempo sollecitato molti scrittori al confronto e all’appropriazione critico-culturale che nel Novecento si sono risolti in un significativo processo di frantumazione del profilo dell’eroe, attraverso la disgregazione dell’apparato mitologico solitamente ad esso connesso e un proposito selettivo mirante all’apprezzamento di un solo frammento della vasta costruzione omerica.  Avendo ormai alle spalle decenni di esperienza didattica, ricordo lo stupore degli studenti disorientati per la non immediatamente individuabile presenza di Ulisse nel celebre, omonimo componimento di Umberto Saba: “Nella mia giovinezza ho navigato / lungo le coste dalmate. Isolotti / a fior d’acqua emergevano… /  (…) Oggi il mio regno / è quella terra di nessuno. Il porto / accende ad altri i suoi lumi, me al largo / sospinge ancora il non domato spirito…”  ( vv. 1-3 e 9-12 ). Gli è che il riferimento alla terra di “nessuno” (noto eteronimo dell’Itacese) vale un atto di sfida morale, la rivolta contro l’ordinarietà delle comode, ma trite consuetudini, significa l’aspirazione a una vita libera, all’indipendenza etico-intellettuale insita nell’idea di “spingersi al largo”, di raggiungere il “mare aperto” che garantisce all’esistenza la qualità di un’avventura gratificante perché imprevedibile. Nella cultura del secolo appena trascorso prevale perciò un approccio personale alla vicenda del guerriero-navigatore, un’adibizione spiccatamente soggettiva di essa mediante l’utilizzo meditato di un particolare suggestivo, di un tratto che risulti connaturale e coinvolgente. Analoga è la disposizione mentale di Valeria Serofilli, secondo quanto è possibile acquisire tramite l’analisi testuale; comincio pertanto con due citazioni, la prima proprio dall’inizio del racconto Pagina mare: Liquidità e fisicità, due realtà così diverse, come possono del resto andare d’accordo? Forse solo in virtù del fatto di essere entrambi, uomo e mare, simboli della dinamica della vita e della creazione in senso ampio. Ma cos’è mai l’uomo? Non è forse un abisso, non è forse, come l’acqua, un fluire continuo in continua transizione tra le cose da compiere e il già portato a termine? E l’altra dalla quarta sezione (Itaca) della raccolta poetica Vestali: “Ma che senza accorgermene / mi portava nei suoi abissi / gabbia di cristallo mai infranta / E la sete, la pazzia/ la cieca corsa verso il mare aperto / smarrendo il mio sguardo/ oltre la soglia dell’amore”  (Malata di tua perdizione, vv.4-7 ). E così il motivo “viatorio” e la prospettiva della libera espansione vitale dell’individuo si precisano in queste pagine nel senso dell’incontro con l’altro, nell’intesa “empatica” con il “compagno della vita”, nella relazione anche e soprattutto fisico-amorosa, sensualisticamente appassionata; e questo si determina all’interno di una concezione della realtà inequivoca e incardinata sui concetti di liquidità e di solidità, del resto fondamentali pure quali fattori dell’organizzazione formale dei testi. La liquidità rimanda al costante fluire tipico dell’ordine delle cose e in particolare della condizione umana, nella sua dimensione esteriore (quella dei rapporti interpersonali) e in quella intima: E la notte il sub, piccola anima errabonda, mi ha chiesto scusa con un bacio e un dolce abbraccio ( racconto Il sub, corsivo mio ); Si decise infine che la piccola anima errabonda potesse continuare a “nuotare” fino alla vita… ( racconto La sirena, corsivo mio ); Perché il bello consiste nell’essere di ritorno da ogni dove senza essere andati da nessuna parte se non dentro se stessi e il proprio animo ( racconto Un viaggio dentro). Fluire è il continuo mutamento, la lotta all’abitudine, all’impersonalità delle situazioni cristallizzate (“Passavano le stagioni, mutavano i luoghi, non la nostra anima. Presto avremo fatto ritorno alla nostra vita di sempre ma ora eravamo felici e il fatto che non ci accorgessimo di esserlo, voleva dire che lo eravamo”, da Un viaggio dentro ), ma comporta altresì variabilità, incertezza, precarietà, potenziale disordine: “Ma vento che va e viene / ed io disillusa penelope che / tesse e disfà / Quale più annichilente vertigine a stordirmi / e rinsavire? (Scirocco, in Sezione prima, Sirtaki, vv.12-16). Ora l’incessante mutabilità – e la conseguente instabilità intellettuale e sentimentale-morale – non sono congeniali all’animo umano, che sa di certo godere dell’intensità dei momenti straordinarî, ma non si appaga dell’attimalità esaltante: pretende di fissare, dare consistenza stabile, continuità e durata alle situazioni, anche sensuali e voluttuarie, fisico-corporee: “Tutti gli incensi/ dall’ambra al muschio selvatico / non valgono una stilla / del profumo della tua pelle / Dopo l’amore  / sul tuo corpo tracce / del nostro amplesso/ miste ad altri odori / di cui non mi spiego il senso”  (Penelope,in Sezione , Ulisse,vv.13-15); mentre intesso tasselli musivi sul tuo corpo/ ogni tassello un ricordo (ivi,vv.7-11); E’ che l’amore lo riconosci dall’odore e tu hai l’odore dell’uomo della mia vita (racconto Ulisse). Viaggiare affascina, eppure è necessario il “rientro in porto”, e quindi il possesso sicuro, il saldo legame, l’appartenenza profonda che trasformi l’ebbrezza dei sensi, la vibrazione passionale in relazione duratura, in tela solida e resistente, lungi dalle cadute nell’amarezza dell’abbandono, nella solitudine del freddo, sterile ricordo: “A chi interessa / se ha trasformato ogni mio gemito in tormento / se folle/ cerco il suo calore adorato / nel buio e gelo di una stanza vuota? / Mi trovo ora a vacillare incerta sui colori accesi di quei nostri giorni”  ( Malata di tua perdizione, cit., vv. 15-19). In questi versi della poetessa moderna si avverte l’eco dei lamenti di donne d’altri tempi rivolti agli amanti lontani, del tipo di quelli consegnati, per esempio, all’elegia amorosa di Ovidio nelle Heroides, che non casualmente principiano proprio con la lettera di Penelope allo sposo assente da anni: Hanc  tua  Penelope  lento  tibi mittit, Ulixe/ nil rescribas attinet: ipse veni! (vv.1-2: “E’ tua moglie Penelope a inviarti questa lettera, Ulisse, tardivo a ritornare; non c’è bisogno che tu risponda: vieni di persona!”); Tu citius  venias, portus et ara  tuis! (v.110 : “Torna al più presto, tu che per i tuoi cari sei porto e altare di salvezza!”). Il libro ovidiano raccoglie il dolente messaggio d’amore di molte eroine del mito, da Arianna a Didone. Lo strazio della regina cartaginese abbandonata da Enea era stato già rappresentato con insuperati accenti patetici da Virgilio nel quarto libro dell’Eneide, ove si legge uno spunto, che forse sarà stato presente alla Serofilli, perché corrispondente appunto a quella necessità  di assicurare tangibile continuità, carattere non transeunte all’incontro erotico-sentimentale: Si  quis  mihi parvulus  aula/ luderet Aeneas, qui te tamen ore referret/ non equidem omnino capta ac deserta viderer (vv.328-330: “Se giocasse per me nella sala del trono un piccolo Enea che nondimeno riportasse nel volto la tua fisionomia, non mi sembrerebbe di essere del tutto umiliata e abbandonata”). Invero nella lirica Penelope prima citata si leggono versi siffatti: “Ci siamo lasciati / e ripresi mille volte / tra infinite voglie / Il filo interrotto e saldato / è diventato tronco / su cui arrampicarsi:  / voglio un cambiamento / una catarsi”  (vv.5-12). L’uomo è per sua natura incline a fermare, a stabilizzare, non si rassegna facilmente al flusso permanente, come annotava con incisiva lucidità Luigi Pirandello in un passo famoso del saggio L’umorismo (1908): La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo di arrestare, di fissare in forme stabili e determinate, dentro e  fuori di noi, perché noi siamo già forme fissate…Ma dentro di noi stessi, in ciò che noi chiamiamo anima e che è la vita in noi, il flusso continua, indistinto, sotto gli argini… Al netto dell’impianto critico-riflessivo del discorso del grande scrittore e drammaturgo siciliano e a prescindere dalle deduzioni che egli ne ricavava sul fondamento di un radicale scetticismo corrosivo e demistificatore, un atteggiamento simile si riscontra anche in queste ultime  opere di Valeria Serofilli, dominate dall’antitesi fra attimalità e continuità, fra dionisismo e vestalità (intesa quale vocazione alla custodia del sacro fuoco dell’amore: “Eccomi Vestale/ in estasi di te”, Sirtaki, in Sezione prima, Sirtaki,v.1). La visione dell’autrice è a ben vedere in buona parte contraddittoria, per cui non sorprende che a conclusione dell’ultima sezione di Vestali  i versi appaiano strutturati secondo un insistito, elegante gioco di antitesi: “Ma questa è l’ora/ in cui ti desidero forte:  /  Ferita ormai cauterizzata  / torna  più acceso di prima / più tenace (…) / nel freddo eri la luce che  scaldava il cuore / ora tu il buio, il buco nero / nel mio nuovo, vano tentativo di luce ( vv.11-12 e 20-23).

Floriano Romboli

Postfazione

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